di Claudio Giunta
La ventottenne G. è una studiosa eccellente: si è addottorata quest’anno col massimo dei voti, ‘dà una mano in università’, ma senza alcuna prospettiva di assunzione o di contratto (troppo giovane, non ha potuto fare il concorso che – un grato pensiero ai dirigenti del MIUR, se mi stanno leggendo – ha saturato l’università per il decennio a venire), e per il resto lavora come cameriera, soprattutto d’estate e durante le feste di Natale. Le piacerebbe insegnare a scuola, qualsiasi scuola, dalle elementari ai licei, ma non può, perché – troppo impegnata col dottorato, che se preso sul serio è molto gravoso – non ha fatto il concorso per l’abilitazione (TFA) bandito due anni fa, né ha potuto accedere al Percorso Abilitante Speciale (PAS) riservato a coloro che avevano un’esperienza d’insegnamento di almeno tre anni (troppo giovane, di nuovo), né potrà iscriversi al ‘percorso abilitante’ biennale che il ministero e le università stanno organizzando per i prossimi anni.
È un grosso errore, e un grosso spreco. Dovremmo agire in modo tale da permettere alla ventottenne G. di andare, subito, a insegnare: lei e quelli come lei, gli addottorati d’Italia, dovrebbero avere la possibilità di entrare immediatamente nelle scuole, senza ulteriori corsi, prove, concorsi. Nel dossier ministeriale intitolato La buona scuola, che consta di 136 pagine, le parole dottorato e dottorandi neanche ci sono: come se quei giovani studiosi non avessero alcun rapporto con la scuola, come se fossero incamminati verso un futuro che non può e non deve avere alcun rapporto con l’insegnamento scolastico. Ed è così, infatti, ma – ripeto – è un errore.
Tra loro ci sono persone che non sono veramente tagliate per l’insegnamento medio o superiore? È possibile, anzi è sicuro. Ma da un lato è anche probabile che – per la coscienza di sé che si ha a ventott’anni, e che non sempre si ha a ventitré – questi dottori di ricerca sappiano di essere negati all’insegnamento, e decidano di percorrere altre strade: che si eliminino da soli, insomma. Dall’altro, possibilità di insegnare a scuola non significa diritto incondizionato a farlo, e si possono pensare facilmente degli strumenti di verifica e selezione. Un colloquio approfondito con il dirigente scolastico è la cosa più ovvia: non assumono così, le aziende? Ma poi bisogna ricordare che ogni dottore di ricerca è stato seguito per tre anni da un tutor scelto tra i suoi docenti universitari, un tutor che si sarà fatto un’idea sulle sue chances di essere un buon insegnante: al tutor, dunque, potrà essere chiesto un parere motivato in questo senso.
Tra i dottori di ricerca ci sono persone che hanno passato anni a glossare Nonno di Panopoli ma non conoscono neppure i rudimenti della pedagogia? Sicuro anche questo. Ma sono tutte persone che conoscono bene le discipline che insegnano, e che con un po’ d’esperienza, qualche buona conversazione con dei pedagogisti intelligenti, all’università (o con colleghi più anziani, nella scuola) e un po’ di letture impareranno anche ad essere dei buoni insegnanti. Per essere ancora più chiari: sono persone abbastanza mature da non aver bisogno, dopo ventun anni di studi, di un altro anno di lezione sul brainstorming e il cooperative learning, così come non hanno bisogno di altre lezioni (mie, per ipotesi) di letteratura italiana, o di storia, o di matematica (se ne hanno bisogno vuol dire che non dovevano essere ammesse al dottorato, e che l’errore è stato fatto prima). Buone letture integrative, specie su questioni di didattica che non hanno approfondito a scuola, buone conversazioni con specialisti di pedagogia, tirocinio semestrale in classe: e basta.
