di Luca Illetterati
[Questo intervento è uscito su «hegelpd»].
Non è in fondo esagerato dire che una parte certamente non irrilevante della filosofia europea dalla seconda metà dell’Ottocento e poi ancora nel corso di tutto il Novecento è profondamente segnata dalla filosofia di Hegel. Non nel senso banale che tutta la filosofia dopo Hegel sia hegeliana, ma nel senso che la filosofia, dopo Hegel, è una filosofia che non può non prendere posizione nei confronti del suo pensiero e che perciò si caratterizza o come reazione contro di esso, o come riscoperta o riabilitazione di alcune sue strutture di fondo. Tradizionalmente questo movimento quasi elastico di allontanamento e avvicinamento nei confronti dell’autore della Fenomenologia dello spirito era rimasto però perlopiù confinato dentro le aree culturali di lingua tedesca, italiana e francese. Certo, tra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo ci furono anche un neohegelismo inglese (si pensi a Bradley e McTaggart) e un neohegelismo americano (si pensi a Royce), ma soprattutto oltreoceano non si può certo dire che il neohegelismo abbia prodotto una influenza decisiva all’interno della tradizione filosofica. La filosofia americana, caratterizzata soprattutto dall’intreccio di pragmatismo e filosofia analitica, incarna infatti un’attitudine speculativa che pare, per molti aspetti, del tutto estranea alle questioni e ai problemi che innervano invece la filosofia di Hegel.
Da alcuni anni, però, è in corso, proprio all’interno di quella tradizione, quello che viene chiamato un ritorno a Hegel, e cioè una vera e propria rinascita di interesse nei confronti della filosofia hegeliana. E ciò è tanto più degno di attenzione quanto più si è consapevoli di ciò che Hegel ha rappresentato e spesso ancora rappresenta all’interno dell’accademia americana, ovvero la fumosità e pretenziosità di una cultura spiritualistica e antirealistica (di una “irrealtà spettrale” diceva William James), una filosofia teologistica e tendenzialmente antiscientifica, la sofisticheria linguistica che si fa beffe della logica, la pretesa di incanalare il mondo e la storia dentro un percorso predeterminato e prefissato.
I protagonisti di questa rinascita di interesse che ha fatto piazza pulita dell’immagine banale e stereotipata sopra richiamata sono da una parte alcuni filosofi come Robert Pippin o Terry Pinkard, che si sono impegnati in una nuova interpretazione del pensiero di Hegel cercando appunto di liberarlo dalle consuete letture metafisiche, dall’altra filosofi come John McDowell e Robert Brandom, i quali sono meno interessati a una ricostruzione razionale della filosofia hegeliana e piuttosto utilizzano invece la filosofia hegeliana, alcune sue mosse e alcuni suoi atteggiamenti di fondo, per affrontare questioni teoriche che attraversano il dibattito filosofico contemporaneo e che hanno a che fare, soprattutto, con il rapporto fra pensiero e realtà e fra ragione ed esperienza.
Di questa interessante e significativa impresa intellettuale portata avanti da questi filosofi tutti più o meno legati a una delle personalità più straordinarie e complesse della tradizione filosofica americana, e cioè Wilfrid Sellars, sono ora disponibili alcuni importanti testi anche in lingua italiana.
Einaudi ha mandato infatti in libreria da poche settimane un libro di Terry Pinkard intitolato La filosofia tedesca (1760-1860). L’eredità dell’idealismo (trad. it. di M. Farina), nel quale l’autore, prendendo le mosse dalla filosofia di Kant e mostrando come questi detronizzando la metafisica avesse messo al centro un concetto decisivo per la comprensione della modernità come quello di auto-determinazione, ripercorre il dibattito che attraversa la Germania di quegli anni e che trova certamente in Fichte, in Schelling e in Hegel, ma anche indubbiamente in autori come Jacobi, Solger, von Humboldt, Schlegel una straordinaria e feconda articolazione. L’idea di Pinkard è che i problemi e le domande che hanno caratterizzato quella stagione della cultura filosofica tedesca siano i problemi e le domande che caratterizzano, di fatto, la filosofia contemporanea, la quale, dunque, nel rapportarsi al cosiddetto idealismo tedesco non fa semplicemente un esercizio storico-ricostruttivo, quanto piuttosto, viene da dire, una sorta di esercizio anamnestico, che può avere anche una funzione terapeutica o chiarificatrice rispetto alle questioni e alle domande intorno a cui essa ancora oggi si trova a lavorare. In particolare, secondo Pinkard, la cultura filosofica tedesca di quegli anni si caratterizza come una forma di auto comprensione critica della modernità e costituisce dunque un laboratorio filosofico nel quale vengono forgiati i concetti che strutturano l’esperienza della modernità dentro una dinamica che è dunque sempre, insieme, logico-razionale e storico-istituzionale.
Se questo testo di Pinkard ricostruisce alcune delle linee portanti di quella discussione all’interno di un’ottica orientata comunque fin dall’inizio da questioni e linguaggi che hanno la loro radice nella filosofia americana contemporanea, il suo testo più famoso, anch’esso recentemente tradotto in italiano (La Fenomenologia di Hegel. La socialità della ragione, trad. it. di A Sartori, Mimesis) può essere inteso per certi versi quasi come un manifesto programmatico dello Hegel americano. Il testo non è, come potrebbe sembrare dal titolo, un commentario, bensì, come dice lo stesso Pinkard, “un’analisi hegeliana del testo di Hegel”. Analisi che trova il suo fuoco nella nozione decisiva di socialità della ragione, ovvero nell’idea secondo cui le strutture della ragione non sono né un portato meramente soggettivo, né qualcosa di dato una volta per sempre, bensì, come scrive Italo Testa nella Prefazione all’edizione italiana, “sono il prodotto delle pratiche di riconoscimento reciproco tra punti di vista sul mondo che si mostrano in conflitto tra loro all’interno di certe comunità e il cui dissidio non è conciliabile sino a che non sia stato costruito socialmente un punto di vista condiviso”.
Di questa stagione della filosofia americana, di questo movimento che da punti di vista a volte convergenti ma più spesso anche molto divergenti si è focalizzato attorno a una rinnovata attenzione rispetto alla filosofia di Hegel, rende conto ora un ottimo lavoro di Luca Corti edito da Carocci: Ritratti hegeliani. Un capitolo della filosofia americana contemporanea. Corti compie qui un’analisi di dettaglio dell’hegelismo di Sellars (che per quanto praticamente non citi Hegel è indispensabile, soprattutto per la lettura che egli fornisce di Kant, per capire questo filone interpretativo), di McDowell, di Brandom, di Pippin e appunto di Pinkard. Secondo Corti “pur con i limiti e le forzature che le caratterizzano” tali letture “rappresentano un solido tentativo filosofico di mettere in contatto il pensiero hegeliano con problematiche attuali, portando la filosofia di Hegel a esprimere alcuni suoi lati originali e inaspettati”. Il tratto unificante di queste letture a volte anche molto divergenti tra loro, ma tutte straordinariamente stimolanti anche per la differenza di approccio che esse testimoniano rispetto alla tradizione iperstorigrafica europea, è la convinzione che la ragione sia una pratica sociale, una pratica dunque non riducibile alla spiegazione naturalistica propria delle scienze e che trova una straordinaria concretizzazione nella nozione hegeliana di spirito.
