di Rino Genovese
[Questo intervento è uscito sul sito di «Il Ponte»]
Sono state le prime parole di Hollande dopo la strage di mercoledì 7 gennaio: ci vuole l’unità nazionale. E le organizzazioni sindacali, i partiti politici, un insieme di sigle della cosiddetta società civile, si sono affrettate a indire una manifestazione per domenica 11 – ancor prima che la tragica vicenda fosse conclusa, prima che si sapesse che il “terzo uomo”, quello che aveva ucciso a caso una poliziotta, stesse per prendere in ostaggio un imprecisato numero di clienti in un negozio ebraico. Da Place de la République a Nation: strano corteo, che vedrà sfilare il presidente e il suo avversario Sarkozy, i socialisti e i comunisti e i verdi, mentre si discute se non sia stato un errore lo sgarbo fatto a Marine Le Pen non invitandola, regalandole così l’unico posto libero fuori dal “sistema”. A questo punto, certo che lo è. Se si tratta di celebrare i valori repubblicani, di esaltare il bene indiscutibile della libertà di stampa e così via, tutti possono essere invitati. Anche i razzisti. Anche l’ex ministro dell’interno (Sarkozy, appunto) che, per calcolo elettorale, proclamava una decina di anni fa di voler ripulire le periferie con il bidone aspiratutto.
Gli anni sono trascorsi e, tra un’elezione e l’altra, chi si ricorda più delle banlieues francesi? Eppure guardate i loro volti, quelli dei giustizieri antivignettisti, i fratelli franco-algerini, e del loro supporternero: simili a quello del ragazzo di Tolosa che, qualche anno fa, proprio durante la campagna elettorale per la presidenza della repubblica, ebbe a compiere analoghe gesta coronate dalla volontà di martirio. Non potrete sbagliarvi: riconoscerete le facce della banlieue. Prima di quella enorme genericità che sono i valori repubblicani, sarebbe sufficiente un’attenzione al particolare per cogliere il filo conduttore che lega la protesta “dei fuochi” (incendi e scontri nelle notti delle periferie francesi) di dieci anni fa alle imprese odierne. C’è stata un’escalation, certo, connessa alla situazione internazionale – ma è da ciechi non vedere come la questione sia essenzialmente interna. E aggiungo: interna europea, non solamente francese. Altro che terza guerra mondiale! Quale sarebbe, chi l’avrebbe dichiarata? Uno Stato fantasma formato da un gruppo di fanatici, nato dalla situazione creatasi tra Siria e Iraq con aspirazioni da internazionale del terrore, o i loro fratelli maggiori, e rivali, di Al-Qaida dalle mille facce, dallo Yemen al corno d’Africa, al Mali, alla Libia e un po’ ovunque nel mondo arabo-musulmano? Con chi siamo in guerra se non con noi stessi, mondo occidentale europeo che reca in sé un’eredità sporca come quella del colonialismo?
È la questione postcoloniale, nuovo aspetto della questione sociale, che brucia intensamente nellebanlieues. È stato detto e ripetuto: i giovani francesi provenienti dall’immigrazione, di seconda e terza generazione, non sopportano, come i loro padri, il razzismo strisciante o esplicito che li circonda e non si accontentano di parole che per loro sono vuote – liberté, egalité, fraternité –, passando con una rapidità sorprendente, nel tentativo di riappropriarsi delle radici culturali, dal rap all’islamismo radicale. Dove non appare il conflitto sociale, aperto e democratico, ecco riapparire la tradizione culturale chiusa in se stessa, più o meno inventata o reinventata come appiglio identitario. Culto della violenza, jihadismo, sentimento del martirio, ne sono la conseguenza.
Perciò meglio farebbe la sinistra francese – ormai assente dalle periferie – a interrogarsi su se stessa: se tanti giovani fuggono via per addestrarsi alla guerra santa è perché non trovano una sponda politico-sociale al loro profondo malessere, e credono di trovarne una politico-religiosa. Di fronte a questo problema, si può anche essere presi dallo sgomento quando la violenza esplode, ma non ci si può rifugiare nella vaghezza di un’unità nazionale che è la pura e semplice esaltazione di se stessi in quanto “buoni” e “repubblicani” contro… contro non si sa chi o che cosa, se non i “cattivi” generati tuttavia dal seno stesso della repubblica e della sua storia.
[Immagine: Poliziotti a Porte de Vincennes, 9 gennaio 2015].