Sarebbe anche un modo sensato, spiccio, per nulla dispendioso, di ridare un senso all’istituto del dottorato. Perché temo che, se continua così, i concorsi di dottorato cominceranno ad andare deserti: se un laureato in filosofia sa che, conseguito il dottorato, avrà scarse possibilità di fare carriera accademica (perché così stanno le cose) e nessuna possibilità di insegnare (perché avrebbe dovuto frequentare il biennio abilitante), il laureato in filosofia ci penserà due volte prima di fare un dottorato. Quanto agli scienziati, non tutti (e non tutte, in ispecie) sono disposti a fare un dottorato in fisica, se sono quasi certi di dover poi andare all’estero per lavorare: sapere di poter almeno insegnare a scuola, in Italia, potrebbe convincere i dubbiosi a tentare la strada della specializzazione, con beneficio per loro, per i loro studenti e per la collettività.
La collettività, appunto. Tendiamo infatti a dimenticare che il dottorato costa molti soldi alle università, cioè soprattutto allo Stato, ma allo Stato apporta un beneficio miserrimo, dato che soprattutto nelle discipline umanistiche è molto esiguo il numero degli addottorati che fa carriera universitaria o che può spendere quel titolo in un’altra professione (almeno in Italia: all’estero le cose stanno diversamente, la sigla Ph.D. fa il suo effetto, e anche per questo tanti dottori di ricerca formati a nostre spese lasciano il Paese): dal momento che investiamo in questi giovani, pagandoli per tre anni, non si vede perché non si debba, poi, farli lavorare per lo Stato, se hanno voglia di farlo.
Questi insegnanti addottorati toglierebbero il posto agli aspiranti insegnanti che sono iscritti nelle graduatorie, o agli abilitati? Sì, toglierebbero qualche posto, ma non molti. In Italia gli addottorati sono, ogni anno, circa diecimila, ma per gran parte costoro non ci pensano nemmeno, ad andare a insegnare a scuola, sicché alla fine si tratterebbe probabilmente di alcune centinaia di persone, più che di alcune migliaia, concentrate soprattutto nei settori delle cosiddette scienze speculative.
La cosa non dovrebbe essere troppo difficile: immagino cioè che rientri tra i provvedimenti che un ministro – e il ministro attuale sa, per fortuna, cos’è la formazione dottorale – può prendere senza dover riscrivere i principi fondamentali della Costituzione.
[Già pubblicato sul Domenicale del Sole 24 ore, 14 dicembre 2014].
[Immagine: Adam Magyar, Urban Flow (gm)].
L’articolo è interessante e in più punti condivisibile, tuttavia ritengo che la questione di dare le possibilità di insegnare ai dottorati di insegnare debba prima portare a chiedersi quali attività si fanno nei corsi di laurea e poi nei corsi di dottorato, specialmente nelle facoltà umanistiche. Non sono ovviamente a conoscenza di come sono diverse queste attività da università a università, ma ho l’impressione che nei corsi di laurea le attività si limitino a lezioni frontali e interrogazioni di seguito a queste (spesso solo orali e meno volte scritte) e poi spesso l’unica attività diversa è il lavoro finale della tesi (spesso del tipo sull’indagare interpretazione di questo o quel brano di quel filosofo o poeta del passato, più raramente su problemi attuali di bioetica o su quanto valore letterario ha questo poeta attuale). Il dottorato di ricerca se non erro si basa su realizzare un lavoro di ricerca più sviluppato di quello della tesi di laurea e (quando va bene) anche dei seminari in cui ogni partecipante porta brevi lavori scritti o elenchi di domande su un certo argomento, sempre comunque lavori di ricerca teorici.