Nel chiedersi però il perché di questa attenzione nei confronti di una filosofia come quella di Hegel, viene da pensare che si guardi ad essa al di là dei suoi contenuti determinati anche perché rappresenta un certo modello di pensiero e un certo stile filosofico. In un’epoca come questa, che appare non di rado caratterizzata da una sorta di rigida divisione del lavoro filosofico per cui a un impegno teorico-concettuale spesso pensato fuori da qualsiasi dimensione di approfondimento storico o storico-concettuale (si sta pensando, evidentemente, a ciò che non senza un alto tasso di generalizzazione si tende a chiamare la filosofia analitica), si affianca un lavoro storico-filosofico che non di rado pretende una qualche forma di neutralità non volendo trovarsi immischiato in questioni teoriche o di natura puramente concettuale, una figura come quella di Hegel può apparire, a un tempo, come una provocazione e come un farmaco. Il riferimento a una filosofia come quella di Hegel può infatti per molti versi decostruire il discorso filosofico contemporaneo, costringendolo a ripensare i propri spesso rigidi e artificiali disciplinamenti, portandolo fuori da una certa aria di scolastica che in questi anni più che in altri sembra farla per molti versi da padrona. Far proprio un modello di filosofia come quello proposto da Hegel significa infatti muoversi criticamente tanto nei confronti di una filosofia che si pretende per così dire immune dalle strutture concrete e tortuose del tempo storico, quanto da una filosofia storiograficistica che si pensa come esercizio storico retto da un ideale ricostruttivo avulso da impegni teorici. La filosofia, per Hegel, è invece questa lotta perenne della ragione di liberarsi dai condizionamenti del tempo dentro però la consapevolezza che il tempo (e dunque la storia, le comunità, i luoghi, le istituzioni) è l’unico terreno nel quale il pensiero trova la sua concretezza e il suo sviluppo.
Una dinamica, questa, che è mostrata in modo magistrale nel libro di Remo Bodei, La civetta e la talpa. Sistema ed epoca in Hegel, recentemente edito per i tipi del Mulino. Il libro, che costituisce nel suo articolarsi una interpretazione della definizione hegeliana secondo cui la filosofia sarebbe sempre il proprio tempo appreso sotto forma di pensiero, è in realtà, almeno in parte, una riedizione. Nel 1975 infatti uscì, sempre per il Mulino, Sistema ed epoca in Hegel; un lavoro che fu, per molti versi, un evento epocale per la cultura filosofica di quegli anni. Con quel libro, infatti, Bodei mostrava l’assoluta inconsistenza di una immagine stantia, schematica, non di rado caricaturale e macchiettistica che era dominante all’interno del dibattito culturale del tempo e che non di rado fa ancora la sua comparsa anche dentro ambienti solitamente scientificamente raffinati: l’immagine, cioè, che vedeva nel sistema hegeliano il tentativo tra il folle e il patetico di mettere le braghe al mondo, di costringere la realtà dentro schemi intellettuali astratti, di voler far dire alla storia ciò che la filosofia di Hegel voleva che la storia dicesse. Era lo Hegel (di cui ci sono ancora non poche tracce in molta manualistica scolastica) ridotto al giochino di tesi, antitesi e sintesi, all’ossessione triadica, in cui il sistema veniva letto come il tentativo del tutto artificiale di tenere insieme ciò che non può stare insieme: la logica e la politica, le scienze naturali e la tragedia greca, la religione cristiana e la divisione in classi, l’arte romantica e i sillogismi razionali. Bodei mostra in questo libro, che oggi viene fortunatamente riedito in una forma decisamente ampliata e rivista, in che senso, invece, quella filosofia fosse il tentativo forse più radicale che la modernità avesse compiuto di pensare se stessa, di portare allo scoperto le strutture concettuali profonde attraverso cui essa si era andata costruendo, ovvero anche i limiti radicali che la costituiscono e gli elementi irrinunciabili che essa ha conquistato, primo fra tutti l’idea che il pensiero non può dipendere da nessuna autorità costituita che non sia il pensiero stesso, l’idea che la ragione è se stessa solo in quanto è critica radicale di qualsiasi principio che pretenda di valere al di fuori della sua giustificazione razionale. E questo Bodei lo mostra non contrapponendo uno Hegel giovanile rivoluzionario, dinamico, riluttante rispetto a tutte le forme di intellettualismo, come spesso si usava sulla scorta di Lukács, di Dilthey o delle interpretazioni ‘esistenzialistiche’ francesi, a uno Hegel maturo, invece, reazionario, conservatore, sistematico e dunque attento più a collocare concetti, fatti e cose dentro l’architettura rigida del sistema che a dare voce alla realtà, ai suoi movimenti, alle sue increspature e alle sue tensioni. Bodei mostra come proprio il sistema costituisca il tentativo titanico e strepitoso di andare alle radici concettuali del tempo, della storia, di quel lavoro imprescindibile per il pensiero che è compiuto dalle diverse scienze e come dunque il sistema, letto come sistema aperto, sia uno spazio di articolazione concettuale che è anche sempre la critica radicale nei confronti di qualsiasi principio o sapere determinato che pretende di valere come un assoluto.
L’idea che la filosofia sia il proprio tempo appreso come pensiero, non è, secondo Bodei, né l’attestazione secondo cui la filosofia dovrebbe registrare l’esistente o al massimo a incasellarlo dentro gelide classificazioni, né un’adesione a una forma di relativismo culturale, dalla cui sabbie mobili si potrebbe uscire solo attraverso il riconoscimento di un assoluto sovrastorico. Dire che la filosofia è il proprio tempo appreso in pensieri è più che una definizione della filosofia, l’esplicitazione del suo compito, la descrizione stessa del lavoro filosofico, della necessità di cui la filosofia, secondo Hegel, è espressione, e cioè del bisogno di pensare radicalmente e spietatamente il proprio tempo, mostrando, nel pensiero e con il pensiero, in che senso nel tempo stesso emerga qualcosa che è sempre al di là di se stesso e in che senso il pensiero, portandolo alla luce, rinvii a qualcosa che il tempo stesso non vede e non coglie. Ovvero, detto diversamente ancora, far propria l’idea hegeliana secondo cui la filosofia è il proprio tempo appreso in pensieri significa far propria un’idea secondo cui compito della filosofia è innanzitutto lo svelamento di quelle dinamiche e quelle strutture che pretendendosi eterne dominano il tempo. Significa cioè far propria una postura filosofica nella quale il pensiero, rivelando la condizionatezza e la parzialità di ciò che si pretende incondizionato e assoluto, si fa esercizio concreto e inesauribile di libertà.
