di Raffaele Alberto Ventura
[Di ritorno dalla gigantesca processione parigina per le vittime degli attentati di questa settimana, provo a dire alcune cose che mi sembrano importanti: per il futuro, poiché il passato non si può cambiare]
«Avete voluto uccidere Charlie ma lo avete reso immortale»: eccolo qua, riassunto in uno slogan di piazza, il capolavoro dei fratelli Kouachi. Hanno preso di mira un giornale che si stava spegnendo nell’indifferenza generale e lo hanno resuscitato a colpi di kalashnikov. Adesso le folle si precipitano in edicola per acquistare Charlie Hebdo, il governo annuncia finanziamenti milionari e le caricature del Profeta vengono pubblicate ovunque. Ma chi crede che questo rinculo costituisca una sconfitta per il terrorismo evidentemente conosce male il terrorismo, la sua storia, i suoi meccanismi. Il terrorismo è una strategia di mobilitazione delle masse: provocare la ritorsione fa parte della sua ragione d’essere. Spingendoci ad abbracciare l’ambigua battaglia di Charlie Hebdo ovvero a fare della blasfemia una bandiera della libertà d’espressione, i fratelli Kouachi hanno scaraventato l’Occidente in una trappola insidiosa. La storia delle guerre civili europee del Sedicesimo secolo avrebbe dovuto insegnarci qualcosa sui modi più ragionevoli di armeggiare con le divinità degli altri. Per questo non possiamo salire sul carro dei vignettisti-martiri. Per questo non possiamo dare il nostro sostegno a chi vuole rendere «immortale» Charlie e le sue provocazioni. E per questo cercheremo di spiegare a chi lo ha pervertito il senso di un concetto fondamentale per la sopravvivenza di questa nostra malandata società multiculturale: si chiama laicità.
Sotto nessun aspetto quello che è successo a Parigi può essere considerato come un «atto di guerra» come sostengono alcuni apprendisti stregoni, perché sfugge a qualsiasi logica militare. La sua logica è un’altra ed è appunto quella tipica del terrorismo: si tratta di un atto di violenza il cui obiettivo non è tanto di fare un danno all’avversario quanto di provocare una rappresaglia. In Francia ci sono oggi, secondo gli analisti, diverse centinaia di potenziali jihadisti, forse 2000: se costoro vogliono sperare di fare una guerra devono necessariamente sperare nella radicalizzazione di un numero ben più importante di musulmani. I terroristi devono dunque catalizzare su costoro la violenza dell’avversario. Devono alimentare l’odio inducendo la Francia a entrare in conflitto con la popolazione musulmana; e di rappresaglia in ritorsione, riusciranno forse a convertire una parte pacifica della popolazione in soldati per la loro guerra. Le provocazioni simboliche e gli «atti linguistici» non sono inoffensivi in questo meccanismo di escalation.
Le cosiddette avanguardie partigiane sono, scriveva Mao, «dei pesci nell’acqua»: ovvero sono circondati da una popolazione più o meno connivente. È ovvio ed evidente che la maggior parte dei musulmani francesi non prova nessuna simpatia per l’operazione dei fratelli Kouachi, ma è ragionevole credere che i terroristi godano di qualche supporto negli ambienti salafisti radicali. Lo Stato francese ha oggi il compito difficile di smantellare una rete terroristica presente sul suo territorio senza tuttavia fare il gioco dei terroristi. Come scriveva David Galula nel suo testo classico del 1964, Contre-Insurrection: Théorie et pratique, basta una mobilitazione iniziale di poche centinaia di persone (300-400 ai tempi dell’Algeria) per inaugurare una spirale di violenza che può sfociare nella guerra totale: è quindi fondamentale neutralizzare queste avanguardie senza farsi strumento della loro volontà di contagiare il resto della popolazione.
Le strategie insurrezionali di mobilitazione hanno già dimostrato, in passato, la loro efficacia. Recuperando la lezione di Mao, Osama Bin Laden ha insistito sul ruolo del terrorismo nel manifestare la violenza dell’avversario: non nel causare, non nel produrre, bensì nel mostrare una violenza latente che l’avversario teneva nascosta ma che gli appartiene intrinsecamente. È proprio dovendo svelare il suo lato più mostruoso che l’avversario mostra la sua debolezza e subisce un danno politico, finendo per ingrossare le file dei terroristi. Se la guerra, secondo la definizione di Clausewitz, è «un atto di forza per costringere l’avversario a compiere la nostra volontà», il terrorismo è molto più insidioso, perché costringe l’avversario a compiere la sua stessa volontà. Nelle sue Raccomandazioni Tattiche del 2002 Bin Laden scriveva:
La più grande conseguenza positiva degli attacchi di New York e Washington è stata di avere dimostrato la realtà del combattimento tra i crociati e i musulmani, di avere rivelato l’ampiezza del rancore che i crociati serbano verso di noi. Gli attacchi hanno tolto la pelle di pecora di cui si ammantava il lupo ed è apparso il suo vero volto. Tutto il mondo s’è svegliato, i musulmani hanno preso coscienza dell’importanza della dottrina dell’alleanza con Dio.
Costretto ad esercitare un potere sempre più insostenibile, l’avversario perde progressivamente la propria legittimità. Perché la legittimità è fondata sulla giustizia che il soggetto politico è in grado di esercitare e di garantire, e il terrorismo rende impossibile l’esercizio della giustizia. Il terrorismo — lo abbiamo visto dopo il 2001, con la reazione degli Stati Uniti e la contro-reazione dell’opinione pubblica mondiale — serve a rendere ingiusta la vittima. D’altra parte l’avversario non può non reagire all’attacco terroristico, perché da un punto di vista strettamente materiale ha subito un danno (economico, umano, morale) che deve restituire se non vuole essere, a lungo termine, annientato. Per fare un esempio molto concreto, citeremo la situazione degli ebrei in Francia, che i fondamentalisti musulmani considerano un bersaglio legittimo e che lo Stato francese non può certo abbandonare al loro destino, come invece profetizza Houellebecq nel suo romanzo Soumission. Ma come proteggerli, come proteggerci? La strategia terroristica limita le possibilità dell’avversario entro un doppio vincolo, che lo costringe a fare ciò che il terrorista vuole da lui: reagire. Oppure ciò che il terrorista vuole da lui: subire. Si sente spesso usare come argomento che facendo oppure non facendo una certa cosa «vincono loro»: e invece, a quanto pare, loro vincono in ogni caso. Il terrorismo, dicevamo sopra, è una trappola.
L’ovvia conseguenza della rappresaglia è l’ingrossamento delle file dei terroristi, il passaggio dalla parentela alla connivenza all’appoggio alla mobilitazione totale. Per ogni vittima c’è una famiglia che piange e maledice. La conseguenza positiva degli attacchi del 2001, scriveva Bin Laden, è di avere rinforzato la fraternità tra i musulmani, di avere svegliato il mondo. Così, proprio come la mitica Idra, per ogni testa mozzata se ne guadagnano di nuove. Perché allora si dovrebbe temere la spada dell’avversario? La strategia terrorista non è altro che un sacrificio umano su vasta scala, un olocausto propiziatorio. Il martire non testimonia soltanto della fede nella propria causa, ma soprattutto testimonia della violenza che subisce. Catalizzandola su di sé, nella forma della rappresaglia, la rende riconoscibile. Il martirio è la traccia scavata dell’avversario, la testimonianza della sua atrocità impressa nella carne e nel sangue di chi l’ha scatenata. Nello stesso tempo, è l’avversario a specchiarsi nella vittima, e così nutrire il proprio senso di colpa, minare il proprio morale e demobilitare il proprio esercito.
