di Daniela Brogi
«Quando penso a mia moglie penso sempre alla sua testa. Immagino di aprirle quel cranio perfetto e srotolarle il cervello in cerca di risposte alle domande principali di ogni matrimonio: – a cosa pensi? – ; – come ti senti? – ; – che cosa ci siamo fatti? – ».
La voce fuori campo che esce dall’oscurità e accompagna la prima scena del film di Fincher, in cui una mano maschile in primo piano accarezza la capigliatura di una donna distesa, ferma il nostro respiro, perché c’è un’immediata stonatura tra ciò che vediamo e ciò che udiamo, tra il gesto morbido del polso di lui e la minacciosa intenzione che incombe fuori dall’inquadratura. Questa distonia ci inquieta e ci avvisa, da subito, che se è vero, come è scritto in un famoso passaggio di Adorno, che «sei amato solo dove puoi mostrarti debole senza provocare in risposta la forza», allora nella storia che abbiamo iniziato a consumare non c’è amore – non sappiamo ancora se ci sia mai stato – ma più che altro odio, aggressività, fantasia di distruzione dell’altro. E non è tutto: ciò che innervosisce ancor di più la percezione è che tutto questo orrore stia accanto alla bellezza: della donna che intanto si è voltata, come del gesto che l’ha svegliata, della voce calda che accompagna la situazione. Si sta rappresentando insomma, sotto l’apparenza di un’armonia, una tensione coniugale. Del resto, come è già stato osservato molto bene, il film è anche l’autopsia di un matrimonio, e, attraverso i codici del thriller, mette in scena la vicenda di due personaggi che per certi versi ricordano i protagonisti del romanzo di Yates Revolutionary Road – nonché del film omonimo di Sam Mendes (2008). Di nuovo infatti incontriamo un’ambiziosa coppia che si è innamorata a New York, a una festa, ma che, dopo il matrimonio e una crisi economica, non riesce a mantenere la vita quotidiana all’altezza delle proprie illusioni di eccezionalità («quanto siamo belli!»). Ma là eravamo negli anni Cinquanta, mentre nel film di Fincher siamo nella contemporaneità: Amy (Rosamund Pike) e Nick (Ben Affleck) – lei newyorkese pura, lui del Missouri – si sono conosciuti nel gennaio 2005; due anni più tardi si sono sposati e col trasferimento successivo nella città di lui l’amore entra in crisi. Gone girl racconta questa parabola di deterioramento in flashback, usando il montaggio alternato per incrociare il tempo del racconto del passato – attraverso le pagine del diario di Amy – con il tempo presente delle indagini attorno alla ricerca della donna, che è misteriosamente scomparsa. È stata rapita? È fuggita? L’ha fatta fuori il marito? Man mano che si va avanti gli indizi si confondono con il delirio isterico tirato su dai media attorno al caso. Il film racconta questo groviglio investigativo intanto che ricostruisce il puzzle della storia di Amy e Nick, ma, via via che si procede, anziché completarsi la vicenda si destruttura si complica, finendo per assomigliare sempre di più a un congegno che viene fatto impazzire. E intanto noi guardiamo il film sempre più catturati: imprigionati, un po’ come i suoi protagonisti, dentro una sorta di panic room. Perché? Quali ansie lavorano dentro di noi?