[Immagine: Gerhard Richter, Wolken (gm)].
“…La filosofia, per Hegel, è invece questa lotta perenne della ragione di liberarsi dai condizionamenti del tempo dentro però la consapevolezza che il tempo (e dunque la storia, le comunità, i luoghi, le istituzioni) è l’unico terreno nel quale il pensiero trova la sua concretezza e il suo sviluppo…” e aveva ragione Vico quando affermò che l’unica dimensione a cui l’uomo può accedere e quindi analizzare è la dimensione storica, poiché è dall’uomo fatta, realizzata e costruita. Le analisi restanti in abito della filosofia o per meglio dire della Storia della Filosofia rientrano tutte in un’unica corrente di pensiero che è il “concettualismo”, all’interno del quale c’è tutto e il contrario di tutto. Un interessante esercizio del pensiero la cui azione unica è certamente la crescita intellettuale e analitica dell’uomo… all’interno della Storia.
Cosa significa che nel tempo emerge qualcosa che è sempre al di là di se stesso?
In che modo si può parlare del tempo come di un’entità? Mi riferisco al passaggio nel successivo dove si afferma che il pensiero rimanda a qualcosa che il tempo non vede e non coglie.
Esempi di dinamiche e strutture che dominerebbero il tempo?
Personalmente, sono molto critico rispetto a questi ritorni, che in verità ritorni non sono (per fortuna, nel caso specifico di Hegel…), perchè in realtà prendono ciò che credono e scartano il resto. Lo penso ad esempio anche rispetto al pensiero di Marx, critico questo abuso dei riferimenti a lui persino da parte di persone che non condividono quasi nulla, alle volte soltanto un singolo aspetto.
E’ evidente ed è anche un fatto positivo, che chi viene dopo utilizzi in qualche misura tanto di ciò che lo precede, questo è parte dello sviluppo storico del pensiero, mi chiedo tuttavia se questa voglia di intestarsi ascendenze specifiche sia positivo. a me pare il contrario, da una parte si opera anche inconsapevolmente una revisione di un pensiero che meriterebbe di essere considerato per quello che l’autore volle fosse, e dall’altra mi pare una cessione di responsabilità rispetto alle proprie personali scelte di pensiero, appoggiare ciò che si vuole proporre sull’autorità riconosciuta di un grande del passato.
Nel merito, mi pare, ma dovrei leggere i libri citati per non cadere in errore, che si voglia criticare la filosofia analitica con argomenti analoghi a quelli posti dall’ultimo Wittgenstein, ma basandoli su un autore. Hegel appunto, che dei problemi del linguaggio non mi pare si sia occupato granchè, attraverso un cammino come dire alquanto tortuoso.
@ DFW vs RB:
da non massimo esperto di Hegel io ho interpretato le espressioni
“nel tempo emerge qualcosa che è sempre al di là di se stesso” e ” il pensiero, portandolo alla luce, rinvia a qualcosa che il tempo stesso non vede e non coglie”
intendendo “tempo” come una determinata epoca, un determinato contesto sociale in un momento storico preciso, in cui sono presenti determinate pratiche in ambiti umani come la politica, la morale, l’arte e così via, e la filosofia secondo questa interpretazione di Hegel dovrebbe cercare di comprendere che certi aspetti di tali ambiti che noi riteniamo “incondizionati” e dunque validi in ogni luogo e tempo da ogni persona che ragiona correttamente (che ne so, che la famiglia debba essere composta in un certo modo e non in altri, oppure un sistema politico particolare in cui ci sono partiti con certi valori piuttosto che altri, oppure ritenere che gli animali debbano essere trattati in un certo modo piuttosto che in un altro, oppure ritenere che l’arte debba rispettare certi criteri per essere definita arte e arte di alto valore…) in realtà dipendono fortemente da particolari condizioni di questa precisa cultura in questa precisa epoca e tuttavia si scopre che queste condizioni particolari non sono accidentali ma hanno una sua ragione in quanto fanno parte di un processo storico che ha delle sue leggi sovrastoriche (del tipo “La famiglia, il sistema politico, la concezione del rapporto con gli animali e quella dell’arte nel corso dei secoli si sono evoluti seguendo certi sviluppi con queste regolarità…).
Comunque, se è corretta questa mia interpretazione di Hegel come è descritto da questo articolo, io sono alquanto scettico al riguardo queste leggi necessarie della storia, già Darwin ci mostra che la storia della vita non è un piano finalistico, anche la storia dell’uomo mi pare non sia una marcia lineare avente qualche regolarità. Io ad esempio penso che i diritti umani siano qualcosa di più di una semplice convenzione fatta da uomini di una certa epoca, il punto è che non mi pare che ci sia un processo necessario che impedisca che malauguratamente in un futuro non troppo lontano gran parte dei paesi occidentali in cui vigono questi diritti umani si ritrovino governati ad esempio da una teocrazia islamica che li calpesta tranquillamente. Mi corregga pure qualcuno più esperto di me su Hegel se non ho ben afferrato il suo pensiero su questo argomento.
@ Michele Dr
sì, io più o meno conosco questa tua interpretazione, che però Illetterati dice, attraverso i vari esempi portati, essere una visione riduttiva quando non caricaturale (magari potrebbe spiegarsi un po’ di più).
Ma non capisco il significato letterale della prima frase e mi pare assurdo il significato della seconda.
esiste un x che è sempre al di là di x?
c’è qualcosa che il tempo vede e coglie?
Che l’attitudine della filosofia americana (tra pragmatismo e pensiero analitico o filosofia della scienza, che di solito si classifica con l’orribile termine “epistemo-logia”… ed anche “classificare” non è migliore, a dire il vero, riferito al pensare) possa dirsi “speculativa” mi sembra quantomeno un’eccesso di generosità da parte della speculazione (nel senso hegeliano del termini)…
Il fatto, poi, che il “pensiero” anglo-amerciano domini l’occidente, quindi il globo, di per sé non attesa se non un dato di fatto: il trionfo, l’affermazione mondana di un pensiero è affermazione (verità) solo in senso mondano…
Alla domanda se l’America sia più forte perché dominante oppure domini perché è è più forte, va senz’altro risposto con la seconda ipotesi: cioè domina perché dispone di un pensiero più forte (la prima ipotesi lascia, infatti, del tutto inspiegato il “perché”).
