di Eloisa Morra
[Cent’anni fa nasceva Toti Scialoja. Esce in questi giorni il saggio Un allegro fischiettare nelle tenebre. Ritratto di Toti Scialoja (Quodlibet) di Eloisa Morra. Quella che segue è la premessa del libro]
Nel leggere le poesie di Toti Scialoja viene da farsi la stessa domanda che Anna Banti si poneva recensendo Fenoglio: «Chi ha scritto le pagine che andiamo leggendo?»[1]. Fenoglio scomparve, senza essersi rivelato in pieno, a quarantuno anni, circa la metà di quelli che Scialoja (1914-1998) avrebbe vissuti. Malgrado nel suo arco biografico quest’ultimo abbia maturato in pienezza più vite d’artista, quella domanda così disarmata, e così essenziale, si ripropone anche per lui con la stessa urgenza interrogativa. Che si tratti dei nonsense sugli animali, aerei e sghembi, o delle poesie scritte nell’ultimo trentennio di attività, i versi di Scialoja – ricolmi di echi letterari, eppure come nati da se stessi – suonano nuovi, inattesi e difficilmente situabili in un orizzonte italiano (o sullo scaffale più o meno illustre in cui si allineano i suoi contemporanei).
Quando poi il lettore scopre che quei congegni dalla metrica perfetta, capaci di saltare in un soffio dal comico al malinconico, dall’assurdo all’angoscioso, sono opera di un noto pittore astratto, è coup de foudre. Eppure, oltre a radunare una cerchia di appassionati, grandi e piccoli, i suoi esperimenti poetici hanno generato anche reazioni di perplessità e diffidenza. Pittore o poeta? Poeta per adulti o per bambini? Autore comico o serio? La furia della reductio ad unum porta a risposte perentorie ed esclusive, che tendono a sottovalutare o addirittura a scartare una delle due componenti. È anche per questo, ma non solo, che la fortuna di Scialoja poeta non corrisponde a quella di Scialoja pittore:
Nonostante un’attività poetica dispiegatasi per un lungo arco di anni (1961-1998), non si può dire che alla figura di Scialoja poeta abbia arriso una fama pari a quella che ha conosciuto il pittore. Se guardiamo alle antologie, un tipico indicatore della fortuna di un poeta novecentesco, è facile constatare come siano molte quelle che lo ignorano senz’altro […] Eppure Scialoja è stato apprezzato da critici-scrittori d’eccezione: da Antonio Porta fino a Giorgio Manganelli, per il quale la sua invenzione linguistica costituisce «uno dei fatti più singolari della letteratura italiana di questi anni», e a Giovanni Raboni, che ha additato in lui «il talento poetico più originale e compiuto rivelatosi in Italia nel corso degli anni Settanta e Ottanta»[2].
Il passare del tempo non fa che dare conferma al bilancio stringato quanto appassionato di Luca Serianni: se al riconoscimento tardivo si è cercato di ovviare attraverso contributi che illuminano singoli aspetti[3], manca ancora uno studio che miri ad attraversare l’itinerario creativo di Scialoja in più direzioni, riuscendo a fornirne un ritratto a tutto tondo. Il motivo di questa lacuna non è difficile da intuire: la sua esperienza è un unicum, del tutto diversa da altri esempi di coesistenza fra due vocazioni. Non di rado accade che il poeta o l’artista in questione «releghi in secondo piano una delle due arti, lasciandole un posto di “violon d’Ingres”, o, nei casi migliori, di “secondo mestiere”»[4]. Scialoja va invece nella direzione opposta: a guidarlo è lo sforzo costante nel continuare a scrivere e a dipingere con lo stesso impegno, pur cercando di tenere sempre ben separate le due arti, nella sua mente e anche nella concretezza del quotidiano. Da qui i due diversi studi, e la scansione della sua giornata in due metà: la mattina passata a scrivere (o sulla sua Valentina rossa, o, disordinatamente, sui biglietti del tram), il pomeriggio dedicato alle tele preparate e stese a terra, nella casa-studio a Santa Maria in Monticelli, dal suo assistente.
La distinzione tra primo e “secondo mestiere” nel suo caso risulta quindi arbitraria; nessun gioco delle parti, come del resto sottolineava Giovanni Raboni:
Non sono le poesie di un pittore più di quanto i suoi quadri siano quadri di un poeta; cioè molto, ma non tanto da impedirne una fruizione perfettamente autonoma[5].