Confrontati alla minaccia del terrorismo — e più ancora alla minaccia della paranoia globale, che sfocia nella rappresaglia preventiva come sistema di governance mondiale — il vero sforzo cui siamo chiamati è il contenimento del male oscuro che il terrorismo è qui per scatenare: la nostra volontà, il nostro vero volto.
La società francese ha già iniziato le sue rappresaglie con atti d’intimidazione rivolti ai luoghi di culto musulmani. Ma c’è un altro genere di rappresaglia, che a molti sembrerà veniale, eppure può avere conseguenze piuttosto serie: si tratta della banalizzazione della blasfemia — o persino la sua istituzionalizzazione visto che lo Stato francese ha deciso di finanziare Charlie Hebdo perché continui a vivere — anzi addirittura la sua sacralizzazione, visto che a quanto pare senza questa libertà la République perderebbe un suo principio fondamentale e non negoziabile. Una risolutezza davvero sorprendente, visto che la Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo e del Cittadino del 1789 si esprimeva chiaramente sulla questione in tutt’altro senso. Chiaramente, s’intende, per chi dispone di una soglia di attenzione superiore alle dieci parole:
Art. 10. — Nessuno deve essere molestato per le sue opinioni, anche religiose, purché la manifestazione di esse non turbi l’ordine pubblico stabilito dalla Legge.
Che l’ordine pubblico sia stato turbato è fuori di dubbio: e questo più volte fin dal 2006, data della pubblicazione delle prime caricature di Maometto, fino al tragico episodio del 7 gennaio 2015. Da molti anni la libertà d’espressione di Charlie Hebdo non era più una questione di diritti astratti, ma di puro e semplice enforcement. Se ci sono persone disposte a morire per uccidere qualcuno perché ha insultato il Profeta, allora di tutta evidenza sono oggettivamente venute a mancare le condizioni di questa libertà. Se lo Stato francese non ha il controllo del proprio territorio, è inutile che pretenda che esista un certo diritto. Se la soluzione proposta è militarizzare la società, riempire le strade di poliziotti e proteggere ogni persona con una guardia del corpo, forse stiamo sbagliando qualcosa.
Molte delle vignette di sostegno realizzate in seguito all’attentato giocano, in maniera non sempre originalissima, sull’analogia tra armi e matite, tra violenza e satira. Esprimono un messaggio in qualche modo contraddittorio: da una parte segnalano la sproporzione tra l’atto di disegnare e l’atto di uccidere, e dall’altra suggeriscono l’idea che l’arte sia più forte del terrorismo (perché influisce sulle coscienze e trasforma la realtà). Insomma il disegno sarebbe contemporaneamente inoffensivo e offensivo. E quindi, dal punto di vista del terrorista, bersaglio illegittimo e bersaglio legittimo. Di sicuro non si può negare che i disegni di Charlie — e le bestemmie in generale — siano «atti linguistici» ovvero segni che producono effetti reali e concreti sulla realtà, vere e proprie azioni sotto forma di disegno. Charlie Hebdo viveva fortemente quest’ambiguità, questo essere a metà strada tra «stiamo soltanto facendo dei disegnini scemi» (come ha dichiarato il disegnatore Luz dopo l’attentato) e «stiamo combattendo una guerra santa in nome dei valori dell’illuminismo» (come sembrava credere il direttore Charb).
Al lettore italiano bisogna fornire un poco di contesto: che cos’è Charlie Hebdo o meglio cos’era? Proviamo a raccontarlo brevemente, senza peli sulla lingua, come avremmo potuto farlo prima del terrificante massacro costato la vita a otto membri della sua redazione e altre quattro persone, tra le quali una guardia del corpo e un agente di polizia. Un massacro che, come spesso accade, ha finito per alterare la percezione della realtà e diffuso una ricostruzione mitologica dei fatti.
Charlie Hebdo è il giornale simbolo della stagione libertaria degli anni Settanta: in un certo senso una reliquia. Fallito una prima volta nel 1981 e rifondato nel 1992, il settimanale continuava a essere pubblicato malgrado la fuga di lettori e le conseguenti difficoltà finanziarie. Nel corso degli anni Duemila la nuova leva dei Philippe Val e dei Charb aveva individuato nell’Islam un bersaglio privilegiato, recensendo positivamente La rabbia e l’orgoglio di Oriana Fallaci e avvicinandosi al pensiero degli intellettuali neo-conservative americani. Processato e assolto per incitazione all’odio religioso per via della pubblicazione delle prime caricature di Maometto nel 2006, il direttore Val ha promosso un manifesto «contro l’oscurantismo islamista», firmato tra gli altri da Bernard-Henry Lévy e Ayaan Hirsi Ali, che equiparava a dei terroristi i musulmani che protestavano contro le vignette. Sebbene ancora considerato di sinistra, nel 2009 Val è stato nominato dal presidente Sarkozy alla testa della radio pubblica France Inter e lì si è distinto per una gestione considerata dai più come pesantemente filogovernativa. Insomma chi rimprovera alla destra italiana di «recuperare» Charlie dovrebbe chiedersi se egli stesso non stia «recuperando» qualcosa di cui, di tutta evidenza, non conosce granché…
In nome della libertà d’espressione, Charlie Hebdo ha pubblicato decine di caricature blasfeme e una versione a fumetti della vita di Maometto, calcando tanto più la mano quanto aumentavano le proteste, le minacce, le aggressioni, gli attentati e i morti nelle manifestazioni in tutto il mondo islamico. Per un giornale in difficoltà economiche, era anche un modo di cercare un’esposizione mediatica necessaria alla sopravvivenza. Nel 2012 il deputato Daniel Cohn-Bendit, storica figura del maggio francese, ebbe a definire i redattori di Charlie «coglioni e masochisti» per via della loro ostinazione. Questa ostinazione si è trasformata negli anni in una vera e propria vocazione al martirio, come testimoniavano le dichiarazioni del nuovo direttore Charb, un «monaco-soldato» come lo ha definito la compagna Jeannette Bougrab, ex-segretario di stato sotto Sarkozy.