Ma ciò – di nuovo – attesta la “forza” operativo-funzionale del suo pensiero: ma il pensiero si misura sulla base dell’efficacia?
Non direi proprio, poiché “efficacia” è già prassi, non teoresi.
Dopodiché, provo ad aggiungermi anch’io agli esegeti di alcuni passaggi del bell’articolo del prof. Illetterati, sperando di fare cosa utile.
Ma partirei da un altro, in cui L’l’Autore prende in esame il testo di Pinkard, le cui tesi così riassume: «[…]l’idea secondo cui le strutture della ragione non sono né un portato meramente soggettivo, né qualcosa di dato una volta per sempre» perché «sono il prodotto delle pratiche di riconoscimento reciproco tra punti di vista sul mondo che si mostrano in conflitto […] il cui dissidio non è conciliabile sino a che non sia stato costruito socialmente un punto di vista condiviso».
A parte che una conciliazione sulla base di una condivisione (=convenzione?) di natura sociale e per di più autoliminantesi ad un determinato ambito, non mi pare che abbia nulla di hegeliano (della “conciliazione” hegeliana) bensì abbia molto di un’astrattezza intellettualistica che si pretende di risolvere senza trascendere il livello intellettualistico-astratto (si mantengono inquestionati sia gli ambiti, differenti fra loro, sia i soggetti o attori che metterebbero in campo la conciliazione socialmente intesa e costruita).
Ma – soprattutto – (mi) chiederei:
le strutture razionali come un portato non “prodotto” dal soggetto, empiricamente inteso, sono qualcosa che non è mai dato definitivamente o, piuttosto, sono qualcosa che non è mai dato tout-court (che non è un “dato”,stante che tutto ciò che è dato è dato sempre per modum recipientis, ossia in modo finito e soggettivo, in senso soggettivistico).
Ma di più:
come (su quale base) si pone il discrimine – implicito nella succitata formulazione – tra “modi di darsi” (per loro natura plurali) ossia, mi permetto di chiosare, punti di vista e “ciò” di cui sarebbero punti di vista?
Già questo “rapporto” tra la cosa stessa ed i punti di vista NON è un punto di vista… eppure, sembra che la lettura indichi che mai possiamo trascendere l’ambito dei punti di vista…
Dunque, la cosa stessa (le strutture razionali) è un mero presupposto, stante la suddetta impostazione di lettura?
Come se ne affermerebbe (meglio: riconoscerebbe) la effettività ossi ala realtà non semplicemente esteriore rispetto al soggetto né meramente dipendente da questo?
Anche questa assrzione di Illettearti mi sembr aalquanto degna di riflessione: «La filosofia, per Hegel, è invece questa lotta perenne della ragione di liberarsi dai condizionamenti del tempo dentro però la consapevolezza che il tempo (e dunque la storia, le comunità, i luoghi, le istituzioni) è l’unico terreno nel quale il pensiero trova la sua concretezza e il suo sviluppo».
E’ una chiara esplicitazione del celebr eadagio hegeliano che connota il sapere filosofico come “il proprio tempo appreso in pensieri”.
Frase apparentemente banale e piana, in realtà difficilissima.
Infatti, l’accento va, a mio avviso, tutto su “appreso in pensieri” (che potremmo rendere: veramente appreso, ché solo nel pensiero si apprende qualcosa nella sua essenza o verità, essendo essa non-altra dal pensiero nella sua strutturazione: perché non può esserlo, ragion per cui non si pone luogo a nessun diallele, dicendo quanto si è detto).
Ma questo significa, detta per immagini (rappresentativamente, direbbe Hegel, quindi inadeguatamente) che il “proprio tempo” è nel pensiero e non il pensiero nel tempo.
E già questo rovescerebbe la lettura immediata del celebre passo.
Ma, allora, perché il pensiero non starebbe “fuori” dal tempo, visto che sembra non dipendere da questo? (tant’è, appunto, che tempo e storia non si danno se non “nel” pensiero che li apprende).
Se il pensiero si sa come l’orizzonte in cui ogni tempo, fatto “accade”, non nega con ciò stesso di appartenere ad ogni accadimento e fatto che si dà nel tempo (che è tempo o storia come storia di fatti, di oggettivazioni di pensiero)?
Dove sta, in somma, la “necessità” del tempo e della storia, se essa viene (logicamente ed ontologicamente) “dopo”il pensiero e “nel” pensiero che la apprende?
La risposta che darei è: la “necessità” dello svolgimento o processualità storico-temporale (anche se i termini non sono sinonimi, propriamente) è “nel” pensiero medesimo, ossia nella impossibilità che il pensiero si pensi (si sappia, faccia esperienza di sé) in modo diretto, immediato.
Il pensiero, detto ancora per immagini, non può vedersi “faccia a faccia” ma solo nello (meglio: mediante) il riflesso storico-temporale, riconoscendosi in tale farsi altro da sé ma restando sempre in se stesso.
Perché, in definitiva, il pensiero stesso non è un immediato, ma è mediazione in atto, sempre.
M ala mediazione non può venire concepita essa stessa in modo immediato, magari opposta all’immediato che arriverebbe in seguito a mediare: potremmo dire che “effettiva” mediazione (nel suo concetto, ovvero come concetto in cui si è consumata ogni alterità e presuppositività) è l’immediato-e-la sua mediazione, immanente all’immediato (intima ad esso).
Immediato sarebbe, allora, il “proprio tempo” come qualcosa che starebbe e sussisterebbe prima e fuori rispetto al “pensiero” che lo apprende, e apprendendolo apprende null’altro che se stesso: sapendosi, appunto libero, nonostante le limitazioni, le quali – a rigore – non “sono” mai effettive, se non se il pensiero attribuisce loro qualche effettività (qualche peso di realtà)… m apotrebb efarlo solo venendo meno al suo sapersi pensiero (sapersi ciò in cui ogni opposizione, alterità, limitazione, addirittura ogni finitezza è originariamente tolta) ossia dovrebbe non essere effettivamente pensiero, se pensiero coincide con il sapersi tale ossia sapersi libertà inderivabile e quindi liberazione infinita, poiché libertà non è un dato, non è qualcosa di reificabile.
Ma non sapersi pensiero da parte del pensiero, a me sembra, è impossibile, è “realmente” (in senso hegeliano) l’impossibile… per quanto “esistenzialmente/fattualmente” sempre possibile.
Ma è una possibilità che non potrà mai varcare i confini dell’astrattezza, della mera esistenza, della mera datità e che, anzi, per quanto sempre riproponentesi non può non dover anche e radicalmente sempre “finire”.