Anche se il tema di un matrimonio esploso è una linea forte del film; anche se talvolta pare di ritrovare lo schema delle “commedie del rimatrimonio” raccontate da molti capolavori degli anni Quaranta, forse queste piste critiche non dicono tutto: non spiegano, per esempio, che, ispirandosi al romanzo di Gillian Flynn pubblicato da Rizzoli nel 2012 con un titolo arbitrario (L’amore bugiardo) ripreso anche dalla versione italiana del film, Fincher, in realtà, ha composto un’opera che non si chiama L’amore bugiardo, ma Gone girl: è qui che sta l’anima del film, e proprio la prima scena già lo dice molto bene. Torniamoci dunque: la testa distesa di Amy occupa tutto lo spazio dell’inquadratura; attraverso la telecamera, anche noi, come il marito, guardiamo Amy: la sua persona diventa soggetto solo in quanto figura “assoggettata” allo sguardo di qualcun altro. In effetti Amy, la sua storia, la sua identità, stanno tutte lì: esistono soltanto attraverso gli sguardi degli altri. Anche per questo, pur avendo più di trent’anni, non è una “donna”, ma una “ragazza”, cioè è bloccata, malgrado l’età, in una condizione senza tempo né autonomia. Le sue possibilità vitali, in senso simbolico e cinematografico, sono garantite unicamente attraverso il rispecchiamento nell’immagine di lei che le rimandano gli altri. È sempre stato così, fin dalla sua infanzia; non può che essere così. Amy, che è la protagonista dei racconti di invenzione che i suoi genitori hanno costruito su di lei trasformandola nel prodigioso personaggio di un fortunato ciclo di libri, è “la mitica Amy”, cioè è vittima di una coazione inarrestabile all’identificazione continua nel gioco di finzioni che gli altri le hanno cucito addosso, trasformandola in un permanente libro aperto. La trovata del diario, e della catena di illusioni da esso prodotte, raddoppia questa situazione prendendola alla lettera. Se la vita è, deve essere, una performance continua, il sistema migliore per rappresentare questa condizione sarà allora un’opera che trasformi la messa in scena di sé da risorsa tecnica in sostanza della rappresentazione. E questo vale sia per il personaggio che per il lavoro di regia, e spiega pure perché il film Gone girl sia più bello del libro da cui è tratto: perché il linguaggio cinematografico non può che essere più congeniale, sia a livello visivo che emotivo, alla creazione di questo morboso sistema di proiezioni, tanto all’interno quanto all’esterno dello schermo.
Recuperando l’interesse per i meccanismi della spettacolarizzazione massmediatica già esplorati nei lavori precedenti, Fincher mette al centro del suo ultimo film due motivi che si alimentano reciprocamente, e oltrepassano lo schema semplice di un’opposizione tra vero e falso per entrare nei territori della mitizzazione. Da un lato infatti si ha la società dello spettacolo, guardata e riprodotta soprattutto attraverso i suoi fenomeni di empatia compulsiva: quelli che trasformano il fatto di cronaca in una narrazione di massa in cui non conta più capire cosa è accaduto ma partecipare a dei sentimenti totalizzanti («prima mi odiavano, poi mi adorano» dirà Nick). Dall’altro lato, e insieme, il mito, come formazione assoluta, è la chiave di racconto di un’identità femminile – quella dell’“amazing Amy” – che funziona come una vera e propria stanza della tortura. Perché il punto è che Amy non è banalmente una femme fatale, una donna vampiro, una mantide: Amy è un incubo anzitutto per se stessa, costretta com’è, da sempre, a essere una figlia modello, una studentessa modello, un’amante modello, una moglie modello. Sono sempre gli altri che hanno già scelto e spostano i suoi desideri, come suggerisce con procedimento ironico la regia, nella scena del primo incontro con Nick: quando la voce di Amy che sta scrivendo il diario («Ho conosciuto un ragazzo in gamba») accompagna un movimento di macchina che prima si ferma sullo sguardo di Amy che si posa attento su un uomo impegnato a parlare con un’altra, e poi passa a Nick che le si avvicina e dà inizio al corteggiamento («Quando ho conosciuto Nick – dirà più avanti – ho capito che lui voleva una strafica»). Sebbene continuamente accerchiato da figure femminili che lo discreditano, lo aggrediscono, non si fidano di lui (« – ti prego: voglio venti secondi in cui non mi giudichi, non mi interrompi e non ti arrabbi! – » dirà alla sorella), Nick insomma non è solo e banalmente una vittima di questo teatro di falsificazioni continue (« – mi faceva sempre sentire una merda – »; è un complice, un perverso alleato – e anche per questo sarà così bravo a recitare la sua parte di disperato marito pentito dinanzi alle telecamere. Anche la sua debolezza fa parte di una dialettica. Piuttosto che portarla via dal mondo di finzioni della mitica Amy, Nick ha scelto di ributtarcela dentro completamente, quando le propone le nozze proprio davanti ai blogger che, al party in onore del nuovo libro del personaggio inventato dai suoi genitori, avevano chiesto alla vera Amy se fosse sposata (« – Mitica Amy è sempre stata un passo avanti a me – !»).