Caro Rino,
il tuo discorso mi sembra troppo parziale, soprattutto per il modo in qui liquida la dimensione internazionale e religiosa del problema, e vorrei integrarlo con una breve analisi di Etienne Balibar, che condivido in tutti e tre i punti: http://www.liberation.fr/societe/2015/01/09/trois-mots-pour-les-morts-et-pour-les-vivants_1177315
Condivido anche alcune tue perplessità sulla manifestazione repubblicana, ma alla fine credo che sia bene andare e fare – appunto – comunità, perché questi tre giorni a Parigi sono stati psicologicamente devastanti. Li abbiamo passati come bloccati in stand by — io ad esempio mercoledì mattina insegnavo mentre arrivavano le prime notizie via sms, era surreale, mentre giovedì e venerdì alcuni hanno annullato tutti gli impegni, altri hanno continuato a lavorare come sempre, tutti non abbiamo fatto che consultare internet e telefonarci sgomenti — insomma, ora abbiamo bisogno di elaborare pensieri ed emozioni in un momento dedicato esclusivamente a questo, e insieme agli altri.
Che i giovani nelle periferie – ma anche in centro – siano abbandonati a se stessi, anche nella mia città Bari, mi sembra ovvio: c’è un tasso di delinquenza giovanile altissimo, ci sono aggressioni e furti a passanti, ecc. anche perché non studiano, non lavorano, non fanno nulla…da qui, a diventare adepti di un imam fanatico pure morto, ce ne corre. Nel caso in specie, pur condivendo l’analisi di Genovese (in fondo è un riconoscimento da eletti appellarsi ai valori classici della democrazia, c’è un autocompiacimento che non consola), mi chiedo come mai questi famosi valori occidentali non fanno presa su giovani che pure agiscono in maniera molto occidentale, con armi che si fanno in occidente e si esportano a migliaia nel terzo mondo, che hanno vissuto a Londra e Parigi, le capitali della libertà, che cosa si sono fumati questi per non avere nessuna empatia (e si badi che i giovani in gran parte sono violenti, dai videogiochi ai talent è tutt’una spietata concorrenza), che accoglienza trovano in città e che cosa ricevono poi una volta che vanno in Yemen, in Siria, dove qualche agente segreto farebbe bene a farsi un giro…Si tratta di lavaggi del cervello!| Quanto al locale, gli esempi purtroppo non mancano..mi ha molto colpito un omicidio, anzi un femminicidio avvenuto qui nel 2013: un ragazzo africano sui 17 anni che era sbarcato con i gommoni e che era stato preso in carico dalle cooperative di aiuto ai non maggiorenni; appena raggiunti i 18 anni, questo è stato sbattuto per la strada e la strada di una qualsiasi città occidentale non è per niente confortevole, si sa, fino a quando insegue e violenta e uccide una donna del tutto inerme. Le cooperative poi hanno detto: sì, lo conoscevamo ma cosa potevamo fare, siamo pagati solo fino alla maggiore età, e gli psicologi, e gli assistenti sociali? personaggi inesistenti! E’ vero, anche se ci fa specie, anche se non ci avventuriamo in questi postacci, forse dovremmo cominciare proprio dalle “racaille”, dalla gente che sta nelle periferie, per diffondere “l’amore più che l’odio” come dfoceva Charbo. Ma purtroppo qui tra l’amore e la morte prevale la t! E’ un lavoro lungo, difficile, si tratta come sempre di conoscere il nemico; e credo anche che nello Yemen, in Siria ci siano tecniche raffinate di lavaggio del cervello…Le ragazze rapite in Nigeria per esempio…ormai sono perse, non possono tornare indietro perché sono state suggestionate, non ricorderanno più nulla del loro e come le aiutiamo noi, coi messaggini? è spaventoso, io sono davvero annientata!
Penso che Rino Genovese abbia ragione a insistere sul problema della giustizia sociale, ma condivido le perplessità espresse da Barbara Carnevali.
Per me questa manifestazione riguarda l’architettura morale delle società democratiche. Questa deve essere abbastanza sottile da poter sostenere una pluralità di etiche dense, di concezioni sostanziali diverse della vita buona. Per reggere, questa architettura sottile ha bisogno sia di un senso diffuso di giustizia sociale, sia di rituali e celebrazioni collettive che la agganciano a un tessuto di esperienze ed emozioni che condivise fra persone diverse. Certo, ciò che definisce le società democratiche è che persone e gruppi diversi torneranno a discutere fra gruppi e individui diversi: ma non è questo il momento.