Mi permetterei, quindi, di dissentire in parte da Illetterati, quando afferma che «l tempo (e dunque la storia, le comunità, i luoghi, le istituzioni) è l’unico terreno nel quale il pensiero trova la sua concretezza e il suo sviluppo», perché l’unico terreno è semmai il pensiero stesso, ed è per questo che esso è sempre spinto a superare non solo ogni dato storico oggettivo, ma – direi – a superare la storia stessa intesa come fattualità, la stessa società, senza per questo prefigurare un “salto”(empirico-fattuale) fuori dal tempo, storia ,società… perché ciò sarebbe una contraddittoria reificazione fattuale del pensiero, dello spirito.
Né la liberazione dai limiti del tempo può derivare allo spirito dal tempo (che è limite) né la liberazione è una eliminazione fattuale dei fatti, temporale del tempo, istituzionalizzata delle istituzioni (un “”aldilà” rispetto ad essi), e però – direi – è anche il riconoscimento che il “rapporto” tra tempo e pensiero non è un rapporto, se non dialetticamente (ossia che si toglie ponendosi o si pone togliendosi).
Lo spirito non è in relazione con nulla, se non con se stesso.
Ovvero, come scrive Illetterati, «che il pensiero non può dipendere da nessuna autorità costituita che non sia il pensiero stesso», quindi nemmeno la sua oggettivazione, nemmeno un suo pensato o la totalità dei suoi pensati.
Quindi – per aggiungermi alle esegesi del passo che nei commenti risulta più menzionato, ossia «mostrando, nel pensiero e con il pensiero, in che senso nel tempo stesso emerga qualcosa che è sempre al di là di se stesso e in che senso il pensiero, portandolo alla luce, rinvii a qualcosa che il tempo stesso non vede e non coglie» – direi che ciò che nel tempo si mostra oltre il tempo è il pensiero stesso, nella sua attualità (che è autocoscienza) che non può scindersi, nemmeno distinguersi direi, in sé ed altro da sé (sia quest’ultimo anche il proprio esplicarsi processuale attraverso il tempo, la storia, la società, le istituzioni…).
«[…] compito della filosofia è innanzitutto lo svelamento di quelle dinamiche e quelle strutture che pretendendosi eterne dominano il tempo»: prima fra tutte l’affermarsi del tempo, della storia, della società, delle sue strutturazioni produttive e politiche (che si accreditano come “naturalità” rispetto a cui “non vi sono alternative”) come unici orizzonti di realtà!
Il pensiero – che è la realtà -, al contrario, consiste, per dirla con un po’ di enfasi, in un perenne dirsi “io (non) sono qui”, proprio mentre è sempre “qui” ed è solo nel “qui” che dice di non essere “qui”, ma appunto in ogni “qui”, e quindi in nessun “qui” (“atopon metaxy” prendendo a prestito una celebre espressione platonica, riferita all’attimo, all’exaiphnes: metaxy perché atopon).
P.S.
La necessità che il sistema sia sempre aperto deve derivare dalla stessa sistematicità del sistema quale sistematicità vivente ed intrascendibile, ché dichiararlo “chiuso” sarebbe averlo (contraddittoriamente) trasceso per de-finirlo appunto chiuso.
Apertura non come passaggio da chiuso ad aperto (che sarebbero due status opposti ed astratti), bensì come impossibilità (contraddittorietà) di OGNI chiusura, assolutizzazione.
Ma allora, domando, con ciò non è lo stesso pensiero a riconoscere di non poter essere l’assoluto, totalità assoluta ma di essere tensione all’assoluto (tensione assoluta essa stessa, peraltro)?
@ DFW vs RB risponderei:
non si tratta di “Esempi di dinamiche e strutture che dominerebbero il tempo”, ma del pensiero quale struttura per la quale il tempo stesso si dissolve, a mio modo di vedere (tempo non è lo stesso che divenire).
@ Antonio risponderei:
la storia stessa, in quanto è fatta (in quanto è un factum, reificato, esistente) non è (non coincide mai con) il pensiero.
Verum et fieri (non factum) convertuntur, quindi.
Il pensiero, a rigore, non esiste mai.
@ Vincenzo Cucinotta
“Hegel appunto, che dei problemi del linguaggio non mi pare si sia occupato granchè”
magari perché, a buon diritto, per Hegel linguaggio è rappresentazione, e non è mai concetto.
Ossia, non può essere ciò che esprime l’essenza del pensiero…
@ Michele Dr
Che legame ci sarebbe tra strutture necessarie e finalismo?
Finalismo implica che vi sia un fine (telos) esteriore rispetto allo svolgimento, il quale pertanto non sarebbe compiuto prima di raggiungere il fine ultimo.
La necessità delle strutture, invece, rendono compiuto ogni singolo momento in quanto risponde alla necessità della struttura a cui non possono non aderire, in ogni momento, non solo al raggiungimento del fine ultimo.
Ch , poi, il “vero sia l’intero” è questione che meriterebbe una riflessione a parte, ma se lo leggi come indicante che la verità è il processo nella sua completezza, allora anche in tal caso non vedrei spazio per un telos, per un dover-essere “altro” dall’essere del processo.
Quanto all’esempio dei “diritti umani”: se tu ne fai una mera convinzione (personale tua o collettiva) non fai nulla più che una contro-teorcrazia, anch’essa negabilissima in quanto incapace di dimostarsi innegabile.
Vuoi la prova in actu exercito?
Cosa facciamo noi difensori dei “diritti umani” rispetto a chi li viola: li possiamo solo bombardare.. che, a ben vedere, non è proprio il massimo rispetto dei “”diritti umani”?
Provocatoriamente ti direi addirittura: chi può essere tanto presuntuoso (direi dogmatico) da poter sapere e definire cosa siano i “diritti umani” ed imporne quindi il rispetto a tutti? (è una provocazione, ma cogli il senso…).
Cosa facciamo noi democratici rispetto ai regimi totalitairi? Gli imponiamo la democrazia, che non è un metodo propriamente democratico.
Cosa facciamo rispetto ai guerrafondai? Gli scateniamo contro una guerra infinita? Che è propriamente la guerra più totale che si possa immaginare.
ancora @ DFW vs RB
Non è che il tempo sia un’entità (non ha consistenza ontologica) , è “il divenire intuito” (= appunto solo intuito…).
Quanto alla tua domanda: “qualcosa che è sempre al di là di se stesso”,
ebbene, non devi intenderlo (in senso spazio-temporale) un X che è “qui” e “là” (= non-qui), che è insieme “ora” e insieme “dopo” (= non-ora),
perché questa è una rappresentazione (immagine) che fissa il pensiero in un qualcosa di disposto secondo lo spazio e/o il tempo… ma il pensiero non è “qualcosa” che sta, è un movimento (divenire).