Sicuramente sbaglia sotto vari aspetti chi afferma che i giornalisti «se la sono cercata», dando un giudizio morale che rischia di giustificare ex post l’azione dei terroristi. Anche Gesù Cristo «se l’è cercata»; qualunque persona che muoia in battaglia, invece di starsene tranquillamente a casa, «se l’è cercata». È un modo scorretto di porre la questione. C’è molto eroismo nel comportamento di Charb, ma questo non significa che dobbiamo condividere la sua battaglia. Un martirio non dovrebbe rendere giusta la propria causa per virtù retroattiva: se crediamo che le idee di Charlie fossero sbagliate e i loro «atti linguistici» pericolosi, se lo abbiamo detto e ripetuto più volte negli anni scorsi, dobbiamo continuare a dirlo. Se crediamo che una censura preventiva avrebbe potuto salvare delle vite, come spesso ha fatto la censura ai tempi delle guerre di religione europee, dobbiamo continuare a dirlo. E così facendo non diremmo qualcosa di «oscurantista» ma, al contrario, qualcosa di totalmente coerente con i principi della civiltà giuridica occidentale. Primo, perché la Legge non serve a punire i colpevoli sulla basi di un giudizio morale, tutt’altro: serve a proteggerli. Come il marchio di Caino, deve impedire le ritorsioni e arrestare il ciclo della violenza. Secondo, perché la laicità non è quella cosa che pretendono alcuni.
Laicità non è il diritto universale di provocare un altro per via della sua religione, ma precisamente il contrario ovvero il dovere di non provocare un altro per via della sua religione. Per come è stata sviluppata all’epoca delle guerre di religione, la laicità è un dispositivo utile a disinnescare i conflitti sociali. Si tratta di estromettere la religione dallo spazio pubblico, e questo include anche un tipo di presenza della religione particolarmente insidioso: la bestemmia. Se in molti ordinamenti la bestemmia è punita severamente è perché le sue conseguenze sono serie e incalcolabili. In simili situazioni, ostinarsi a difenderla «per principio» — senza valutare le conseguenze — è puro e semplice fondamentalismo.
Quando poi si tratta di un fondamentalismo «a targhe alterne», che si concede la libertà soltanto su certe cose, allora finisce per non essere altro che il segno della dominazione di una maggioranza atea o secolarizzata su una minoranza di credenti. In quell’atto linguistico, per una sorta di convenzione linguistica, questi credenti non leggono soltanto un’offesa a Dio ma un’offesa alla loro identità. Qualcuno si stupisce e s’indigna di tanta ingenuità. Eppure le bestemmie sono convenzioni e atti linguistici proprio come come quei propositi che i tribunali sanzionano e quelle sentenze che i tribunali emettono. In un mondo sociale tenuto in piedi dalla «documentalità» come direbbe Maurizio Ferraris, sono fatti non meno reali degli altri.
Oggi si pretende dai musulmani non soltanto di «dissociarsi» da un atto terroristico del quale non hanno nessuna responsabilità, ma inoltre di proclamare «Io sono Charlie» e di rinunciare a ogni rivendicazione in materia di regolamentazione degli atti linguistici. Addirittura si colpevolizzano tutti coloro che sono scesi in piazza contro le caricature nel 2006, come se fossero stati loro ad armare la mano dei fratelli Kouachi. Eppure queste rivendicazioni e queste manifestazioni restano legittime. La posta in gioco non è spirituale ma del tutto terrena e politica: i musulmani vedono nella disomogeneità della libertà d’espressione una misura della loro marginalizzazione. Se la Francia sceglierà di ostinarsi nel considerare accettabile la bestemmia, contribuirà a indebolire le posizioni dei musulmani moderati. Esibendo l’incompatibilità tra Islam e République, mostrando il suo «vero volto di lupo», farà il gioco della strategia di mobilitazione terroristica. È accettabile che si pretenda dalla comunità musulmana di proclamare «Io sono Charlie» per manifestare l’orrore di fronte al massacro della redazione di Charlie Hebdo, ma non è pensabile costringerli a promuovere e finanziare (con le loro tasse) un giornale che li ha eletti a bersaglio ideologico. Una umma sottomessa e umiliata è nuova acqua per fare nuotare i pesci dell’estremismo.
Quello che viene chiamato «ateismo» è oggi un’ideologia tra le tante che si affrontano nello spazio pubblico, e in quanto tale non può servire da koiné condivisa. La sola koiné adatta per una società multiculturale è quel sistema di meta-regole che abbiamo chiamato laicità, la cui sostanza stava già tutta nel secondo comandamento dato a Mosé: Non nominare il nome di Dio invano. Non nominare il tuo Dio, se ce l’hai, e soprattutto non nominare quello degli altri. A senso unico non funzionerà mai.
Nel fuoco delle guerre di religione, la modernità politica era sorta ponendosi proprio questi problemi*. Quello che succede oggi con la satira succedeva allora con gli spettacoli. Il caso inglese è piuttosto interessante, perché in pochi decenni la necessità di regolare gli atti linguistici dà forma al teatro moderno, come luogo e come insieme di dispositivi che servono al controllo della parola pubblica. Prima della Riforma, in Inghilterra tutte le attività drammatiche erano eventi occasionali, che cadevano sotto la responsabilità di chi li aveva commissionati: re, nobili, città, chiesa… È solo con Enrico VIII che gli spettacoli diventano una preoccupazione del monarca, eppure dai numerosi documenti amministrativi prodotti sulla questione si capisce che il problema non è politico ma sociale, di ordine pubblico (spesso assimilato al vagabondaggio o alla prostituzione).
La legge fa cambiare gli spazi, i tempi, i temi, il rapporto con il testo scritto… All’intervento regolatore di Enrico VIII dobbiamo la morte del più popolare dei generi teatrali dell’epoca, il mistero, e la nascita del dramma moderno di cui presto Shakespeare sarà il più illustre rappresentante. Ma tutto nasceva dall’urgenza d’impedire quello che oggi chiameremmo turbamento dell’ordine pubblico: nel 1541, tre attori erano stati bruciati dalla folla a Salisbury per avere messo in scena una farsetta giudicata eretica in cui dei preti venivano sbeffeggiati. Forse ci ricorda qualcosa? Nel 1543 la rappresentazione di un mistero causa una sedizione, ed è lì che il Re decide di proibire ogni spettacolo che abbia a che fare con l’interpretazione delle Scritture. Negli anni seguenti si continuerà a legiferare e perseguire le infrazioni, finché non viene istituito un sistema centralizzato di emissione di licenze, presieduto dal cosiddetto Master of Revels, il grande censore di corte. Poiché ci restano i documenti e ne abbiamo pure letto qualcuno, sappiamo anche quale fosse il principale oggetto della censura: le bestemmie.
Era, questa, una concezione della libertà d’espressione figlia di una società lacerata. Abbiamo potuto abbandonarla via via che ne scomparivano le cause. La secolarizzazione del cristianesimo aveva poco a poco cancellato ogni rischio di «turbamento dell’ordine pubblico» legato alla blasfemia, e così la giurisprudenza ha totalmente eroso la legislazione in materia. Ma se i paesi ricchi credevano di poter far affluire sul loro territorio milioni di stranieri a cui affibbiare le peggiori mansioni e contemporaneamente conservare intatto un ordinamento giuridico pensato per un diverso tipo di società, evidentemente hanno fatto male i loro conti di bottega. Forse hanno fatto eccessivo affidamento sulle capacità dei loro sistemi educativi di assimilare in maniera indolore i loro nuovi cittadini.