Autonoma, e apparentemente[6] dettata dalle mosse d’uno spirito dissonante: tanto spensierato e leggero nei nonsense degli anni settanta, quanto alla «ricerca dell’assoluto» attraverso un «percorso imperfetto verso l’invisibile»[7] nei quadri astratti, nati da un decisivo cambiamento di rotta creativa risalente ai primi anni Cinquanta. Eppure l’interrogativo sul rapporto tra le vocazioni di Scialoja è rimasto sempre aperto; ne è indice la curiosità che ancora nel 1990 Cesare Garboli lasciava trapelare nel recensire la sua silloge più nota, i Versi del senso perso:
Che rapporto c’è tra la morbidezza, la raffinatezza così vellutata di un poeta che si diverte tenacemente col nonsenso in funzione di amabili terrorismi puerili e di riossigenazione del linguaggio, e un pittore passato dalla scuola romana all’astrattismo, all’informale e al geometrismo corporeo? Che mistero c’è sotto?[8]
Le risposte a questo interrogativo sono molte; nessuna è davvero definitiva. Questo libro è uno dei possibili tentativi di metterle in sequenza, anzi, di dare loro un intreccio: ho preferito procedere per scarti obliqui, ovvero estraendo alcuni frammenti di quella che Barthes era solito chiamare «biografia disorientata»[9].
Il saggio si apre all’insegna di una ricostruzione del clima familiare, degli spostamenti e delle prime scoperte intellettuali di Scialoja bambino e adolescente: sono incontri reali e immaginari. Se tra quelli avvenuti in carne e ossa spicca la figura di Trilussa, finora trascurata nel tracciare la sua genealogia poetica, tra i secondi – consumati sulle pagine con inserti in cartoncino dell’«Enciclopedia dei Ragazzi» o in quelle, più sottili, del «Corriere dei Piccoli» – non si fa dimenticare Antonio Rubino, illustratore da libri delle meraviglie. È proprio grazie ai poderosi volumi dell’«Enciclopedia» che Toti si imbatte per la prima volta nella tradizione del nonsense – gli omini di Edward Lear, l’implacabile logica di Lewis Carroll –, cui molti anni dopo conferirà una fisionomia tutta italiana dando vita alla poesia del “senso perso”[10]. Ma nella polifonia degli stimoli ricevuti nella prima infanzia spicca la nota stevensoniana che dà titolo al capitolo d’apertura. L’incrocio tra le risonanze di un’intervista e la biblioteca personale di Scialoja (conservata a Roma nella sua interezza) ha difatti rivelato il ruolo cruciale del narratore inglese nel delineare un’idea di letteratura per cui «esperienza morale e avventura diventavano una cosa sola, e questa cosa si trasformava in uno stile»[11].
Stile, moralità, humour: a partire da queste parole chiave, e da alcuni evidenti paralleli tra la testimonianza di Scialoja e un intervento di Italo Calvino sull’«Unità» del 1955, ho evidenziato un possibile rapporto tra i due autori – non sarà l’unico caso.
Il secondo e il terzo capitolo sono dedicati alle “prove d’orchestra” del poeta-pittore. Le linee di questo antefatto poetico, a oggi del tutto sconosciuto, rivelano uno Scialoja alle prese con stimoli molto diversi: la sua avventura intellettuale continua alla Galleria della Cometa, dove ha l’occasione di incontrare ispiratori o amici come Scipione, Mafai e Orfeo Tamburi. Ma la figura centrale nella sua prima formazione sarà Libero De Libero, che gli proporrà di collaborare a «L’Italia letteraria» e al «Meridiano di Roma». Gli anni Trenta sono scorsi poco più che a metà: proprio su queste riviste appaiono i suoi primi racconti e recensioni, finora dispersi, che oltre ai debiti col simbolismo francese si fanno notare per le tangenze con i lavori di Tommaso Landolfi e Bruno Barilli. Poi, una delusione giovanile porterà Scialoja ad allontanarsi dalla poesia per dedicarsi alla pittura: e il suo pennello non mancherà di ispirare visivamente i suoi amici scrittori, su tutti Alberto Moravia, che – folgorato dal suo dipingere en plein air durante un viaggio ad Anacapri nell’inverno del 1940 – lo inviterà a disegnare la copertina dei Sogni del pigro, una raccolta dei suoi racconti surrealisti. È così che Scialoja riscopre il suo innato talento di caricaturista, dimostrato in alcune splendide vignette e filastrocche illustrate; ma il suo è un umorismo particolare e difficilmente catalogabile, e a dimostrarlo varrà il confronto con i couplets pubblicati nello stesso periodo da Mino Maccari sulle pagine del «Selvaggio», di cui d’altronde lo stesso Toti era collaboratore abituale ed entusiasta.