@ Mariateresa, lei ha in parte ragione: un senso di ingiustizia sociale non basta a spiegare questo attacco terroristico. Ma se capisco ciò che suggerisce, non mi trova d’accordo. Come spiegava Piras, l’Occidente non c’entra nulla. Se si guardano le persone che partecipano e i simboli, si vede che è una manifestazione internazionale. Per me, ciò che è in gioco è l’introiezione da parte di persone e gruppi sociali diversi dell’orizzonte delle democrazie pluraliste. E questo è un problema che riguarda tutte e tutti. Per fare un esempio, pensi a italiane e italiani (cattolici e non) che si uniscono alle mafie.
Caro Baldini, mi piace molto quello che dice sul rapporto tra democrazia come architettura sottile ed etiche dense. Come educatore, sento fortemente il problema dell’assimilazione culturale. Chi vive nel mio paese deve conoscerne (bene) lingua e cultura, ma non si può trattare di semplice assimilazione, la sua presenza, la presenza di un’etica diversa e di una identità diversa, deve modificare anche la mia. Come ha ben spiegato Genovese, la costruzione di quella psicologia deviante dei terroristi è (anche) un problema interno alla nostra società.
Solo su una cosa non concordo con lei: è già il momento di parlarne. So bene che tutti sentiamo il bisogno di silenzio e pudore davanti ai morti, ma oggi non viviamo più in una società in cui ci siano davvero momenti rituali di vero silenzio, anche i passaggi drammatici della celebrazione, del funerale, dell’evento commosso collettivo sono circondati da un infinito chiacchiericcio mediatico (cui, di fatto, stiamo contribuendo anche noi qui). Immagino che anche lei sarà su Facebook. Immagino che anche lei avrà già avuto modo di leggere deliri complottistici, discussioni sulla liceità della libertà di espressione, tentativi di condannare la violenza dei terroristi mescolati perché all’imbarazzo che alcune vignette provocavano e al tentativo quindi di tentare una presa di posizione coerente (la formula: Charlie Hebdo si è spinto troppo oltre, ma la libertà di espressione non ha confini). Ecco, io penso che davanti a tutto questo dobbiamo già ragionare, già fare distinguo, ecc…
Probabilmente è poco pietoso, ma il ronzio delle voci cattive è già troppo, troppo forte.
Saluti
Errata corrige: togliere il “perché” tra “mescolati” e “imbarazzo”
Caro Daniele Lo Vetere, la ringrazio. Anche se rischiamo di divagare rispetto al post, vorrei cercare di dire due cose. Forse diciamo la stessa cosa, ma se posso, lo direi un po’ diversamente. Non direi che bisogna assimilare qualcuno a una cultura: come educatori (anch’io insegno), bisogna aiutare persone a mettere insieme liberamente il bricolage della propria cultura e identità. Bisogna anche insegnare una lingua comune: ma non perché trasmetta una cultura o un’identità comuni, ma perché serve alle persone per comunicare e funzionare nella società. Ma ciò che importa alla fine dei conti è che l’integrazione economica e sociale delle persone e dei gruppi e la condivisione di un orizzonte morale minimo (diritti, tolleranza, uguaglianza, libertà, giustizia, ecc.). E nell’integrazione, il sistema educativo svolge un ruolo minimo: perché l’integrazione è un processo sociale complesso.
Lei ha ragione: discussioni ed emozioni sono intrecciati. E infatti grazie all’articolo di Genovese, qui possiamo discutere di emozioni politiche. Ciò che resterà di oggi sono però la cerimonia collettiva e le sue emozioni. Domani arriverà presto e inizierà il lavoro faticoso: discutere, progettare, dividersi, accusarsi, cercare compromessi, ecc.
Speriamo per il meglio. La ringrazio ancora. AB
Per Barbara Carnevali.