Questo comporta il fatto che secondo me i laureati sanno abbastanza del loro argomento ma a parte la tesi, non hanno grandi esperienze pratiche legate a tale materie (ad eccezione, penso, dei lavori di comprensione e traduzione di lingue classiche e straniere) e i dottori di ricerca in materie umanistica sanno molto del loro argomento e del compiere ricerche teoriche, ma non hanno esperienza di attività legate alla materia che siano diverse da ricerche teoretiche. Penso non solo a cose come fare lezioni a studenti delle superiori ma anche a cose come organizzare eventi in teatro per far conoscere tragedie greche, o organizzare eventi nei musei o in monumenti storici per rievocare eventi dell’antichità, oppure tenere corsi di scrittura creativa o di teoria dell’argomentazione, o di organizzare consultazioni per dibattere come cittadini di questioni di bioetica o di diritti umani, o di compiere opere di divulgazione nei giornali…
Insomma, secondo me bisogna “scardinare” quella visione delle cose ancora fin troppo comune che ritiene che le uniche occupazioni di sbocco dopo aver preso una laurea umanistica sono o la ricerca teorica o l’insegnamento. Si tratta secondo me di una visione molto miope dell’umanesimo come “fine a se stesso” che è stata motivata soltanto dal “tenersi lontano dal lavoro e da ogni attività pratica in quanto sfruttamenti che mercificano ogni cosa” e che ha portato a enormi disastri come il dimenticarsi che invece le applicazioni pratiche stimolano moltissimo le ricerche teoriche (è grazie ad esempio anche all’invenzione pratica della stampa che i romanzieri e poeti europei hanno avuto nuovi stimoli ed ispirazioni di valore).
Penso quindi che prima di aggiungere nuovi percorsi che rendono possibile l’insegnamento occorre aggiungere nuovi percorsi che rendano possibili altre attività pratiche legate alle attività umanistiche e aggiungere all’interno dei percorsi di laurea e di dottorato brevi periodi (magari facoltativi e con possibilità di scelta) di queste attività pratiche.
Condivido in pieno ciò che è stato scritto. Il problema da tenere in considerazione è che la meritocrazia è da anni ormai lontana dai nostri atenei. Non è cosa rara infatti incontrare docenti, o meglio pseudo docenti, che non si sa come e non si sa perché siano riusciti ad ” entrare” e tutto ciò a scapito, spesso, di persone molto più qualificate. Il problema è quindi di natura etica e in secondo di natura economica.
FDG
Gent.mo professor Giunta,
vorrei tanto conoscere questa eccellente studiosa di cui parla; mi chiedo se anche lei non abbia poi contribuito a tutto questo che è oggi l’università.
cordialmente
Pur stimando molto Claudio Giunta e avendo condiviso spesso in passato le sue considerazioni, mi sfugge il senso di questo articolo. La brillante dottoranda, come altri suoi colleghi, se vuol insegnare nelle scuole basta che presenti le domande ai presidi: faccio presente che nel liceo classico statale in cui insegno diverse classi sono rimaste scoperte, perché per più di un mese non si è presentato alcun supplente, in quanto la supplenza non era considerata sufficientemente lunga da essere appetibile. Le convocazioni andavano deserte. Bisogna avere un po’ di umiltà e partire dal basso, come abbiamo fatto tutti, andando a consegnare a mano le domande ai presidi, anche nelle scuole private.
Però mi domando: perché viene considerato normale che un dottore di ricerca non abbia possibilità di entrare all’università? Anche all’università si insegna, no? Come si è arrivati alla saturazione? Mi pare questo un punto importante del problema, perché si tratta di un vero e proprio furto di futuro perpetrato sulla pelle di una generazione di studiosi. Mi pare che gli universitari tendano a non farsi sufficientemente carico di questa che chiamerei una responsabilità storica. Vogliamo forse evitare per sempre di riflettere su quanto è successo alle facoltà di Lettere negli ultimi decenni? La assoluta assenza di trasparenza nella cooptazione di docenti? Le divisioni intestine, le lotte fratricide, l’incapacità di selezionare gli studiosi realmente migliori e di “fare scuola”… Certo, tutto ciò è avvenuto ovunque, in tutte le facoltà, ma ha nuociuto alle facoltà umanistiche più che alle altre, perché ha minato alle radici il loro prestigio e, purtroppo, ha facilitato l’opera di coloro che desiderano smantellare in quanto inutile tutto ciò che pertiene gli studi letterari.
Dunque ben vengano i dottori di ricerca nelle scuole, ma con la consapevolezza che ce ne saranno sempre meno e questo è un danno molto grave di cui prima o poi qualcuno dovrà assumersi la responsabilità.