Oggi le società occidentali sono costrette a rispolverare i libri di Storia per trovare soluzioni nuove ad antichi problemi che tornano all’ordine del giorno. Di fronte a un’aggressione terroristica che la spinge a ostinarsi nella difesa di quelli che crede essere i suoi principi, la Francia non deve fare l’errore di cedere alla propria volontà. Perché è la stessa dei suoi nemici.
11 gennaio 2015
*Per ulteriori esempi rimando al mio ebook Forza d’Arte: dal secolo delle guerre di religione al tempo dei conflitti irregolari
[Immagine: François Dubois, Il massacro di San Bartolomeo (particolare)].
I miei complimenti all’Autore per questo intelligente articolo. Lo commento con alcune osservazioni e obiezioni.
1) Il “terrorismo” è un metodo di azione politico-militare al quale fanno abitualmente ricorso, anzitutto, gli Stati. I bombardamenti indiscriminati sui civili, per esempio, sono atti terroristici che si propongono di abbattere il morale della popolazione, mostrandole che il suo governo non è in grado di proteggerli, e dunque viene meno al suo compito principale di garantirne la sicurezza. Nella II guerra mondiale, le potenze alleate denominavano con franchezza le campagne di bombardamento aereo sulla Germania e l’Italia “terror bombings”.
2) Non è esatto che “sotto nessun aspetto quello che è successo a Parigi” possa “essere considerato come un «atto di guerra» … perché sfugge a qualsiasi logica militare.” Il maggiore e più innovativo teorico militare contemporaneo, il Colonnello dell’Aviazione USA John Boyd, dice che i livelli della guerra sono tre. In ordine d’importanza: morale, mentale e fisico. Come d’altronde Ventura correttamente scrive più avanti, il conflitto per la legittimità (per disgregare la legittimità del nemico, per rinsaldare la propria) è una dimensione fondamentale e decisiva della strategia. Per un riassunto dell’opera di Boyd, si veda qui: https://americawar.wordpress.com/thinkers/john-r-boyd/the-essential-boyd/
3) L’identificazione tra Europa-Occidente e Charlie Hebdo proposta dallo slogan “Je suis Charlie” implica
a) l’identificazione tra Europa-Occidente e la dissacrazione nichilista di *tutto* ciò che è dissacrabile, tranne quanto venga esplicitamente protetto dal diritto positivo.
b) la “sacralizzazione ufficiale teologico-politica della dissacrazione*
c) l’esclusione dal recinto ufficiale di Europa-Occidente di chiunque ritenga sacro qualcosa che non venga esplicitamente protetto dal diritto positivo (tutte le religioni, anzitutto la cristiana, ma anche tutte le metafisiche filosofiche non nichiliste e relativiste, tutti i costumi tradizionali europei, etc.)
4) da quanto detto al punto precedente, consegue una dinamica paradossale, questa. Che l’ Europa-Occidente chiede ai suoi cittadini *di essere leali al nichilismo*, cioè di essere leali alla decostruzione, alla derisione, alla distruzione di tutti i fondamenti: religiosi, ideali, etici, filosofici, etc. Ma la decostruzione, derisione, distruzione dei fondamenti decostruisce, deride, distrugge in primo luogo proprio la lealtà.
5) Lo slogan “Je suis Charlie”, che nasce come un banale spin mediatico-politico volto anzitutto a marginalizzare e mettere in imbarazzo il Front National (“Charlie Hebdo” ha organizzato una raccolta di firme per metterlo fuori legge, come fa il FN a identificarvisi in buona fede?) diventa *un atto di guerra inconsapevole* nei riguardi di tutto l’Islam. Dico “inconsapevole”, perchè dubito che i milioni di manifestanti della marcia repubblicana si siano resi conto che inalberare volgarità sentimentali come “l’amore è più forte dell’odio” + bacio omosessuale tra un arabo e un francese equivale a fare campagna di reclutamento per i salafiti. Quanto ai dirigenti, non so fino a che punto se ne rendano conto.
6) Dalle guerre di religione l’Europa è uscita con il trattato di Westfalia. La disgregazione delle sovranità nazionali e statali pone termine all’Europa westfaliana. Il nome di questa disgregazione, in Europa, è Unione Europea. L’Unione Europea, che non può trasformarsi in uno Stato sovrano perchè militarmente occupata da una potenza straniera e perchè non esiste un popolo europeo, da oggi basa ufficialmente la propria legittimità teologico-politica sulla dissoluzione (degli Stati nazione, dei popoli europei) e la dissacrazione (delle religioni, delle identità nazionali). Se quanto ho appena scritto si avvicina alla realtà, si tratta di un evento storico affatto nuovo. Vivremo tempi interessanti.
*Laicità non è il diritto universale di provocare un altro per via della sua religione, ma precisamente il contrario ovvero il dovere di non provocare un altro per via della sua religione.
Ammettendo che sia così, resta la difficoltà di vagliare le conseguenze se lasciamo che a stabilire cosa sia “provocazione” sia colui che si sente “provocato”.
Per via della loro religione, gli islamici di Gronland (Oslo) si sentono legittimamente “provocati” dal transito di donne non velate, così come gli islamici d’Inghilterra si sentono probabilmente “provocati” dalla pretesa di essere giudicati da tribunali civili.
Ridurre il problema solo ai suoi aspetti più esasperati da una parte e dall’altra (blasfemia/terrorismo) mi pare francamente un modo di minimizzarne la portata.
E infatti, molto banalmente, io non credo che a portare in piazza i milioni sia stata l’adesione allo stile dissacrante/nichilista di Charlie Hebdo, ma la consapevolezza che -qui e adesso, e molto molto concretamente- lasciare agli islamici d’Europa la definizione di ciò che è “provocante” produrrà, come sta già producendo, conseguenze incalcolabili.
Esiste una libertà di espressione ma anche una libetà di usare il cervello. Parafrasando lo slogan, IO NON SONO CHARLIE, provo disgusto per la sua opera e ancor più disgusto per chi compie atti folli, prendo le distanze da entrambe le parti (molto più da chi uccide).
Appigliandosi a una vecchia visione basata sui residui nazionalismi, anche su quello francese che fa appello alla “repubblica” talvolta con tracotanza, non se ne esce. Sono necessari il dialogo a trecentosessanta gradi e un processo di integrazione europea – una federazione di Stati o una confederazione – con un’unica politica estera, una sola politica fiscale, etc., e con una sua posizione sulla laicità – proprio quella richiamata da Ventura in questo bel saggio – che non può non tener conto di una sensibilità alla “bestemmia” che ha già fatto troppe vittime nel mondo. Vale più una vignetta, espressione di libertà, o una vita umana?
Articolo molto interessante per molti spunti di analisi, ma la tesi centrale mi sembra poco difendibile.
Anzitutto, mi piacerebbe sapere quali sono gli ordinamenti liberaldemocratici in cui “la bestemmia è punita severamente”.