Sostituendo al copione della propria vita il copione della propria scomparsa, la protagonista allora non consuma soltanto una vendetta, ma un tentativo autentico di fuga da dal proprio falso sé che non può che corrispondere a una soluzione altrettanto assoluta, vale a dire la morte. Difatti Amy, quando uscirà dalla mediazione del diario, nella seconda parte del film, ed entrerà finalmente in scena, nella sequenza della fuga, appare dicendo: «sono molto più felice adesso che sono morta». Adesso la ragazza può sparire, disfarsi: il suo corpo può uscire dalla forma perfetta, può ingrassare, vestirsi male, smettere di tingersi i capelli, spossessarsi. Se non può vivere, può almeno tentare di morire, come il personaggio è davvero intenzionato a fare, suicidandosi. E se questo non accade, è perché l’impulso al rispecchiamento nell’immagine mitica di sé trasmessa dai servizi televisivi, è più importante di tutto: è rotondo come il lago in cui si specchia Narciso, e come la struttura di Gone Girl. Amy smette di pensare al suicidio quando sente dire dalla vicina del residence dove si è trasferita « – Vorrei tanto che per una volta in tv qualcuno dicesse: era una vera carogna, cazzo! – »: quella battuta non sposta la sua percezione di sé ma le fa perdere lucidità, tant’è vero che, proprio lei che era stata così infallibile finora, adesso diventa goffa, inciampa, le cade il marsupio, in un certo senso si farà derubare. Per essere costretta, in un certo senso, a rientrare nell’unico luogo dove riesce ad esistere e ad avere potere, cioè la gabbia, materiale e simbolica, dell’ammirazione e della finzione, l’unica dove può continuare a essere se stessa: «qui ci sono telecamere ovunque», l’avvisa l’ex fidanzato corso a salvarla: «io voglio solo che torni ad essere quella che conosco».
[Immagine: David Fincher, Gone girl, 2014 (db)].
Bella recensione, complimenti.
Vorrei tentare un’ulteriore riflessione, tuttavia. È vero, nel film di Fincher (come spesso nella sua filmografia, tra le più anti-manichee del cinema americano contemporaneo), nessuno è innocente: Nick, quanto i genitori di Amy, i giornalisti, il suo avvocato, è complice della “condanna al successo” che grava sulla protagonista – perché è lei, Amy, come voleva indicare il titolo originale, la vera protagonista. Nessun personaggio pare intenzionato a sottrarsi al gioco (appunto) narcisistico di specchi e schermi di una società che costruisce le identità in diretta televisiva. La verità, anche quella più drammatica della morte, della scomparsa, esiste a patto che sia ratificata da un titolo della Fox (che compare addirittura nella locandina del film). Apparentemente, Amy è vittima di tutto questo. E in effetti l’intera prima parte è costruita, narrativamente e visivamente, intorno ad un’assenza, la sua, al “tentativo autentico di fuga dal proprio falso sé”. Ma questo tentativo fallisce non tanto perché Amy perda lucidità, ma perché sceglie di corrispondere esattamente alla maschera che altri hanno scelto per lei. Così come decide, con l’inquietante ferocia che le è propria, che da quel momento in avanti anche Nick dovrà adattarsi all’immagine che i media, che le famiglie d’America, gli hanno imposto. Quella che è anche l’immagine del desiderio di lei. È questo il dramma psicologico che si consuma nella scena in cui la donna rimane senza parole di fronte all’intervista di Nick. Il nodo tra simbolico, immaginario e reale si contorce, si piega, s’ingarbuglia fino a costringere ad un follia finzionale da condividere in due. Allora Amy non è – o, almeno, non solo – una vittima. Alla fine del film sceglie di esserlo, come di essere – anche lei in definitiva – complice: ama la gabbia, come non ha mai amato Nick, perché lì può rinchiuderlo, come nel suo ventre rinchiude l’innocente strumento del ricatto. L’assenza si trasforma in eterna e ossessiva presenza, diretta catodica riproducibile all’infinito. Come la scena finale ripete, identica, quella d’apertura.