Giunta ha perfettamente ragione; ho amici che fanno il dottorato in Italia e spesso si trovano in netto svantaggio rispetto a chi ha fatto il TFA. Alcuni di loro — specialmente quelli che hanno vera passione per l’insegnamento, cioè molti — si stanno effettivamente chiedendo se fare il dottorato sia stata la scelta giusta, visto che la possibilità di continuare a lavorare all’università non esiste, l’occasione del TFA è persa ed altre vie per entrare ad insegnare a scuola non ci sono. Sarebbe ora di ripensare il dottorato italiano, di renderlo più professionalizzante. Negli Stati Uniti –che non sono il Paese di Cuccagna ma dove comunque il sistema universitario ancora funziona abbastanza bene — nel PhD è previsto un periodo obbligatorio di insegnamento. Insegnare durante il dottorato è un grande impegno, ma è anche un’esperienza umana che arricchisce; si ha l’opportunità di mettersi alla prova non solo come studiosi, ma anche come persone in grado di trasmettere la passione per la propria materia. E la fatica si trasforma, dopo un primo momento di assestamento, in soddisfazione. Sarebbe utile introdurre un qualcosa di simile nel dottorato italiano. N.b. Ovviamente i momenti di insegnamento in America sono retribuiti, e viene prima fatto un corso introduttivo di pedagogia (nel mio caso specifico, di linguistica e insegnamento di una seconda lingua).
Credo che chi abbia scritto questo articolo non abbia una grande conoscenza del mondo della scuola né conosca l’attuale sistema di reclutamento degli insegnanti che di per sé è ampiamente ingiusto. L’essere un bravo studioso non rende una persona un bravo insegnante, bisogna comunque intraprendere un percorso abilitante, quello che attualmente è il TFA, in cui si studiano i fondamenti della didattica e della pedagogia, in cui si ha la possibilità di fare un tirocinio in classe. L’accesso al TFA tiene comunque conto dell’aver svolto un dottorato assegnando dei punti in più nella graduatoria di accesso. L’insegnamento nelle scuole primarie e secondarie non ha nulla a che vedere con l’insegnamento in ambito universitario. Spesso si trascorre più tempo a combattere le difficoltà che hanno i ragazzi a relazionarsi con il mondo piuttosto che ad insegnare loro qualcosa. A chi pensa che insegnare a scuola sia preparare la propria brava lezioncina frontale e correggere compiti, consiglio fin da adesso di farsi un anno in un istituto professionale e poi di cambiare comunque mestiere.
Ho sempre letto e apprezzato gli interventi di Claudio Giunta, che tra l’altro stimo moltissimo come studioso. Ha però destato in me un profondo dispiacere leggere questo suo articolo. Io ho conseguito recentemente un dottorato di ricerca e, per farlo, ho impiegato quattro anni al posto dei tre previsti perché per un anno ho ‘congelato’ (orribile verbo, ma per capirci) il dottorato al fine di frequentare il primo Tirocinio Formativo Attivo indetto dal ministero: sapevo che il dottorato non mi avrebbe dato un lavoro nell’immediato e, come moltissimi altri miei colleghi, ho fatto ciò che era stato stabilito dal ministero. Al di là del mio giudizio sull’utilità di questo anno di tirocinio, è indubbio che la suddetta dottoressa di ricerca G., nominata da Giunta nel suo articolo, avrebbe benissimo potuto fare come me e come tanti altri: che il dottorato non avrebbe concesso ipso facto l’abilitazione è sempre stato chiaramente affermato dal ministero e cambiare adesso questa norma sarebbe una gravissima ingiustizia nei confronti di quanti come me si sono addottorati e inoltre hanno fatto il TFA. Una delle cose più ripugnanti della scuola italiana e delle sue diverse riforme e riformette è aver creato troppi percorsi diversi attraverso cui un laureato può accedere all’insegnamento: SISS, TFA, PAS, ecc. Questa diversità di percorsi ha creato delle fratture profonde nella scuola e provocato ingiustizie vere e proprie. Il documento sulla buona scuola, come denunciato in altri articoli dallo stesso Giunta, prosegue, per certi aspetti, in quest’opera perversa di creare differenze provocando patenti ingiustizie. Detto questo, ricordo che il dottorato conferisce a tutti 12 punti per le graduatorie docenti. 12 punti equivalgono a un anno di insegnamento. Forse sono pochi, forse no. Di questo si può senz’altro discutere. Per il resto, ritengo che il dottorato dovrebbe introdurre i giovani al mondo universitario. Dopo il documento sulla buona scuola, vediamo se il governo Renzi deciderà di investire e sostenere in ogni modo una radicale riforma di questa istituzione.
