di Franco Buffoni
Lucky the poets of old; for half their work was done for them:
all would applaud when they named placet or herpes or gods.
Proper names are an-sich poetic, but now there is hardly
One that a poet will dare pen without adding a gloss.
Fortunati i poeti di un tempo: metà del loro lavoro era già fatto:
tutti plaudivano quando essi dicevano il nome di un luogo, di un dio, di un eroe.
I nomi propri sono in sé poetici; ma forse non ne è rimasto uno
Che oggi un poeta oserebbe citare senza dover aggiungere una nota.
In questa quartina di W. H. Auden appare ben sintetizzato il dramma di un poeta classico contemporaneo.
In ambito ermeneutico solitamente ci si riferisce al “classico” come a un atteggiamento che comporta l’assunzione di una distanza. Invece qui intendiamo menzionare il “classico” per riferirci allo “stile”, in particolare al Grande Stile, ossia quello stile che ha in sé una capacità superiore di comprensione e di resistenza. Una capacità non sempre immediatamente riconoscibile dai contemporanei, ma che nondimeno ha come suo presupposto una istanza di comunicazione, quindi il contrario di una distanza.
“Without adding a gloss”, diceva Auden.
…………………………… as if a sign
without a gloss were like a Seine
without its banks…
(“… come se un segno senza la glossa / fosse la Senna senza le sponde…”) leggiamo nell’ultima sezione – “To Stand in Silent Synagogue” – di The Savantasse of Montparnasse (Il sapientaccio di Montparnasse), il volume di versi di Allen Mandelbaum (scomparso la settimana scorsa a New York all’età di 85 anni) apparso nel 1987. (Bruce Weigl ha definito su “Choice” il Savantasse “one of the most original and most important poems written in English during the last 50 years”). E i versi raccontano le avventure intellettuali di un chierico parigino dedito alla esibizione vanitosa della propria erudizione. Uno, insomma, che di sole glosse viveva.
Come si difendeva Mandelbaum-poeta dal savantasse che era anche in lui, professor of humanities a Houston, Emerito di Comparate a Wake Forest, Direttore della Scuola di Dottorato alla City University di New York? Si difendeva con l’allegoria (“… and to the heart of Frau Perforce”), con quella particolare forma di musicalità che la rima au pair su terminologia mitologica (“…and vest when Boreas / and desolate Aporias…”) produce in un contesto ironico: il persiflage. Ed è per questo che nella sua poesia rimano “again” con “Seine” o “cul-de-sac” (pronunciato all’inglese) con “will not lack”. Ma tutto per una profondissima esigenza, una istanza di comunicazione attraverso la poesia. Nel caso di The Savantasse of Montparnasse, il messaggio di esaltazione dell’ambito speculativo della cultura, a dispetto di quello pedantesco e pedissequo. All’interno del massimo rigore formale. E così è stato in tutti i libri di poesia di Allen Mandelbaum, da Journeyman del 1967 a Leaves of Absence del ’76, da Chelmaxioms del 1978 al successivo A Lied of Letterpress del 1980. In particolare in Chelmaxioms il poeta racconta della città ideale, distrutta dalla bestialità umana e tenacemente ricostruita dall’umana perizia; e in A Lied of Letterpress narra del farsi della poesia, proprio del poiein, ma non soltanto di come avvenga il processo nella mente del poeta, bensì anche della sua crescita fisica sulla pagina, con i caratteri e gli inchiostri.
Eppure tutto questo non è che una parte, pur se fondamentale e cospicua, dell’attività di Mandelbaum, tesa alla costante riflessione sul rapporto tra il socius e l’individuo, la parola classica e l’innovazione tecnica.
A noi italiani raramente accade di pensare al mondo letterario mediterraneo – ebraico, greco, latino e italiano – come ad un’ideale globalità. Per Mandelbaum fu quanto di più naturale. Già giovanile traduttore di poeti italiani di lingua ebraica quali Refael da Faenza, Agnelo Dato, Immanuel Romano, i fratelli Frances, negli anni Cinquanta egli si volse con naturalezza all’apprendistato a Dante, a Virgilio, a Omero, a Ovidio. Da gloss a comment, da comment a interpret, da interpret a expound, da expound a translate.
Come da un’ideale cassaforte (Mandelbaum adorava Roberto Murolo) fuoriescono oggi gli impressionanti tomi della traduzione integrale dell’Eneide (con testo a fronte, California U.P., 1972), delle tre Cantiche della Commedia: l’Inferno nel 1980, il Purgatorio nell’82, il Paradiso nell’84 (dapprima presso California, poi con Bantam Books); e ancora l’Odissea integrale nel 1990, e nel ’93 Le Metamorfosi.
Per illustrare l’influenza che tali opere ebbero sul pubblico colto di lingua inglese, credo sia sufficiente ricordare la motivazione con cui venne conferito a Mandelbaum nel 1973 il National Book Award per la traduzione dell’Eneide: “Magistrale la prosodia di Mandelbaum al servizio di un verso inglese energico ed estremamente duttile, adatto al nostro tempo per l’implicita consapevolezza dell’impatto che Virgilio ebbe sulla storia della lingua e della poesia inglese”.
Il modo in cui il poeta riesce a penetrare nella fucina di Dante, di Virgilio e di Omero e a riforgiarne il verso nel novecentesco linguaggio poetico anglo-americano ha del “miracoloso”. Lo ha scritto un poeta tra i maggiori della generazione successiva a quella di Mandelbaum, Charles Simic, con specifico riferimento alla traduzione dell’Odissea: “A miracle. A lesson in the art of translation and a model (an encyclopedia) for poets. The full range and richness of American English is displayed as never before”.