GEntile Pier Giovanni Adamo, grazie: per il suo tempo, ma soprattutto per il suo commento così ricco. ha ragione, sono d’accordo e ripenso meglio a quello che ho scritto. naturalmente Amy non è soltanto vittima, proprio perché il rapporto di forza tra lei e il marito è una dialettica, che si alimenta di scambi continui. grazie ancora, e buone feste.
@D.Brogi: grazie a lei per avermi/ci dato occasione di discutere un bel film in questa sede, con parole intelligenti. Ricambio gli auguri per le feste. Ne approfitto per far notare – ma nella sua recensione questo riferimento è probabilmente implicito – quanto le nostre riflessioni rimandino in qualche modo all’unico scrittore citato non a caso (per ben due volte) in tutta la pellicola: Proust, sacerdote del credo della gelosia sessuale, della manipolazione, della bugia erotica. D’altra parte Amy è sia una “prisonnière” sia una “fugitive” sui generis…
Gabbie, gatti e mascalzoni.
Mentre leggevo la sua recenzione illuminante mi sono tornati in mente diversi riferimenti disseminati dal regista nel corso del film.
Lo sguardo e le movenze da manichino della protagonista ricordavano quelle di Tippi Haudren, l’algida attrice dei film di Hitckock. Il modello estetico della bionda veniva imposto da un ossessionato James Stuart ad una burrosa Kim Novak, che da reale veniva ridotta ad ideale in “La donna che visse due volte”. Chi non si ricorda i capelli-platino di Kim Novak raccolti in un vertiginoso chignon? Ebbene anche in quella storia persiteva un gioco perverso sull’identità femminile, ricostruita secondo un modello sterile, da copertina. Lui desiderava lei in quel modo, solo con quei capelli, quei vestiti, quel determinato stile. Il regista giocava sulla completa cecità del protagonista che “riconosceva” la sua amata solo nel momento in cui lei cedeva alle sue richieste e si schiariva i capelli. Infine la donna tornava ad essere libera solo morendo, sottraendosi così a quel maledetto modello ma, paradossalmente, eternandolo con la sua scomparsa.
Ebbene mezzo secolo non è trascorso invano ed Amy, la donna protagonista del film di Fincher, non si suicida più, anzi addirittura diventa un’omicida ed è talmente permeata dalla cultura dell’immagine che la plasma e la rimodella a suo piacere, insegnando al marito a fare altrettanto, in una specie di Truman show dell’orrore digerito ed agito.
Quello che colpisce nel film è proprio questo limen, questo discrimine tra razionalità e follia, nascosto tra le pieghe di un’esistenza di facciata che tutti giudicano invidiabile. In questa vita da pubblicità, mostrata, scimmottata, recitata, chiunque puo’ trasformarsi da vittima a carnefice e niente è come sembra: anche il carnefice alla fine è tale perché costretto in un ruolo di vittima.
Anche il gatto nel film riflette questa realtà paradossale.