La quarta e ultima parte è dedicata alla poesia nonsense e ai volumetti illustrati pubblicati negli anni Settanta. Versi che, grazie al patrocinio di Italo Calvino in Einaudi, hanno reso il poeta famoso come «primo vero esempio italiano della straordinaria tradizione inglese del nonsense e del limerick»[12]. Ricostruirò nella sua interezza il percorso “dovuto al caso” che ha portato Scialoja a diventare poeta per bambini (e per adulti): da un lato la storia editoriale, e i diversi interlocutori incontrati; dall’altro le immagini, e la loro evoluzione dai primi esperimenti grafici – in gran parte inediti, e finora sconosciuti – fino alla pubblicazione in volume.
L’universo figurativo di Scialoja non è dominato soltanto dalle cifre grafiche di Edward Lear e Lewis Carroll, come ci si potrebbe aspettare; a intuirlo è stata Paola Pallottino, che nel saggio Toti, topi e topoi iconografici ha riscontrato un parallelo iconografico tra i libri di Scialoja e le Scènes de la vie privée et publique des animaux di Grandville[13]. Svilupperò la sua ipotesi, mostrando come le incisioni dell’illustratore francese segnano un cambiamento di rotta nella storia della “distillazione iconografica” dei libri degli anni Settanta. L’epilogo di questa analisi si è riallacciato al punto di partenza in modo inaspettato. Le strade di Scialoja e Calvino tornano a incrociarsi: nello stesso arco di tempo, ma indipendentemente l’uno dall’altro, i due danno vita a esempi di «leggerezza pensosa»[14] – un «fischiettare nelle tenebre»[15], per usare le parole di Toti stesso – nati nel segno della medesima ispirazione visiva.
Le pagine di Scialoja le guardiamo, prima di leggerle, e anche dopo averle lette; speriamo che lo stesso piacere sia riservato a tutti i visitatori e spettatori della sua opera.
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Note
[1] A. Banti, Nuove stagioni di Pasolini e Fenoglio (1959), raccolto in Ead., Opinioni, Il Saggiatore, Milano 1961, p. 200.
[2] L. Serianni, Il gioco linguistico nella poesia di Toti Scialoja, in «Nominativi fritti e mappamondi». Il nonsense nella letteratura italiana, Atti del convegno di Cassino, 9-10 ottobre 2007, a cura di G. Antonelli e C. Chiummo, Salerno, Roma 2009, pp. 300-322.
[3] Per una riedizione recente dei nonsense si veda T. Scialoja, Versi del senso perso, con una prefazione di P. Mauri e una rassegna critica di O. Bonifazi, Einaudi, Torino 2009; le poesie “serie” sono invece raccolte in T. Scialoja, Poesie 1979-1998, a cura e con una prefazione di G. Raboni, Garzanti, Milano 2004. Recenti contributi critici poi sono il catalogo Toti Scialoja. Toti e topi, a cura di B. Drudi e L. Mocci, Lapis, Roma 2000, e gli studi di B. Frabotta, L’estrema volontà. Studi su Caproni, Fortini, Scialoja, Giulio Perrone, Roma 2010 e Ead., Toti Scialoja: le malinconie di un poeta comico, in Il comico nella letteratura italiana, a cura di S. Cirillo, Donzelli, Roma 2005, pp. 489-503.
[4] G. Raboni, Per il verso giusto, «L’Europeo», 10 marzo 1989, ora in G. Raboni, La poesia che si fa. Cronaca e storia del Novecento poetico italiano: 1959-2004, a cura di A. Cortellessa, Garzanti, Milano 2005, p. 363.
[5] G. Raboni, Antinovecentismo di De Pisis, in G. Raboni, La poesia che si fa. Cronaca e storia del Novecento poetico italiano: 1959-2004, cit., p. 34.