Poi, su queste faccende bisognerebbe distinguere una volta per tutte tra ciò che viene imposto per legge e ciò che viene fatto per adesione culturale. Per legge non si può imporre di proibire la bestemmia e l’insulto alle religione, perché allora qualsiasi persona che si ritiene offesa da una critica in una propria credenza può legittimamente reclamare la repressione di quella critica. Questo impedisce la tolleranza e il pluralismo. Si può anche scegliere un regime politico di questo genere, ma non è liberaldemocratico, e vorrei sapere quanti lo accetterebbero.
Sulla base di questo, lo stato non dovrebbe schierarsi, come adesione culturale, dalla parte di chi critica ferocemente la religione, né ovviamente da parte delle coscienze religiose. Ma, si dice, con la grande manifestazione lo stato e i cittadini francesi hanno fatto questo. Io non credo. In parte, forse, la Francia tende a identificare troppo fortemente la sua tradizione repubblicana (che è un’identità storica molto forte) con la laicità in generale. Però la manifestazione è una giustissima espressione del rifiuto di una violenza che vuole comprimere gli spazi di libertà e imporre il dominio in nome della religione. Assumere lo slogan “Je suis Charlie” non vuol dire, in questo contesto, fare propria la critica dissacrante di Charlie Hebdo, ma METTERSI DALLA PARTE DELLE VITTIME e lottare contro la violenza politica e il fanatismo, molto semplicemente.
Il governo francese che finanzierà Cherlie Hebdo!!! Questo significherà amplificare l’umiliazione, rafforzare il sentimento del rifiuto e il desiderio della rivalsa, inaccettabile, basterebbe il semplice buon senso per evitare una scelta del genere. Ringrazio Ventura per aver prima di tutto informato i lettori sulla storia del giornale. Una persona, anche senza alcun dio (è il mio caso personale), che possieda un sentimento religioso la “sente” al volo la bruttezza e la sconvenienza di quelle vignette. Fermo restando che è evidente la sproporzione tra l’insulto, l’offesa bruciante e l’uccisione. E radicale la condanna della violenza. Ma se non vogliamo che l’incendio si allarghi dobbiamo cominciare dal rispetto dell'”altro”. E invece ecco i soliti eroi (o i soliti furbi) che si affrettano a pubblicare le vignette anche qui da noi. Non comprerò oggi “Il fatto quotidiano” che le pubblica.
@ mauro,
mi sembra che ci sia una differenza tra l’esprimere una opinione come descrivere certi aspetti di credenze religiose come assurdi e degni di essere derisi e l’esprimere a parole giudizi sulle persone aderenti a quelle credenze e ritenere queste persone come non degne di rispetto solo perché hanno quelle idee religiose. In quell’ultimo caso si dovrebbe parlare di ingiuria e di istigazione alla discriminazione, che sono reati in molti ordinamenti come il nostro. Non so se il giornale Charlie sia stato attento a distinguere tra questi due aspetti, che certo a volte è difficile tenere distinti ma è doveroso farlo.
Ciao.
“La società francese ha già iniziato le sue rappresaglie con atti d’intimidazione rivolti ai luoghi di culto musulmani”.
La formulazione mi sembra molto infelice: a fronte di milioni di persone che hanno manifestato senza pronunciare alcuno slogan né compiere alcun anti-islamico, ci sono stati, in altre circostanze, pochi atti isolati di intimidazione contro i luoghi di culto. Sarebbe come dire che con gli attacchi della settimana scorsa la comunità musulmana ha dichiarato guerra alla società francese.
“Quando poi si tratta di un fondamentalismo «a targhe alterne», che si concede la libertà soltanto su certe cose, allora finisce per non essere altro che il segno della dominazione di una maggioranza atea o secolarizzata su una minoranza di credenti”.
Non è il caso di Charlie Hebdo: numerose, e spesso molto più violente, sono state le caricature di Charlie Hebdo aventi per oggetto la religione cristiana o ebraica, così come partiti politici, correnti di opinione e personaggi pubblici.
Per il resto, sono d’accordo con Michela. La vera questione, a mio modo vedere, è: in uno Stato laico, spetta alle singole religioni stabilire normativamente cosa è offensivo per esse? Se così fosse, probabilmente non ci sarebbe più nessuna libertà di espressione.
Per quanto riguarda il caso specifico delle caricature su Maometto, chiunque abbia seguito un minimo la vicenda sa che i rappresentanti delle comunità religiose musulmane mettono in discussione non solo, e a volte non tanto, il contenuto delle vignette, quanto il fatto stesso di rappresentare il “Profeta”, atto apparentemente proibito secondo la tradizione islamica. Un docu-fiction sulla vita di Maometto o una mostra sulle rappresentazioni che del personaggio sono state date nella pittura del Rinascimento subirebbero lo stesso tipo di critiche. Ciò che è in ballo è il diritto di difendere, in uno Stato laico, la libertà dei cittadini di non rispettare interdizioni che non li riguardano.
errata:
“né compiere alcun atto anti-islamico”
Filippo hai ragione, la formulazione di quella frase è piuttosto infelice. Ma l’importante è che ci siamo capiti.
Invece a Buffagni vorrei dire che anche il termine “terrorismo”, come tutti gli altri, ha un senso specifico e non può essere deformato a scopi retorici, perché quello sui cui cercavo di attirare l’attenzione è la differenza tra strategie militari, strategie insurrezionali e strategie contro-insurrezionali. Se mescoliamo tutti non si capisce più niente.
Magari dopo riesco a rispondere anche agli altri commenti.
Caro Ventura,
guardi che io non deformo niente a scopi retorici. Il senso che lei dà al termine “terrorismo” è quello corrente in televisione e nei giornali, e quello sì che deforma a scopi retorici e politici: il terrorista di A è il partigiano di B, e viceversa.
Il terrorismo è un metodo, un modo di condurre la guerra (tra Stati, tra Stati e entità non statuali, etc.) e non una categoria a sè.
mah, mi pare che si salti a piè pari la concezione di laicità dello stato costituitasi a partire da quell’insignificante evento storico (specialmente per la Francia) che fu la rivoluzione francese. Il liberalismo ottocentesco partorito dalla rivoluzione fu anticlericale sino al midollo, e la sua laicità dello stato fu concepita in funzione essenzialmente anticlericale. La presa del potere della classe borghese passò attraverso un processo di dissoluzione delle vecchie strutture di legittimità, la fede era una colonna portante della legittimità nobiliare,il re era tale per diritto divino, la distruzione della fede e dell’ordine nobiliare e monarchico fu un tutt’uno, ed è su questo fronte che si combattè la battaglia politica tra progressismo borghese e blocco reazionario dalla rivoluzione francese in poi. Quella distruzione del potere politico della chiesa che il protestantesimo attuò a partire dal cinquecento, nei paesi in cui si impose la controriforma giunse nelle vesti dell’anticlericalismo liberale ottocentesco. La secolarizzazione del cristianesimo è un processo che è stato imposto con le rivoluzioni borghesi e un bel pò di spargimento di sangue, l’abolizione del feudo e l’esproprio delle terre ecclesiali, l’imposizione della legge del mercato e la proletarizzazione delle masse contadine, non è una cosa che è capitata così per caso.