Hitckock in Una strega in paradiso, faceva usare da Kim Novak un felino per esercitare al meglio la sua seduzione su James Stuart. Una melodia ammaliante canticchiata dalla donna si mescolava alle fusa assordanti del magico gatto Cagliostro ed allo sguardo magnetico della splendida Kim. Ebbene nel film Gone Girl si è persa qualsiasi seduzione, siamo oltre, siamo appunto nella gabbia della relazione, del matrimonio: perfino il gatto all’inizio del film uscito dalla bella villa attende il padrone perché lo riporti dentro l’abitazione e quando la padrona rientrerà definitivamente in casa sarà sulla cucina, accanto a lei, a duplicare questo ruolo. Ognuno ha ruoli dai quali non si sfugge, ognuno recita una propria maschera, amplificata da media schizofrenici, capaci anch’essi di creare o distruggere esistenze. In una vita in cui non esiste più l’interiore, tutto ciò che ha senso legittimo è fuori e deve essere continuamente esternalizzato ed agito.
Qualche anno fa la “casalinga-barbie” Nicole Kidman ne “La donna perfetta, subiva una specie di lobotomizzazione-riduzione progressiva al modello maschilista di bellezza anni ’50.
Ora la lobotomizzazione, sembra suggerirci Fincher a fine film, non è più necessaria: tutti, uomini e donne, siamo già permeati dalla finzione, incapaci spesso di distinguere il reale dall’immaginato, predisposti a credere solo a ciò che pensiamo di vedere. Nel mondo lo hanno capito bene i politici di grido che si comportano con i media con lo stesso atteggiamento maliardo del marito fedifrago: tradiscono gli elettori, ma poi si ripresentano sulla scena, gli italiani poi lo fanno anche con un’incredibile faccia tosta. Sono in fondo soltanto degli adorabili “mascalzoni latini”!
Segnalo la recensione del mio critico cinematografico preferito, Locke Peterseim:
http://www.openlettersmonthly.com/hammerandthump/gone-girl-gone/
Non ho avuto ancora la possibilità di vedere il film di Fincher, ma leggere – come sempre mi accade – una recensione di Daniela Brogi non è solo arricchirsi di un contributo per una migliore riflessione sull’opera recensita, ma anche, in sé, un’ampia e motivata riflessione sulla contemporaneità (vedi, La grande bellezza, nella cui recensione Daniela arricchisce stupendamente anche lo stesso nostro modo di “vedere”).
Quello che a fine lettura (la verifica, dopo la visione del film) mi è soprattutto rimasto anche come immagine visiva è la rappresentazione della “scomparsa” di lei, la donna, da un contesto stonato e contraddittorio, il matrimonio in cui l’amore apparente, l’armonia coprono tensione e odio.
Un matrimonio esploso, scrive Daniela, che mi ha fatto (non so se opportunamente o no) subito pensare – nel film di Bergmann, Scene da un matrimonio – a quella inaspettata esplosione di un matrimonio nell’apparenza solido, sicuro, fatto d’amore tra persone, moglie e marito, genitori e figli, addirittura documentato da quella fotografia iniziale scattata durante un’intervista giornalistica della “coppia perfetta e felice”.
E dopo, lo scoppio, il frantumarsi inaspettato del matrimonio, quando – i due coniugi seduti di fronte al tavolo della cucina – il marito, con crudele e spietata superficialità, comunica alla donna la sua decisione di lasciarla per un’altra donna.
Ricordo lo sguardo di lei, incredulo, tutta la sua inaspettata meraviglia, la sorpresa e il dolore, una “scomparsa” di lei (gone girl) dal loro mondo condiviso, finora “assoggettata” come scrive Daniela di Amy, esistente attraverso gli sguardi degli altri. Qui, nel film di Bergmann, l’ occhio della macchina fotografica contiene già in sé tutti gli occhi degli altri.
E quindi il percorso dall’identificazione che “il gioco di finzioni … altri le hanno cucito addosso” , alla trasformazione, al tentativo di fuga, che in Bergmann è ricostruzione della propria immagine della propria vita, di una scelta consapevole di vita, e in Fincher, come scrive Daniela, è “un tentativo autentico di fuga dal proprio falso sé non può che corrispondere a una soluzione altrettanto assoluta, vale a dire la morte”.