Il contesto internazionale c’è, ed è importante, ma come uno sfondo di azioni che hanno la loro origine in Francia. Quello che mi fa rabbia, nell’atteggiamento di Hollande, è che chiamando in causa l’unità nazionale ha di fatto disegnato uno scenario di guerra come nel 1914, ma se quell’atteggiamento era sbagliato all’epoca, aveva almeno un senso; oggi non ne ha alcuno – tranne il fatto di mascherare l’insipienza di un personaggio politico che non sa più che pesci pigliare (perché, piuttosto, la sede del settimanale, già oggetto di aggressioni, non era adeguatamente protetta?). Comunque, il contesto internazionale – a parte i campi di addestramento jihadisti che ci sono davvero come, in altri tempi, c’erano quelli dei combattenti palestinesi (do you remember il terrorista internazionale Carlos?) – è uno sfondo caotico. Divampa la guerra tra sciiti e sunniti (da notare che nessuno si lamenta più dell’Iran, che nel frattempo è diventato un alleato dell’Occidente, e gli hezbollah libanesi, di osservanza sciita iraniana, hanno condannato gli attentati di Parigi), mentre anche tra il cosiddetto Stato islamico e Al-Qaida, entrambi sunniti, in Siria se le sono date di santa ragione. Dunque l’alleanza tra il giovane nero ispirato dallo Stato islamico e i due fratelli franco-algerini, facenti invece riferimento ad Al-Qaida, è una specie di intergruppi improvvisato a Parigi (come si vedevano un tempo nei cortei o nelle assemblee talvolta innaturali connubi trotsko-stalino-maoisti). Anche la religione va considerata nel suo aspetto politico e nelle differenti situazioni: a un certo punto può far comodo a un ayatollah prendersela con quella che è considerata un’offesa a Maometto, ma in una fase diversa non più, si lascia correre. E chi non vede che l’islam si presta in modo particolare a essere usato politicamente, sia per la carica di redenzione terrena che porta in sé (anche senza arrivare al martirio, che comunque può dare un senso “hic et nunc” a una vita sballata di periferia) sia perché non ha un’autorità centrale ma si avvale di una pluralità di ministri della fede, chi non vede l’aspetto politico-religioso nelle scelte radicali, non vedrà neppure che, anziché organizzare manifestazioni unitarie con la destra, sarebbe più saggio cercare di offrire una speranza a certe nuove generazioni di francesi (sottolineo – di francesi) magari semplicemente cominciando a riaprire le sezioni dei partiti di sinistra nei quartieri sensibili. Quello che, infine, mi dà fastidio nell’uso del termine “comunità” (anche nell’articolo di Balibar, che per altri versi condivido) è che non esiste una “comunità democratica” perché la democrazia è lo spazio del contenzioso e del conflitto – ovviamente al di qua della violenza. C’è sempre qualcuno che sta fuori, e difatti fuori dalla celebrazione “comunitaria” è rimasta Marine Le Pen, che lucrerà non poco dagli attentati e anche dall’essere rimasta fuori. E poi questa “unità nazionale”, fatta dai “buoni”, come sarà vista dai giovani delle periferie, quelli della comunità dei “cattivi” disponibili a scivolare verso la violenza? Non potrebbe incoraggiarli? Se ancora per “comunità” dobbiamo intendere la comunità di tutti con tutti, delle differenze e della loro coesistenza pacifica, beh, questa è una versione massimalista dell’utopia cui antepongo quella, problematica ma più pragmatica, di una democrazia sociale dispiegata. Di cui però non s’intravede neppure l’ombra nei gesti e nelle parole del socialista Hollande.
Per Mariateresa.
I valori occidentali e moderni non hanno presa, in larga parte del mondo e sui ragazzi usciti dall’immigrazione, perché hanno perso il loro carattere utopico. Questo è un problema che riguarda anzitutto la sinistra. Per battere la violenza, la delinquenza giovanile e così via, ci vogliono politiche pubbliche, bisogna mettere a disposizione risorse, incrementare la formazione, lottare contro la disoccupazione – ci vuole tutto questo e anche un orizzonte utopico capace di confrontarsi e di competere con lo spirito di redenzione delle religioni. L’unità nazionale va in senso contrario, perché copre i problemi sociali e non offre una sponda politica a chi tende verso una prospettiva politico-religiosa. Ci sarebbe inoltre da considerare che il processo di secolarizzazione, come tutti gli avvenimenti dimostrano, non ha avuto grande successo nel mondo (forse neppure nei paesi occidentali, dopotutto) ed è andato a male quasi quanto quello di decolonizzazione (finito per lo più nel predominio di élite dispotico-militari e corrotte): perciò il caos cui assistiamo ha una sua forte connotazione storica – come dimostra perfino la Nigeria, uno dei paesi africani più sviluppati e, al tempo stesso, attraversato dalla guerra di religione.
Per Alessio Baldini.