Il concetto di laicità cui ci si riferisce oggi è quello ottocentesco, ed è un concetto per il quale vietare la blasfemia nei confronti della religione sarebbe una blasfemia contro lo stato laico e progressista, mentre la blasfemia contro lo stato e il progresso deve essere punita con il massimo della severità. Questo e nient’altro.
La libertà d’espressione non è un valore dello stato laico, qualora presupponga una volontà d’azione politica effettiva contro lo stato, la libertà d’espressione è un valore solo quando è disgiunta dalla libertà d’azione contro lo stato: Charlie Hebdo può dire quello che gli pare perchè è inoffensivo politicamente e socialmente, e infatti venne chiuso d’autorità negli anni ’70, quando probabilmente rappresentava un sentire politico più diffuso e percepito come pericoloso dalle strutture statali dell’epoca.
Nel mio articolo ho usato come sinonimi terrorista=partigiano=insorto. Terrorista è troppo sbilanciato da una parte, partigiano troppo dall’altra, forse insorto è il termine migliore. L’uso di “terrorista” per definire le azioni di un esorcito regolare mi pare accettabile come giudizio di valore, ma non come termine tecnico.
l’articolo, ben ponderato e non manicheo, mi fa però nascere delle perplessità già espresse nei commenti da Michela e Filippo: non possono essere le religioni (o i loro adepti) a stabilire il grado di libertà di satira sulle stesse
fa bene l’autore a distinguere fra multiculturalismo e laicità, sarebbe meglio se lo facessero anche certi credenti perché il problema questo è, voler influenzare lo spazio pubblico in base a certe credenze private
esempio: il cristiano può non mangiare pesce di venerdì, saranno fatti suoi, il problema nasce nel momento in cui pretenderebbe che i locali pubblici non cucinino pesce il venerdì perché offensivo per la sua religione
Charlie Hebdo è un giornale, esiste in uno spazio pubblico, lo compra chi vuole e (qui sì ha ragione l’autore) al massimo non andrebbe sostenuto con finanziamenti pubblici ma accidenti se ha il diritto di esistere, con noi liberi di criticarlo culturalmente se non ci piace
Filippo ha ragione a ricordare che nell’islam (sempre interpretato in modo letterale) è vietata anche la semplice rappresentazione di Maometto. Ma una certa accortezza politico-diplomatica dovrebbe saper distinguere. La eventuale “fiction” sulla vita di Maometto si può fare, insistere con le caricature finisce con l’essere un’inutile provocazione. Il valore della libertà d’espressione va commisurato alle situazioni concrete. Non è un assoluto. Una società multiculturale, che vuol dare eguale spazio a tutte le religioni, non può non tenerne conto. Le guerre di religione hanno da essere bandite: oggi lo si può fare soltanto liberando lo spazio pubblico non dalle religioni (che ci sono) ma dagli estremismi che possono produrre.
Con l’intervento di “un dado a venti facce”, il cerchio si chiude.
Egli ben descrive una situazione che a me pare molto prossima alla realtà, lo stato francese, proprio questo in particolare più degli altri stati occidentali, non è uno stato laico, ma è uno stato laicista, e quindi che impone la laicità, non è indifferente verso le religioni, esse, cristianesimo incluso, sono tollerate purchè non intervengano in campo politico, quindi anche a livello di etica collettiva. In effetti, rimasi sorpreso quando a Parigi vidi che tante chiese la domenica erano affollate di fedeli che andavano a messa, forse più che nella cattolicissima Sicilia dove vivo.
La religione deve restare un affare strettamente privato. Mi chiedo a chi può sorprendere che questo tipo di stato laicista sia in rotta di collisione con una religione, quella islamica, che determina l’etica collettiva di un po’ tutti i paesi musulmani (forse con la sola eccezione della Tunisia), fino ad avere degli stati apertamente teocratici.
A me francamente, gli stati teocratici non piacciono neanche un po’, ma lo stato laicista che non mi piace neanche non ha avuto bisogno dell’attentato, e neanche di quello scontro di civiltà che taluni evocano, per entrare in crisi, lo stato liberale in cui tutto può essere messo in dubbio e deriso tranne che la sua laicità e la sacralità del denaro, è entrato in crisi da sè.
Sottovalutare la profondità di questa crisi è un grave errore, rischia di lasciare alla nostra generazione la responsabilità storica di non essersi opposti all’azione distruttiva di un tardo liberalismo, sempre più potente e nello stesso tempo sempre più allo stato terminale.
Oggi, accanto all’ovvia necessità di contenere militarmente fuori dai propri confini l’azione inumana di questi combattenti che altrove non disdegnano di utilizzare bambini per le azioni più cruente e più ignobili, dobbiamo mettere ordine a casa nostra. Poichè la corrente principale è ancora a favore del liberalismo, questa operazione di rimessa in discussione dei principi politici fondamentali, richiede un rifiuto del processo di globalizzazione, il ripristino pieno della sovranità nazionale in termini democratici.
@ rino genovese
Caro Rino, ribadisco, il problema è che, di fronte ad altri casi di rappresentazione della figura di Maometto, la reazione di certe istanze dell’Islam non cambia. Mi limito a citare un esempio. Nel 1993, in occasione del tricentenario della nascita di Voltaire, il regista Hervé Loichemol aveva ottenuto i finanziamenti pubblici per mettere in scena Le fanatisme ou Mahomet le prophète, pièce che, sia detto per inciso, aveva come vero bersaglio la Chiesa cattolica, non l’Islam. Uno tra i più influenti intellettuali del mondo islamico, Tariq Ramadan, riuscì a suscitare negli ambienti musulmani un’ondata di indignazione che portò al ritiro delle sovvenzioni (in un ambito come quello teatrale, che di sovvenzioni vive, ciò equivale grosso modo a una censura). Gli argomenti utilizzati da Tariq Ramadan erano gli stessi che utilizzi tu: è meglio non ferire le sensibilità religiose ecc. Ciò dimostra, a mio modo di vedere, la loro ambivalenza e pericolosità. Per la cronaca: alla rappresentazione della pièce si oppose anche il fratello di Tariq, Hani Ramadan, direttore del Centro di studi islamici di Ginevra (entrambi sono nipoti di Hassan el-Benna, fondatore dei Fratelli Musulmani). In un’altra occasione, lo stesso Hani inviò a Le Monde una lettera in cui difendeva la lapidazione (si può trovare su internet), pratica per la quale il più clemente Tariq propone invece una moratoria.
Un esempio tra i tanti.
L’11 marzo del 1570, sul ponte di Castel Sant’Angelo, fu eseguita la condanna a morte di Nicolò Franco, autore di versi osceni e anticlericali e di un libretto contro papa Paolo IV, “Commento sopra la vita e costumi di Giovan Pietro Carafa, che fu Paolo IV chiamato, e sopra le qualità de tutti i suoi e di coloro che con lui governaro il pontificato”; un libretto allo stesso tempo violento e satirico, che non manca di un opportunismo mal calcolato, del resto proprio dell’indole innegabilmente maledica del suo autore.