Due rotture, quindi, tema di avvio del racconto dei due registi, e poi divaricazione dei percorsi di consapevolezza, con scelte che si presentano di verse, ma che entrambe rispondono alla domanda di come una donna, dal suo ruolo, dall’ “invenzione” degli altri che essa rappresenta e vive, dal suo assoggettamento, può distruggere l’immagine e ritrovare il senso della propria esistenza”.
C’è un’altra considerazione di Daniela che rappresenta con esattezza la società dello spettacolo e i suoi fenomeni di empatia compulsiva che “trasformano il fatto di cronaca in una narrazione di massa in cui non conta più capire cosa è accaduto ma partecipare a dei sentimenti totalizzanti”.
Fino al punto che l’osservazione disincantata e la partecipazione emotiva, arrivi ad abbandonare – come avviene nella comunicazione pubblicitaria (a questo proposito, da leggere, secondo me: Il manifesto del 24 dicembre che ospita una recensione di Vanni Codeluppi del libro a cura di Yves Citton, L’économie de l’attention. Nouvelle horizon du capitalisme?, soprattutto le riflessioni di Lilie Chouliaraki) – l’immagine della solidarietà per ripiegare, narcisisticamente esaltando l’individualismo, su espliciti inviti a “scoprire cosa si prova”?
Grazie, Daniela e auguri per il nuovo anno.
Manlio
Non ho ancora visto il film ma mi dispiace leggere che sia migliore del libro, in quanto Gillian Flynn, del cui romanzo in verità si è parlato troppo poco, ha debuttato con un capolavoro: in un gioco di specchi sorprendente ha costruito il suo thriller inducendo il lettore a credere per tutta la prima parte alla colpevolezza di Nick per poi ribaltare completamente la versione dei fatti, fino a un crescendo splatter, nella seconda, dove Amy si rivela un’autentica criminale. Un’autrice così giovane ma così esperta della vita ha messo in luce in modo parossistico elementi cruciali ed eterni del matrimonio: la lotta di classe che gli sottende, sempre, in tutte le epoche; la lotta fra i sessi; la linea d’ombra che specie se non ci sono figli, fa diventare rapidamente vecchi e non più amanti ma obsoleti coniugi d’abitudine i più che trentenni. Scritto in modo magistrale e senza pretese sociologiche ma romanzesche, anzi giallesche: Flynn è stata davvero una sorprendente rivelazione. Il film ne è una conseguenza!
Sono andata a vedere il film dopo aver letto la bella recensione di Daniela Brogi ed effettivamente il film è proprio interessante come sottolineano anche i commenti pubblicati. Volevo solo segnalare il fatto che la sceneggiatura del film è firmata dalla stessa autrice del libro, Gillian Flynn, a meno di non pensare a un caso di omonimia. Ma se così non fosse è singolare poter confrontare libro e sceneggiatura per tirare fuori quel di più che la scrittrice ha pensato di poter raggiungere utilizzando il linguaggio cinematografico.
Film visto ieri sera. Sono rimasto spiazzato dal finale ..dopo essere rimasto attaccato alla sedia tutto il tempo. Non avevo capito con quale coraggio Nick aveva deciso di rimanere sotto lo stesso tetto di una donna che aveva accertato essere una psicopatica omicida. Ma non avevo dato giusto peso come giustamente sottolineato nella recensione e nei commenti alla convenienza dell’apparenza. Alla finzione che ingabbia. Ora leggerò il libro (come faccio spesso ..sbagliando…facendolo precedere dal film) ma il film mi è piaciuto molto, forse il migliore (tra quelli che ho visto) nel 2014
Quando Daniela analizza un film lo decostruisce,lo ricompone, lo inserisce nella cultura e nella storia dei nostri tempi, ti fa comprendere con citazioni e collegamenti cos’è un film d’intrattenimento e, invece, dove il film scava nel profondo della nostra cultura e nei caratteri psicologici. Ogni scena s’incastra nella narrazione filmica, proprio per far comprendere come siamo diventati. Amy,come falsa immagine del sé femminile, costruita dall’educazione familiare e dal loop di immagini che riempiono la nostra mente,svuotata,lobotomizzata dal pensiero e dalla conoscenza,dalla formazione intensa del sé.