E in cosa consiste questo divenire?
In un trascendersi continuo.
In questo senso esso è qui e oltre, insieme, perché trascendersi significa essere-nel-limite ma INSIEME anche sapersi-nel-limite (e per saperti nel limite, cioè sapere di essere limitato/finito) devi cioè aver già da sempre valicato, oltrepassato quel limite stesso, quindi essere-oltre-il-limite.
Per concepire l’oltrepassamento devi tenere INSIEME entrambi i momenti (nel-limite e oltre-il-limite)
Ma non sono in grado di fare le veci del prof. Illetterati, ovviamente… per cui, se magari legge i commenti, potrà risponderti meglio lui stesso o qualcuno al suo livello.
Non certo io.
Alcuni motivi, fra il serio e il faceto, per cui la filosofia di Hegel non è morta e per i quali, come scrive l’Autore dell’articolo, “può per molti versi decostruire il discorso filosofico contemporaneo, costringendolo a ripensare i propri spesso rigidi e artificiali disciplinamenti, portandolo fuori da una certa aria di scolastica che in questi anni più che in altri sembra farla per molti versi da padrona”, li ho inseriti in questo monologo qui:
http://www.dialetticaefilosofia.it/public/quaderni/302_desiderio.pdf
Offro quindi il mio contributo, ancorché dissacrante, al dibattito.
PS (@ DFW vs RB )
E’ l’atto dell’oltrepassare che “fa essere” i due momenti da tenere insieme (nel-limite + oltre-limite),
non viceversa.
@ Marco
Non ho capito.
Illetterati scrive che compito della filosofia è svelare quelle dinamiche e strutture che dominano il tempo. Io ho chiesto di farmi degli esempi. Non so, mi viene in mente il patriarcato come prima forma di ideologia e “struttura” umana.
Il pensiero è una struttura che dissolve il tempo? Tempo in quale accezione?
@ DFW vs RB
Le struttura sono la dialettica stessa, come movimento del pensiero che è, insieme, anche il principio secondo cui la realtà si determina.
Ma – bada bene – “realtà” (= Wirklichkeit, realtà effettuale, che è la razionalità stessa) e non mera “esistenza” o “fattualità” (= Existenz, Realität, Dasein) che è l’essersi oggettivato. reificato di un momento della razionalità… la quale è “fluidità” non fissabile, non ipostatizzabile.
Es. negli anni ’90 durante Tangentopoli, i partiti della Prima Repubblica erano ancora rappresentati in Parlamento re reggevano il Governo, ma il loro consenso reale si era sgretolato, perché la razionalità ne aveva sancito il crollo (la corruzione li aveva fatti implodere, non solo sul piano giudiziario… anzi, se la situazione socio-economica fosse stata florida, gli elettori non avrebbero nemmeno considerato i problemi giudiziari, e magari avrebbero confermato loro la fiducia politica:
per cui, essi di fatto esistevano ancora ma erano come dei “morti che camminavano” inerzialmente sul viale della Storia, perché la razionalità (la vita dello spirito, in tal caso in ambito politico) era già oltre.
Era solo questione di tempo, ma essi erano già morti (per “ragioni” che non derivavano dal tempo, ma segnano il tempo nel suo necessario – logico – svolgimento).
Le strutture di pensiero attraversano il tempo (come successione dei momenti, delle parti, di stati finiti-determinati) e trapassandoli impediscono di fissarli, di eternizzarli o assolutizzarli.
Tutte le ideologie, in tal senso visto che le chiami in causa) direi sono mistificazioni della idea, che è appunto principio che rende “inquieto”, “fluido” ogni cosa che è nel tempo e nella storia… e io direi lo stesso tempo e la stessa storia, ma questo è un punto di vista personale (e potrei sbagliare, chiaramente).
Sono stato d’aiuto?
Sei d’accordo?
@ TUTTI
Prima di tutto vorrei proporre un taglio radicale (almeno così mi appare) all’intera discussione circa il rapporto “proprio tempo” ed “apprensione in pensieri”, declindandolo così:
se il tempo (dunque ciò che si dà nel tempo) è finitezza e – iuxta Hegel – il finito è intimamente contraddittorio ( è sé e non-sé, sub eodem), allora la grande domanda diviene:
il pensiero è la intellezione incontraddittoria della contraddizione?
oppure il pensiero della contraddizione altro non è che il sapere che la contraddizione non è mai?
Anzitutto, noterei che contraddizioone mai apparirebbe senza riferimento ad un medesimo (incontraddittorio, appunto sub eodem: tolto l’’idem, non apparirebbe contraddizione alcuna mai).
Ma, allora, il punto è:
posto lo idem (e posto necessariamente, come IL necessario), allora come potrà apparire la contraddizione, se lo idem è l’impossibilità stessa della contraddizione?
Di più:
l’apparire (mostrarsi, porsi, realizzarsi) della contraddizione, se ad apparire è ‘veramente’ la contraddizione, non sarà esso stesso contraddittorio e quindi dovrà essere “apparire E non-apparire” simultaneamente, ossia non sarebbe apparire affatto…
Ma, allora, come si può pensare toglimento della contraddizione se essa non può porsi?
L’unico “togliemneto” possibile (e necessario) mi sembra sia l’esclusione – non presuppositiva ma dimostrativa – che togliemento debba e possa darsi, appunto perché non vi è nulla da togliere (essendo la contraddizione il nulla stesso, essendo l’unità degli opposti piuttosto nullità degli opposti): in altri termini. l’incontraddittorio è la “fine” radicale del finito, di OGNI finito.
Enfaticamente: la verità (intero, assoluto, incontraddittorio) è “la fine del mondo”, del finito.
Ed è la fine anche di tale “fine del finito” (la quale come tale, cioè come risultante dal togliersi, dal finire del finito, sarebbe essa stessa sempre qualcosa-di-finito).
@ Sonia
Interessante esperimento, Sonia, sotto la forma faceta non sfugge la serietà (appunto, non seriosa) dei temi.
Riporto e commento alcuni passi che mi paiono più problematici, o comunque che a me creano problema.
Sarebbe bello poterne discutere.
Inizio da qui, li enumero per comodità:
1)
“andrei oltre l’esperienza nel suo culmine, cioè vi sostituirei una forma di sapere non più esperienziale, bensì un quid che è divenuto un criterio per essa, un assunto definitorio e definitivo, astratto e astraente che le farebbe raggiungere la propria finitezza assoluta.” (p. 2)
Già qui c’è un po’ tutto…
Domando:
la forma non-esperienziale concerne l’esperienza nei suoi contenuti (dati) o l’esperienza qua talis, come atto? (in termini cartesiani, direi: i cogitata o la cogitatio, atto del cogitare irriducibile a qualsiasi contenuto intezionato?)