Cara G., appena ti sarà possibile, fa’, come tanti tanti altri, il tuo bel TFA per poter insegnare a scuola; al contempo, continua a lottare per entrare stabilmente in università: considerata la stima di Giunta nei tuoi riguardi, è probabilmente quello il tuo posto. Grazie.
Ho un dottorato di ricerca in materie umanistiche (letteratura) e ho avuto esperienze di insegnamento tanto all’università, come cultore della materia, quanto alle scuole medie, prima che l’ aggiornamento 2014-2017 delle G.I. stabilisse che negli anni precedenti ero stata inserita erroneamente in graduatoria (ma questa è un’altra storia…).
Indubbiamente università e scuola sono ambienti diversi e che richiedono un approccio differente, ma non voglio entrare nel merito di una questione tanto complessa.
Più umilmente vorrei dissentire da coloro i quali ritengono la formazione dottorale e la scuola due rette parallele.
Queste persone considerano la ricerca un percorso individuale, asettico, una mera acquisizione progressiva di conoscenze, più o meno utili, in una determinata materia che raggiunge il suo scopo solo concretizzandosi in una pubblicazione o in una lezione accademica (che, in realtà, se fatta con criterio va ben oltre prepararsi la “filastrocca” da ripetere in classe…). La mia esperienza personale, al contrario, mi ha convinto che ci sia molto di più. Le competenze acquisite nell’ambito della ricerca universitaria hanno rappresentato per me una risorsa preziosa da mettere a disposizione degli studenti indipendentemente dal grado di istruzione: ho affinato le mie capacità di analisi e sintesi in maniera particolarmente approfondita ed efficace al punto da creare autonomamente strumenti e metodi d’indagine applicabili alle più varie discipline umanistiche. Queste capacità, espresse nella didattica in aula, possono, a mio avviso, contribuire fortemente a motivare gli studenti e ad aiutarli ad affrontare lo studio delle materie specifiche in maniera più sicura e autosufficiente.
L’ultimo lavoro che dovrebbe fare chi ha la vocazione e la formazione del ricercatore è l’insegnante di scuola. Cosa completamente diversa e, sul piano intellettuale e professionale, piuttosto squalificante.
Tutti dicono che mancano i posti all’università. Io so solo che quando volete sistemare qualcuno lo sistemate.
In effetti la vocazione alla ricerca è molto diversa dalla vocazione all’insegnamento scolastico. E anche senza tirare in ballo il concetto forse ingombrante di vocazione, basta dire che il lavoro del ricercatore è diverso dal lavoro dell’insegnante di scuola.
Chi parla però dell’insegnamento scolastico come di un’attività “piuttosto squalificante” sul piano intellettuale e professionale ha sicuramente un’idea della cultura molto classista e spocchiosa. In effetti c’è da sperare che Matteo non finisca mai a insegnare in una scuola, finirebbe per sentirsi Dio sceso in terra e passerebbe la vita coltivare la sua frustrazione di genio boicottato dall’Accademia costretto a insegnare a tanti poveri alunni ignoranti.
L’insegnamento è comunque frustrante, indipendentemente dal fatto che uno sia un genio oppure no (Vittorio Lodolo D’Oria ha scritto libri interessanti al riguardo). Ancor di più se uno ha titoli che gli meriterebbero un impiego più consono. Difficile che uno sia estasiato all’idea di passare la vita a correggere dei compiti. Non sono gli insegnanti ad essere spocchiosi nei confronti degli alunni. Non ne hanno motivo. Semmai accade il contrario (per ovvie ragioni socio-economiche).