Secondo l’accezione tridentina, il papa non era solo vicario di Cristo, ma anche “Dio in terra” (e perciò abitualmente chiamato “Nostro Signore”). Offendere un papa (lasciamo stare se con buoni argomenti) era un atto blasfemo. Il papa del tempo, Pio V (poi santo), non era precisamente un tipo tollerante; il tribunale dell’Inquisizione, si sa, non faceva sconti.
Anche se Franco era un intrigante, anche se il suo linguaggio non ci piace, anche se le sue caricature sono fastidiose e un tantino interessate, potremmo mai avere tentennamenti nel solidarizzare con lui?
La questione, in fondo, è tutta qui.
Una precisazione: ciò che ho raccontato sulla mancata rappresentazione della pièce di Voltaire accadde a Ginevra, non a Parigi.
Caro Michele,
la differenza è tra l’offesa alle credenze e l’offesa alle persone. La persona è tutelata, è giusto che lo sia, e quindi questa tutela può essere definita meglio, immagino, tenendo conto di tante cose. Ma sappiamo, da vicende che riguardano spesso i giornalisti, che anche una causa per diffamazione non è facile da vincere. Altrimenti l’offesa personale diventa uno strumento per tappare la bocca alla gente. Tanto più si tappa la bocca alla gente se passa l’idea che l’offesa alla credenza possa essere punibile.
Caro Rino,
non riesco a capire bene qual è la tua proposta, né quella di Ventura. Se la proposta è istituire delle leggi che proibiscono l’offesa pubblica alla religione, non vedo proprio come si possa accettare. Questa è una forma di intolleranza, perché la tolleranza è proprio il fatto che chi ritiene offensivi una credenza o una pratica accetta che non siano proibiti. Se accetta questo, lo fa probabilmente per tante ragioni. Ma la ragione per cui lo stato democratico deve fare questo, cioè rispettare credenze e pratiche che pure possono offendere la coscienza di qualcuno, è perché questo stato deve rispettare cittadini eguali nei diritti benché diversi tra loro nella concezione del mondo, nelle convinzioni morali e religiose, nelle pratiche. Se viene proibito qualcosa perché offende delle coscienze allora vuol dire che lo stato è “etico”, o “confessionale”, o qualcosa di simile, in quanto alcune coscienze decideranno, contro altre coscienze, che certe cose sono offensive, e le proibiranno. Se si imposta così il discorso non si può pensare che la limitazione al solo caso della blasfemia pubblica circoscriva il fenomeno. E poi la cosa è concettualmente inapplicabile: il laico riterrà offensivo per la propria coscienza che la religione esista, quindi a questo punto chiederà di proibirla. Un bel casino.
Se si vuole uscire dalle guerre di religione, come dici tu, cioè anche dalla guerra “etica” tra cittadini atei e cittadini religiosi, allora non è possibile proibire la bestemmia, neanche pubblica. Se invece la proposta è quella di promuovere un atteggiamento culturale diverso, nel rapporto tra atei e credenti, allora sono d’accordo. Se l’idea è che per difendere una società più giusta e umana non c’è bisogno di fare una crociata contro la religione, la condivido del tutto, e penso che lo stato debba reggersi su fondamenta di questo genera. Se però delle persone e dei gruppi ritengono che sia giusto fare questa crociata, non penso che sia giusto proibirlo, così come non è giusto proibire il proselitismo religioso. Purché entrambi restino nei confini del rispetto dei diritti delle persone.
Poi c’è la questione della sicurezza (l’ordine pubblico, nel linguaggio della Dichiarazione dei diritti del 1789, citata). Ma questo non è un grande problema teorico: nessun diritto fondamentale (libertà individuale, partecipazione politica, libertà di espressione ecc.) è assoluto, ma è sempre inserito in un sistema, per cui può capitare, in certe circostanze, che un diritto sia limitato da un altro diritto. In certe circostanze, per ragioni di sicurezza, è possibile limitare la libertà di espressione, perché va tutelato il diritto alla sicurezza delle persone coinvolte. Ma questo va visto caso per caso, non si può fare la legge generale che dice: “siccome se tocchi Maometto si rischiano sgozzamenti, allora è proibito toccare Maometto”.
Infine, la questione del finanziamento è invece molto grave: in effetti lo stato non dovrebbe finanziare un giornale del genere per ragioni diciamo di sostegno morale, perché questo significa che lo stato fa sua la battaglia antireligiosa di quel giornale.
Assai interessante. Coraggioso l’autore a dire queste cose con questa chiarezza a così poca distanza dai fatti e dal lutto. Io sono d’accordo nella sostanza, eppure confesso di aver comunque provato un brivido a pensare che stiamo parlando di morti e che li stiamo giudicando. Ma è anche vero che oggi il silenzio non esiste, le voci cattive già ci sovrastano, e che, come scrive Ventura, il futuro ora è molto più importante del passato, perché è ancora nelle nostre mani. Dunque, con pacatezza, ragioniamo già da ora.
Confesso anche che questo articolo mi ha fatto venire molta paura. L’analisi della logica del terrorismo, che vince comunque, è plausibile, ma è anche terrificante. So che non era questo lo scopo di Ventura, ma così è.
Il pezzo ha portato allo scoperto un nodo che (a me personalmente: chiedo lumi a chi su questo spende da anni le proprie riflessioni) pare inestricabile, nodo intorno a cui si sono infatti disposti i due schieramenti contrari: Ventura e Genovese, da un lato, Piras dall’altro (cito solo coloro che hanno scritto un pezzo su LPLC. Anche i commentatori hanno scritto cose utili: li ringrazio per avermi aiutato a pensare, qui Buffagni e michela fra gli altri. Non sono ringraziamenti cerimoniosi o rituali: abbiamo bisogno di tante parole per capire).
Ventura dà una definizione di laicità che personalmente trovo molto condivisibile, ma dice anche che su quella base dovremmo poter prevedere una censura preventiva e a fin di bene. Giustamente Piras osserva: se passa il principio che una cosa offensiva per qualcuno possa essere censurata, cade proprio il pilastro della tolleranza, cioè la liberaldemocrazia stessa, e aggiunge che non si può prescrivere (o impedire) per legge ciò che attiene alla sfera dell’adesione culturale.
Ventura però osservava che l’esercizio della tolleranza richiede un prerequisito: l’accettazione della tolleranza stessa, di non reagire insomma se ci si sente offesi. E osservava (secondo me toccando un punto nevralgico, non solo perché faccio l’insegnante) che per educare a quel valore avrebbe dovuto funzionare a dovere il sistema educativo e, più, in generale, l’integrazione sociale. Ma il sistema educativo non è stato in grado di adempiere al suo compito (ci sarebbe da domandarsi se esso sia davvero capace di questo progetto di inclusione totale, anche nel migliore dei paesi possibili). Dunque tocca fare i conti con persone che si sentono offese perché non hanno maturato quella sensibilità di lettori e di uomini richiesta per sopportare lo sberleffo. Dunque tocca intervenire con altri mezzi che non con l’enunciazione del principio di tolleranza e della libertà assoluta di stampa.