Non penso che la democrazia abbia di per sé un’architettura morale (questo lo pensa Piras). La considero lo spazio del contenzioso e del conflitto, con certe regole, ma anche un po’ disordinato (meno male!) e per questo perfettibile. È solo quando inseriamo degli aggettivi che la democrazia si connota. “Democrazia liberale” è il compromesso, quasi un ossimoro, che va per la maggiore – non credo che sia da buttare ma neanche che sia l’unico possibile. La democrazia sociale mi piacerebbe di più, sarei per un intreccio tra forme di rappresentanza e forme di autogestione non delegata nel senso di una diffusione del potere. Ed eccoci di nuovo all’utopia…
Per Daniele Lo Vetere.
“Charlie Hebdo” si è spinto “troppo oltre”? Io penso che le loro vignette fossero proprio sbagliate, brutte, segno di un’arroganza nei confronti dell’ “altro” che uno come Voltaire, che diceva malissimo delle religioni e in particolare dell’islam, poteva permettersi perché in fatto di illuminismo era un pioniere e, ai suoi tempi, era persuaso che un po’ alla volta si sarebbe fatta strada una religione esclusivamente razionale. Oggi sappiamo, da illuministi autocritici, che le differenti culture sono alla base delle religioni e delle loro varie interpretazioni, e che in quanto culture vanno accettate altrimenti sarebbe la guerra perpetua. C’è stata inoltre la sottovalutazione del complicato rapporto con la presunta cultura di origine di chi si sente un paria della repubblica e si considera prima discriminato e poi anche offeso. Ad ogni modo, se la sede del settimanale satirico fosse stata difesa di tutto punto dalle forze di polizia, giustizieri votati al martirio avrebbero organizzato un altro tipo di attentato. Come in metropolitana nel 1995, sebbene lì l’attentatore non si sia suicidato e sia in carcere. Dunque il problema della deterrenza – e della prevenzione o dell’intelligence, come si dice – si pone e si porrà ancora per un pezzo. Io però vorrei spezzare una lancia in ricordo dei quattro morti da ostaggi nel negozio e di cui poco si parla. Non so disegnare e non sono Charlie – l’ho appena detto –, ma avrei potuto essere uno di quei clienti, perché ho simpatia per gli ebrei e i loro prodotti.
Caro Rino,
se io invece sapessi disegnare chioserei i tuoi ultimi commenti con una vignetta intitolata “Critica del capitalismo”, in cui un intellettuale radical snobba la manifestazione, che guidica non abbastanza di sinistra, per fare acquisti al supermercato, e si dice “Je suis Shopi!”…
Per la cronaca, la manifestazione è stata molto bella e ha avuto l’effetto catartico che cercavamo. Ma in realtà non posso farne alcuna cronaca perché, in due ore e mezza, dal luogo di ritrovo del mio gruppo siamo avanzati solo duecento metri verso Place de la République: una cosa mai vista.
Continuiamo comunque a discuterne nei prossimi giorni
Caro Genovese, mi scusi se ho sorriso leggendo quello che mi ha scritto perché è proprio quanto penso io. La Ragione giudicante che ritiene l’ateismo il destino naturale degli uomini e dei cretini tutti coloro che si attardano nella fede, sbertucciandoli, è quanto critico anch’io. L’offesa gratuita della religione non è affatto illuminista, la ragione iluminista è umile e fallibile, non giudicante e accecata da se stessa.
La mia citazione di quella frase “Charlie Hebdo si è spinto troppo oltre ma la libertà di espressione non ha confini” l’ho trovata sulla bacheca Facebook di un’ex allieva, poi commentata da altri. Visto che sono ormai un insegnante impenitente, ho pedagogizzato pure lì e ho cercato di aiutare a ragionare sulla distinzione tra ambito giuridico (il diritto di parola, non censurabile se non in rari casi, cioè i reati) e i canoni estetici ed etici, cercando di far capire che i due giudizi possono essere tenuti distinti e che sarebbe bene non stabilire fra essi un nesso così stringente (e per certi versi imbarazzato, che cerca una giustificazione all’oltranza di certe vignette di fronte allo sproposito della reazione da esse suscitata: nessuna oltranza giustifica questo modo di tappare la bocca a chi si esprime. I limiti della satira sono un’altra questione).
Insomma, siamo d’accordo.
e anch’io sono d’accordo, con tutto quello che ha scritto Rino e con Daniele Lo Vetere.