Perché se tale forma non-esperienziale (vogliamo chiamarla “metafisica”?) è oltre l’esperienza, va chiarito che l’esperienza non è essa stessa trascendibile: trascenderla sarebbe, infatti, ancora esperienza.
Quindi, in che senso è “oltre” l’esperienza senza essere “aldilà” (come i verbi “astrarre”, “astraente” “indurrebbero a pensare) dell’esperienza?
Io una risposta ce l’avrei (velatamente l’ho già detta…), ma vorrei prima sentire la tua.
La stessa locuzione “finitezza assoluta” come deve intendersi?
Perché – mi sembra – alla lettera è piuttosto una contradictio in adjecto…
2)
“Se la ragione è sovrana il singolo allora ha sempre torto.” (p. 2)
Il singolo o il particolare?
Non mi pare siano lo stesso… anzi.
Il singolare non è, forse, l’universale concreto? come indistinguibilità di universale e particolare, la cui opposizione è solo astratta (ed astraente sia rispetto al particolare sia rispetto all’universale), tale da perderli entrambi.
L’organismo (universale) non è altro dalle sue parti (organi), ma è l avita di ogni singolo organo nella sua irripetibile specificità, il quale è bensì in relazione con tutti gli altri organi, ma come tale è anche irridudicibile alla relazionalità… sicché OGNI organo è la vita dell’organismo ed è esso stesso un intero (indivisibile, irripetibile), e tutti sono tali.
Sicché tutti sono la “vita dell’organismo”, essa cioè è perfettamente immanente alle singole parti dell’intero (è tutta in ciascuna), ma (paradossalmente, ma solo per la doxa…) proprio per questo nessuna parte esaurisce la vita dell’organismo.
Ovvero – come tu scrivi (torturando il linguaggio: ma se c’è qualcosa che non merita “pietà” è proprio il linguaggio, che è immagine, che dice essa stessa “torturami” perché ha sopra scritto “…più in là!”, parafrasando Montale) ovvero: “ nell’in me del me di tutti” appunto.
E’, semmai, la divisione (oppositiva) tra individui e universale – vedi Hobbes – a determinare ‘logicamente’ la necessità di un universale assolutizzato che schiaccia gli individui (proprio per esserne il garante).
il singolo, come l’universale appunto, non ha opposto: è in-dividuo, non si può dividere tra sé ed altro da sé a cui rapportarsi, e rapportare è sempre determinare per aliud…
Il singolo, propriamente parlando, non è finito: è inesteso.
3)
“Siccome non c’è una sola verità (e quando mai avrei detto il contrario!)” (p. 2)
E, però, come la mettiamo con questa affermazione hegeliana:
“Solo l’assoluto è vero, solo il vero è assoluto”?
4)
“” La filosofia non giudica, non stabilisce, non enuncia: essa serve soltanto a comprendere, ad agire in base alla genialità pratica” (p.2)
Sulla prima parte d’accordo, ma la seconda proprio no…
A cosa servirebbe il “puro stare a guardare”?
A meno che non si intendesse che il “comprendere” è già prassi, ma in se stesso…
5)
“l’Assoluto è il risultato … L’Assoluto non viene prima, ma si manifesta alla fine del processo dialettico, il quale peraltro neanche ha una fine” (p. 2)
Punto davvero centrale, cruciale.
E’ ‘essenzialmente’ risultato: ma da cosa risulta?
Dal processo, il quale da cosa “inizia” se non dall’Assoluto stesso (pur assunto, inizialmente, come immediato)?
Dunque, ciò che risulta è ciò che già era (id quod erat esse), ossia non risulta effettivamente mai… e non risulta non perché il processo sia illimitato, bensì il processo è illimitato proprio perché l’assoluto (nella sua infinità, qualitativa) è infinitamente sempre ulteriore rispetto ad ogni processualità e relativi risultati, e lo è proprio essendo ‘presente’ interamente in ciascun momento del processo, sebbene più ‘manifestamente’ nel risultato (il quale in sé, avulso da processo, sarebbe peraltro un astratto).
Sicché, l’Assoluto non è ‘prodotto’ dal processo, se non nella misura in cui il processo stesso – in cui tutto è relativo e correlato a tutto – si ‘produce’(è un pro-dursi) nell’Assoluto, più che dell’Assoluto.
Io la metterei così… pensando più con Hegel che su Hegel, se vogliamo.
6)
“realtà non è immediatamente esistenza”
Perfetto!
7)
“è la Divina Commedia che spiega Dante, non il contrario!”
Idem, da sottoscrivere.
8)
“L’uomo, per me, è essere – nel – mondo, come direbbe Martin, ma anche essere – del – mondo, come direi io.” (p.4)
Buona, ma allora l’essere-del-mondo è mondo?
No, direi, piuttosto è la ”fine del mondo”, ossia il “finire del mondo” in se stesso e da se stesso.
Un finire che non finisce mai, a ben vedere, poiché la sua fine sarebbe un quindi di finito… da finire a sua volta.
La fine del finito, insomma, è sempre-da-finire, è sempre sul punto-di-finire…
9)
“”l senso consiste nella sua stessa produzione! E questa produzione coincide con la consapevolezza, progressivamente sempre più grande, della mia essenza di uomo libero, immerso fluidamente nel processo del divenire storico” (p. 4)
Se si intende che, in realtà, non si produce nulla (ma si esplica, si esplicita ciò che “è già”, eppure “è solo esplicitandolo”) sono d’accordo.
Cher la coscienza possa progredire, accrescersi è da discutere: non è essa che ”passi” da … a…, ma piuttosto ogni “passaggio” è in essa (ed essa o è da sempre – e non può non essere -, oppure non sarebbe mai).
10)
“Perché non c’è produzione senza desiderio. Ma desiderio di che cosa? Ebbene, di libertà.” (p.4)
Ma ‘desiderare’ non è già libertà?
Anche qui, a rigore, “passaggio” non si può dare…
11)
“Il rischio è la tirannide senza colore politico”
Qualche allusione a qualche attuale (dominante) ideologia politica spacciata per teoria economica?
Pardon, forse più religione pagana che ideologia politica…
12)
“il fondamento ultimo del mio modo di pensare: questo sapere non è inerrante,” (p.6)
Non sono d’accordo.
Il sapere dell’essenza, che è sapere che l’essenza non è un saputo (un contenuto) ma non può non coincidere con il sapere stesso (concetto) è necessariamente inerrante: non c’è spazio per l’errore, perché è esaurito ogni diaframma!
Il punto, piuttosto, è che tale sapere non può venire formulato in una proposizione, in una definizione, non è un predicato (se non di se stesso, tautologicamente, ma non in senso vuoto bensì come insormontabile epperò mai conchiusa “pienezza” del tutto, dell’intero).