Ma leggiamo almeno qualche verso dal IX Libro:
I am Odysseus, Laértës’ son.
Men know me for many stratagems.
My fame has reached the heavens. And my home
Is Ithaca, an island bright with sun.
Esempio più esplicito di ciò che teoricamente si intende per approccio intertestuale all’atto traduttivo non potrebbe darsi. L’Omero e il Dante di Mandelbaum sono diventati modello di linguaggio e palestra per chi scrive poesia in ambito nord-americano. Perché versioni come queste sono fatalmente destinate a lasciare l’impronta nella lingua letteraria, e quindi tout court nella civiltà culturale a cui sono volte. Mandelbaum non considera i classici come monumenti immobili nel tempo: marmorei testi di partenza ai quali contrapporre una moderna versione nella cosiddetta lingua d’arrivo. (E colgo l’occasione per proporre che le espressioni “lingua di partenza” e “lingua di arrivo” vengano definitivamente abolite dal lessico di ogni gentiluomo). Egli vede in un continuo fluire nel tempo Dante, Virgilio e Omero, e in quel costante movimento del linguaggio inserisce il proprio processo traduttivo.
Di veri e propri incontri “poietici”, con costruttive intersecazioni tra poetica del tradotto e poetica del traduttore, si può a pieno titolo ancora parlare per le versioni di Mandelbaum che hanno permesso al pubblico di lingua inglese di conoscere l’opera di Ungaretti (a partire da Vita di un uomo – Life of a Man – apparsa nel 1958 presso New Directions), di Quasimodo, di Montale, e ancora di Cardarelli, Giudici, Zanzotto. E sempre attentissimo Mandelbaum a rifuggire da quello che egli stesso in un memorabile saggio definisce il sublime “clandestino”. Esemplificandolo magari in una parola breve ma insidiosissima: “tutto”/”all”. E andandolo a scovare anche in autori grandissimi, da Montale (“perché tutta la vita e il suo travaglio”) a Wordsworth: “And all that mighty heart is lying still”.
Da un lato quindi – per Mandelbaum – il valore della memoria e della storia – consegnato alle generazioni future per permettere loro di riflettere su ciò che è stato; dall’altro i dettami di una ferrea disciplina etica e lavorativa, di una “regola” capace di insegnare come canalizzare l’energia creativa, perché il savantasse non oscuri con il dito la luna e il sapiente possa continuare a penetrare l’universo “nel ciel che più de la sua luce prende”.
Ad Allen Mandelbaum ero legato da profonda amicizia fin dal 1988, quando egli partecipò in qualità di guest-speaker al convegno “La traduzione del testo poetico” che organizzai presso l’Università di Bergamo, dove all’epoca ero professore associato. L’incontro con Allen fu determinante per le mie successive scelte di ricerca e accademiche, con la fondazione della rivista Testo a fronte, e Allen nel Comitato Direttivo sin dalla fondazione. E i suoi preziosi consigli che negli anni sono continuati a giungere, anche se ultimamente solo da Oltreoceano.
Emblematico di quei primi anni di vita della rivista fu l’invito che insieme a Emilio Mattioli ricevemmo da Gianfranco Folena a Monselice nel 1992 per presentare «Testo a fronte» e illustrarne i primi numeri. Siedevamo noi quattro dietro quell’imponente tavolo in una domenica mattina di primavera e io – lo ricordo bene – per qualche istante fui perfettamente felice. Folena, al termine delle relazioni, ci confessò: “Ormai resisto solo cogli analgesici”. E fu il primo ad abbandonare la partita. Seguito da Mattioli. E ora da Mandelbaum.
Potete dunque immaginare la mia commozione, oggi. Ricordo che, quando nel 2003, a Santo Stefano Belbo, mi venne attribuito il Premio Cesare Pavese per il volume Del maestro in bottega, il pensiero che in quelle stanze, con quelle stesse persone, due anni prima lo stesso Allen era stato, mi accompagnò per tutta la giornata. Quella era stata la sua ultima volta in Italia. Poi il cuore non gli permise più di varcare l’oceano in aereo.
E proprio con un testo poetico di Allen che porta un’epigrafe da Cesare Pavese, desidero concludere questo mio ricordo.
SLOWLY
“Nail Drives Out Nail, but Four Nails Make a Cross”
Cesare Pavese
Slowly,
he amassed
his poverty:
of faith and hope, of courage and
of caritas,
wrote I.
O. U.’s to
everyone;
of his own
substantial
capital,
uncertain:
where it
lay hid,
or whether
it existed
LENTAMENTE
“Chiodo schiaccia chiodo, ma quattro chiodi fanno una croce”
Cesare Pavese
Lentamente
Accumulò
La sua povertà
Di fede speranza coraggio e carità,
Firmando
A tutti
Cambiali
E pagherò.
Del suo
Sostanzioso
Capitale,
Incerto:
Dove stesse
Nascosto
O tanto meno
Se esistesse.
IRMA BRANDEIS RECENSISCE MANDELBAUM (da daniele ventre)
Pubblicato 4 novembre 2011 alle 16:09 | Permalink | Modifica
Le traduzioni di Mandelbaum hanno davvero lasciato il segno. Ricordo una recensione di Irma Brandeis sul suo Dante:
http://www.nybooks.com/articles/archives/1985/feb/14/shall-we-dante/
Grazie, caro Franco, per questo bellissimo omaggio al Babbo. Keep in touch…
Caro Jonathan, ricordo la nostra cena a Roma con Danilo. Ti mando un grandissimo abbraccio. Franco