Qualcuno ha parlato di Hitchcock,si potrebbe invece far riferimento al goco degli specchi di V.Woolf, a Sangue freddo, a Quinto potere,vagamente a Pirandello.
Gone girl solca i generi e li mischia tra loro in modo perfetto, come se ognuno fosse il pezzo necessario di un puzzle. NECESSARIO, quando in realtà non lo è. Nella prima ora di film Fincher sembra dare gli elementi per un Thriller in piena regola, ma proprio quando siamo sicuri che sia quello sia il film che stiamo guardando, il regista cambia tutto. Si invertono i soggetti, il MacGuffin iniziale viene svelato e la storia si mostra per quello che è in realtà. Una critica spietata alla società dell’immagine, come se ne vedono tante in questo periodo, ma nessuna di esse con questa fredda,chirurgica freddezza e lucidità. Infatti mentre il Thriller in piena regola si trasforma in una commedia grottesca e i personaggi invertono le proprie sfaccettature, c’è un’unica cosa che rimane costante. L’occhio. L’occhio della macchina da presa che rimane nitido su ciò che è la realtà dietro l’immagine pubblica. I personaggi si evolvono in una maniera che sembra quasi incomprensibile, ma che mantiene la coerenza di quel mondo che ci viene mostrato. Il colpo di scena non è mai fatto solo per sorprendere lo spettatore, ma si va ad incassellare alla perfezione nel mosaico che riusciremo a vedere con chiarezza soltanto alla fine. Ben Affleck e Rosamund Pike sono la perfetta nemesi l’uno dell’altro e non possono far altro che vivere di questo rapporto. Come il miglior Polanski in Rosemary’s baby prima, e successivamente in Carnage analizza il rapporto di coppia e la sua tremenda realtà aldilà dell’opinione comune, anche Fincher fa della vita matrimoniale il più temibile dei ritratti, nella quale le pulsioni, i difetti e le tragicità dei personaggi vengono alla luce. E non ci lascia via di scampo. Tutti siamo alla fine costretti a desistere e a quel punto possiamo solo farci scudo con la nostra artificiosa felicità da mostrare a un pubblico ignobilmente compiaciuto che sa e non vede l’ora di essere ingannato. Rosamund Pike è uno dei personaggi più complessi e geniali degli ultimi anni attraverso il quale tutto l’impianto narrativo prende forma e si smonta autonomamente. Come Rooney Mara nel suo Millenium è la carnalità dell’immagine femminile che diventa spietata e piega ogni tipo di realtà al suo volere. Un volere di libertà, di indipendenza e soprattutto di dominio nei confronti dell’uomo, e della società da lui costruita.
Tutto ciò che vuole dire lo dice alla perfezione, dalla prima immagine fino all’ultima che ci lascia sgomenti, con un vuoto e con un’angoscia che solo una figura complessa e spesso irrisoluta può regalarci. Alla le uniche cose che ci rimangono sono lo stupore,l’angoscia, il silenzio angoscioso della nostra asfittica,artificiosa felicità e quell’imprevedibile grido d’aiuto che ancora una volta David Fincher ci lancia sperando che questa volta non rimanga inascoltato
Ciao a tutti!io non riesco a capire bene perchè alla fine il marito rimane con lei…qualcuno potrebbe spiegarmelo?grazieee perchè il film mi è piaciuto davvero molto!
ciao!qualcuno mi potrebbe spiegare il finale del film??penso di aver capito ma non ne sono sicura!!!grazie!