Tutta questa retorica, l’arco di trionfo con la scritta gigantesca “je suis charlie”… Davvero, come devono essersi sentiti i franco algerini, gli uomini e le donne di religione islamica di Francia, tutti contro di loro? Da ex insegnante penso per esempio ai ragazzi franco algerini delle scuole e provo dolore. E ho compassione per tutti, tutti i morti.
mi correggo, la scritta sull’arco di trionfo era naturalmente “paris est charlie”. ma poco cambia.
Sulla questione della separazione tra piano del giudizio morale o estetico e piano giuridico riguardo alla libertà d’espressione:
che cosa ne pensate di questa notizia?
http://www.ilfattoquotidiano.it/2015/01/12/lega-nord-condannato-rainieri-pubblico-fotomontaggio-kyenge-come-orango/1334633/
Fermo restando che non conosco ogni vignetta pubblicata su Charlie relativa all’islam, come si traccia il confine tra libertà di parola e di critica a posizioni politiche e religiose e insulti che portano ad istigare all’odio basato su discriminazione razziale, politica o religiosa?
Io direi che ci sia un limite alla libertà d’espressione nel caso dei “crimini d’odio” ovvero quando non si è più nel campo delle opinioni argomentate ma nel campo delle azioni di istigazione a reati con l’aggravante di discriminare certe categorie… insomma se diciamo “Je sui Charlie” dobbiamo anche precisare cosa intendiamo dire, e se siamo favorevoli o no alla Legge Mancino e alle altre leggi contro diffamazione, ingiuria e simili…
Non invitare ufficialmente il Front National alla marcia repubblicana non è stato “un errore”, come dice Genovese, ma una trappola per Marine Le Pen (riuscita).
All’Eliseo, Hollande ha detto a Mme Le Pen “tutti possono venire”, ma si è rifiutato di riconoscerle il ruolo ufficiale che secondo logica politica democratica avrebbero dovuto avere il primo partito di Francia e i suoi dirigenti. Insomma: “Se volete, venite a titolo personale, la strada è di tutti. Se volete venire come forza politica, state a casa.”
In questo modo, gli unici esclusi dalla marcia oceanica sono stati i fondamentalisti islamici e il FN.
E’ un trucco di politique politicienne molto ben congegnato, che fornisce ai media un ottimo spin per mettere in imbarazzo Mme Le Pen con il sofisma: “Perchè non c’eri?”. Nel video che posto più sotto l’intervistatore, con una faccia di bronzo magistrale, esordisce così: “Marine Le Pen, non si vergogna? [di non aver partecipato alla marcia repubblicana]”
Al di là della tattica politica, la cosa è interessante per un altro motivo, più serio e profondo.
Gli attentatori non hanno preso di mira “la Francia” nelle sue istituzioni e nei suoi simboli. Se avessero voluto farlo, avrebbero attaccato, che so, Notre Dame, il Panthéon, una gendarmeria, etc.
Hanno invece attaccato “Charlie Hebdo”, cioè il simbolo di un nichilismo corrosivo che non è affatto nemico dell’Islam in particolare, ma ancor più del cristianesimo e delle istituzioni e dei simboli della Francia repubblicana, e dello stesso Front National. Ricordo che “Charlie Hebdo” ha organizzato una raccolta di firme per mettere fuori legge il FN, e che per ogni vignetta offensiva per l’lslam ne ha pubblicato cinquanta offensive per il cristianesimo.
A una formazione politica nazionalista come il FN non si può chiedere di dire “Je suis Charlie” senza chiedergli, implicitamente, di suicidarsi (naturalmente, tutti i giornalisti oggi non fanno che chiedere proprio questo, ai dirigenti FN).
Lo spin dato alla marcia repubblicana (che in effetti somigliava più a un concertone tipo Live Aid che a una marcia per l’union sacrée) non è stato “La Francia contro i suoi nemici” ma “tutte le forze europeiste e politically correct contro tutti i reazionari, fondamentalisti, nazionalisti [= islamisti + FN]”. Insomma, una riedizione degli “opposti estremismi”.
Il trucco, per quel che vale, ha funzionato. Poi, siccome oltre allo spin c’è anche la realtà, non basterà a risolvere le cose; ma intanto, PS e UMP hanno riguadagnato un po’ di terreno sul FN, unica cosa che gli interessava. Il resto può attendere.
http://www.frontnational.com/videos/marine-le-pen-sur-europe-1-25/