13)
“Con la memoria la filosofia si volge indietro verso gli avvenimenti della storia, con la memoria li commemora, li cum – memora, ci rimane invischiata, ci sta in mezzo, se ne permea e ci si sviluppa dal loro interno.” (p.7)
Piuttosto, direi, è la storia che si sviluppa nella filosofia…
Grazie, ciao.
Dire che il linguaggio non esprime l’essenza del pensiero, non solo appare come un’espressione dogmatica, ma non significa nulla. Cosa sarebbe mai l’essenza del pensiero se non il pensiero, come se da una parte avessimo il pensiero, e dall’altra la sua essenza. Da una parte abbiamo l’albero e dall’altra la sua essenza, e potremmo continuare. Forse scopriremmo alla fine che da qualche parte ci sta l’essenza dell’essenza del pensiero, ben distinta anch’essa dall’essenza del pensiero.
In ogni caso, poichè io uso le parole per esprimere qualcosa, non intendo dialogare con chi con esse gioca, io ho altri tipi di divertimento.
Appunto, questo si intendeva dire:
che l’essenza del pensiero è il pensiero dell’essenza (e questo può apparire un gioco di parole solo a chi si fermi alle parole e non guardi ciò che esse indicano), ossia :
pensiero è pensiero di ciò che “è veramente”, e ciò che è effettivamente è la “pensabilità” o intelligibilità (di una cosa).
Non si tratta affatto di distinguere pensiero ed essenza (per le insanabili aporie derivanti da una simile distinzione intellettualistica), ma di intendere – in uno – che pensiero ed essenza sono indistinguibili e, tuttavia, che non si pensa l’essenza (come un oggetto di pensiero) ma dell’essenza si sa solo che essa è la cosa stessa, ma la cosa (in senso oggettuale) non è l’essenza:
la cosa, cioè, intesa come ciò che viene pensato non coincide con l’essenza (ciò in virtù di cui la cosa è pensata, ossia la sua intelligibilità), poiché l’essenza non è un pensato, non è un contenuto di pensiero.
Appunto per questo, “prima” di utilizzare il medium linguistico devo sapere (e questo sapere, ossia pensiero, non mi deriva dal linguaggio, dal piano linguistico) quale sia l’essenza dello stesso linguaggio, quale sia la struttura intelligibile a cui risponde.
Sicché parlare di un linguaggio dell’essenza (= che esprima l’essenza, ossia il pensiero, “spercularmente” per così dire) è pretesa vana, essendo il linguaggio stesso inscritto nel pensiero della sua essenza, che è – lo ripeto a scanso di equivoci (equivoci resi possibili dal linguaggio) – essenza come pensiero, intelligibilità.
Quello che si intendeva dire era appunto che il linguaggio è bensì l’unico mezzo disponibile al pensiero ma, proprio in quanto mezzo, è sempre a rischio di convertirsi in ostacolo (come si vede).
Linguaggio è tutto ciò che è pensato: ma la pensabilità (essenza) del pensato – essenza che il pensato “indica” (indicare è riferirsi, e riferirsi è la struttura del linguaggio, cioè del significare) – non sarà mai reperibile in qualche pensato (linguaggio).
Se poi qualcuno ha voglia di attribuire intenti ludici ad altri, per giustificare la propria indisponibilità al dialogo, è liberissimo di non discutere, ma non ha diritto di ritenersi depositario della autentica “intepretazione” degli intenti altrui.
Ancora sulla Filosofia come “il proprio tempo appreso in pensieri”:
a mio avviso, è da intendersi – come accennavo sopra – non solo come irriducibilità (quindi libertà) del pensiero o autocoscienza rispetto ad ogni fatto e concrezione comparente nel tempo, nel corso della storia, e tale per cui si impone la loro de-assolutizzazione,
bensì, a me sembra che – a rigore – quell’espressione indichi la necessità che il pensiero, lo spirito si sappia come irriducibile al tempo e alla storia tout-court.
Chiaramente, si sa tale solo nella storia (e non in un salto mistico fuori da tempo e storia e società), però mai in virtù della storia stessa.
Infatti, come potrebbe lo spirito (la ragione, il pensiero concreto) dominare la storia, facendosi storia,
se esso fosse solo storia ossia coincidesse ESSENZIALMENTE con la storia (o, se si preferisce, se la storia fosse l’ESSENZA stessa dello spirito)?
@ Vincenzo Cucinotta
Ad abundantiam:
qual’è la struttura (essenza, intelligibilità) del linguaggio come tale, se non “indicare” (= significare, riferirsi a) la cosa, la cosa nella sua essenza?
Ebbene, se esso la indica è perché se ne distingue, sicché, fintantoché sarà distinto da essa, non la potrà mai “dire” veramente.
E se non restasse sempre distinto, non sarebbe più “significante” (perché coinciderebbe con il “significato”).
Viceversa, se si volesse negare ogni distanza e distinzione tra linguaggio e cosa, si avrebbe come conseguenza che il linguaggio “sarebbe” la cosa stessa (quindi, anche che la cosa “sarebbe” linguaggio, coincidendo con la parola).
In tal caso, ci sarebbe da chiedersi:
perché ancora distinguere (a parole e concettualmente) tra “parola” e “cosa”, se sono un medesimo?
Ma soprattutto:
la coscienza di tale presunta identità parola-cosa, dovendo essere – proprio come coscienza, cioè pensiero – distinta rispetto a quella presunta identità di cui si configura come coscienza,
proprio in virtù di tale distinguersi la coscienza (pensiero) non sarebbe omogenea alla identità parola-cosa.
Col che, di nuovo il problema si riproporrebbe:
quella coscienza che riconosce l’identità di “parole E cosa” (linguaggio E essenza), non appartenendo a tale identità già la negherebbe, negherebbe cioè che tale identità sia vera, ovvero riconoscerebbe che l’essenza non è alla portata del linguaggio.
Questo per dimostrare che Linguaggio ed Essenza non stanno in rapporto (se non nel senso, dialettico, che l’essenza esige il togliersi del linguaggio, proprio in quanto “significante”, “indicante l’essenza ma “incapace” di esaurirla, di dirla compiutamente),
e con ciò dovrebbe essere chiaro anche perché “dire che il linguaggio non esprime l’essenza del pensiero”, non è affatto “un’espressione dogmatica”, come mi si rinfacciava.
Donde la fondatezza (speculativa) del fatto che – come sempre tu lamentavi, ma non in riferimento al sottoscritto bensì puntando ben più in alto – Hegel “dei problemi del linguaggio non […] si sia occupato granché”.
E a ragion veduta, direi (nonostante le parole, nonostante il linguaggio).