[6] L’uso dell’avverbio è d’obbligo: nel caso di Scialoja l’esercizio di due arti così distanti – una legata alla materialità del quadro, l’altra alle quanto mai immateriali parole, che però tratta come cose – è motivato da quel forte legame concettuale identificato da Deleuze come fondante per chiunque si appresti a far propri due diversi linguaggi. Si veda G. Deleuze, Che cos’è l’atto di creazione? (Qu’est ce que l’acte de création?, in Deux régimes des fous. Textes et entretiens, 1975-1995, a cura di D. Lapoujade, Les Éditions de Minuit, Paris 2003), a cura di A. Moscati, Cronopio, Napoli 2003: «L’incontro tra due discipline non avviene quando l’una si mette a riflettere sull’altra, ma quando una si accorge di dover risolvere per contro proprio e con i propri mezzi un problema simile a quello che si pone in un’altra». È poi da sfatare il mito per cui la poesia e i nonsense fossero per Scialoja niente più che un divertimento; e a dimostrare in modo concreto quanto avevano già intuito Renato Barilli (R. Barilli, Un solare Mr. Hyde, in Animalie. Disegni con animali e poesie, catalogo della mostra di Bologna, 30 marzo-24 aprile 1991, a cura di A. Rauch, Grafis, Bologna 1991, p. 16) e Luca Serianni (L. Serianni, Il gioco linguistico nella poesia di Toti Scialoja, in «Nominativi fritti e mappamondi». Il nonsense nella letteratura italiana, cit., p. 309) varrà l’analisi del complesso processo di selezione ed elaborazione delle poesie e delle illustrazioni che le accompagnano.
[7] Lettera di Toti Scialoja a Giorgio Agamben, 19 marzo 1980. La si legge in G. Appella, Vita, opere, fortuna critica, in F. D’Amico (a cura di), Toti Scialoja. Opere 1955-1963, catalogo della mostra, Galleria dello Scudo (Verona, 5 dicembre 1999-13 febbraio 2000), Skira, Milano 1999, p. 34.
[8] C. Garboli, Le parole sulla scacchiera, «la Repubblica-Mercurio», 27 gennaio 1990, p. 17.
[9] R. Barthes, «Longtemp je me suis couché de bonne heure…», in Id., Œuvres complètes, 5 voll., a cura di E. Marty, Seuil, Parigi 2004, vol. V, p. 463: «[C]e que le principe de vacillation désorganise, ce n’est pas l’intelligible du Temps, mais la logique illusoire de la biographie, en tant qu’elle suit traditionnellement l’ordre purement mathématique des années».
[10] Cfr. D. Fasoli, Nonsense all’italiana, «il manifesto», 24 giugno 1990.
[11] I. Calvino, Ricordo di Emilio Cecchi, in Id., Saggi 1945-1985, a cura di M. Barenghi, Mondadori, Milano 1995, pp. 1034-1039: 1037. L’articolo era originariamente apparso, con titolo Cecchi e i pesci drago, su «la Repubblica», 14 luglio 1984.
[12] I. Calvino, quarta di copertina a T. Scialoja, Una vespa! che spavento, Einaudi, Torino 1975.
[13] P. Pallottino, Toti, topi e topoi iconografici, in Animalie. Disegni con animali e poesie, cit., pp. 9-13: 12.
[14] Impossibile non rimandare alle pagine sulla leggerezza contenute in I. Calvino, Lezioni americane. Sei proposte per il prossimo millennio (1988, postumo), in Id., Saggi 1945-1985, cit., pp. 631-655: 639: «Spero innanzitutto di aver dimostrato che esiste una leggerezza della pensosità, così come esiste una leggerezza della frivolezza; anzi, la leggerezza pensosa può far apparire la frivolezza come pesante e opaca».
[15] Archivio Einaudi, in deposito presso l’Archivio di Stato di Torino, Autori italiani, corrispondenza, Scialoja Toti, cart. 191 fasc. 2765.
[Immagine: Toti Scialoja, Senza titolo (gm)].
caro Eloisa, sono molto lieta di questo libro, necessario per render giustizia, e preservare, i “dissonanti” della e nella nostra cultura, Viola
sorry, cara, ovviamente
Grazie dell’incoraggiamento Viola. Spero che la monografia riesca -almeno in parte!- a far tornare l’attenzione della critica su un autore ancora poco studiato e (ri)conosciuto.