Nel lessico di Piras, forse ciò significa che ciò che dovrebbe essere gestito solo al livello dell’adesione culturale, in realtà ci pone ancora un problema giuridico, di imposizione per legge.
Come se ne esce?
Trovo un parziale spiraglio nell’invocazione di una maggiore accortezza politico-diplomatica di Genovese, una souplesse che non richiede necessariamente la messa in discussione di certi principi.
Mi domando inoltre – lo domando a Mauro – se la democrazia come rispetto dell’altrui fragilità da lui così ben descritta pochi giorni fa non possa avere un’applicazione anche qui. Pensare a qualcosa come: nessuna censura (in questo sono d’accordo con lui), ma una riflessione e un’assunzione di responsabilità vera e profonda sulla pubblica piazza, a voce alta, coraggiosamente, sui limiti della nostra concezione di laicità e libertà.
Una riflessione seria, ad esempio, su quanto un pensiero come questo contenga di nichilista (ed è lecito) ma anche arrogante (lecito anche questo, per legge: ma lo si può imporre come destino necessario di tutti?):
“Que voulez-vous, personne ne nous changera. Nous sommes des athées, des incroyants. Nous sommes fâchés avec la religion, qu’elle soit juive, catholique ou musulmane. Et notre insolence est justement fondée sur notre propre incroyance. Nous méprisons la religion et ses mensonges qui consistent à laisser croire à l’homme qu’il a un autre destin que celui auquel il est voué, c’est-à-dire la mort” (Wolinski).
O quanto di angusto contiene l’editoriale di Biard oggi su Charlie Hebdo stesso, sulla “laicità punto e basta”, che richiede necessariamente l’espunzione delle religioni dalla storia.
Non perché non sia giusto difendere la laicità, ma perché abbiamo un problema pedagogico grande come l’Europa: non siamo riusciti a far capire le buone ragioni della tolleranza, (anche) perché siamo troppo sicuri di essere un destino, così che la tolleranza, da bene di tutti, è diventato il bene solo di qualcuno, di quelli intelligenti, liberi ed emancipati. E, in effetti, lo è. Ma il problema pratico è: come convinciamo della bontà del nostro modello quello che “ancora non ci è arrivato?”. Lo facciamo sentire il bambino scemo e ritardato?
Ci vuole molta umiltà, molto altruismo, molta capacità di ascolto. Ci vuole molta capacità di autoeducazione ed educazione.
Temo che la pedagogia non basterà e che sia solo il mio ridicolo e inutile programma personale; ed è per questo che mi fa paura l’irresolubilità di quel nodo: la scelta è tra essere democratici ma imbelli, o censorii (autoritari?) ma efficaci? Confesso che la scelta mi agghiaccia.
Vedremo se la capacità e la volontà di tutti di impegnarsi a cercare la famosa terza via saranno sufficientemente forti.
(Ho detto, sopra: possiamo imporre la consapevolezza della morte come destino di tutti? Formula sbagliata. Quello E’ il destino di tutti. Ma tra il fremere di insofferenza per il vicino che non l’ha ancora capito e il prospettargli che non c’è vera libertà se non realizza quella verità esistenziale elementare – dalla quale nasce tutto ciò che di bello crea l’uomo, l’arte, la società, la filiazione, la costruzione di una continuità – passa tutta la differenza tra l’irrisione, brutta, come quella di – certe – vignette di Charlie Hebdo e la cultura come incontro e scambio, anche di celie pesanti, quelle fra amici, per intendersi).
Un’ultimissima cosa. Sono terrorizzato anche da quest’altro aspetto, ben riassunto da questa vignetta che Staino ha disegnato oggi in un incontro a Firenze tra il vescovo, l’imam, il rabbino.
http://media.bresciaoggi.it/media/2015/01/73ac391c81413fff07bb45b4a7129e85_1_1_resize_597_334.jpg
Libertà e religione
«Quando presso un popolo la religione è distrutta, il dubbio si impadronisce delle parti più elevate dell’intelligenza e semiparalizza tutte le altre. Ognuno si abitua ad avere nozioni confuse e mutevoli sulle materie che più interessano se stesso ed i suoi simili; ognuno difende male le proprie opinioni e le abbandona e, poiché dispera di poter risolvere da solo i più grandi problemi del destino umano, si riduce a non pensarci affatto. Un simile stato di cose indebolisce le anime, attenta al vigore della volontà e prepara i cittadini alla servitù. Non solo avviene allora che questi si lasciano portare via la libertà, ma spesso che l’abbandonano.
Quando non esiste più autorità in materia di religione come in materia politica, gli uomini si spaventano di fronte a questa indipendenza illimitata. Questa perpetua agitazione li inquieta e li stanca. Poiché tutto si agita nel mondo dell’intelligenza, essi vogliono almeno che tutto sia fermo e stabile nell’ordine materiale e, non potendo riprendere l’antica fede, si danno un padrone. Per parte mia, credo che l’uomo possa mal sopportare insieme una completa indipendenza religiosa e un’intera libertà politica e sono portato a pensare che, se egli non ha fede, bisogna che serva e, se è libero, che creda.»
( Tocqueville, La democrazia in America, III, I, 5)
@Piras
“Infine, la questione del finanziamento è invece molto grave: in effetti lo stato non dovrebbe finanziare un giornale del genere per ragioni diciamo di sostegno morale, perché questo significa che lo stato fa sua la battaglia antireligiosa di quel giornale”.
Definire come “molto grave” lo stanziamento di un milione di euro prelevati da un fondo statale di sostegno alla stampa mi sembra fuori luogo. L’Avvenire, per fare un esempio nostrano, ne riceve più di quattro all’anno.
Senso della citazione tocquevilliana precedente: il liberalismo, con la sua tolleranza e la sua libertà negativa, funziona molto bene in una società *religiosa*.
In una società irreligiosa, dove la religione è socialmente minoritaria, culturalmente sconfitta, ghettizzata nel privato, il liberalismo diventa enforcement del nichilismo. Fra poco, sui messali, i rosari, i veli, le chiese e le moschee verrà imposta la scritta: “La religione uccide” o “Chi è religioso danneggia anche te, digli di smettere”.
Il problemino sociale e politico – lascio perdere quello culturale – è che abbiamo importato in Europa alcuni milioni di persone che (come d’altronde la grande maggioranza dell’attuale umanità) NON vengono da una società irreligiosa, e alle quali non è facile spiegare che Dio, cioè il simbolo di tutto quel che rende la vita degna di essere vissuta, va trattato come la pecora nera della famiglia, della quale si parla solo malvolentieri e sottovoce, o che addirittura i più sfacciati possono dileggiare impunemente.
Quando, per qualsiasi motivo giusto o sbagliato, condivisibile o meno, queste persone trovano la vita che conducono chez nous indegna di essere vissuta, è più che naturale che esse si rivolgano, con la mente e non solo, verso il loro Dio: e che se ne servano per affermare il loro diritto a una vita degna di essere vissuta. Se la distanza tra il loro concetto di “vita degna” e il nostro concetto di “vita degna” è colmabile da un compromesso, tutto bene: entra in azione la tolleranza liberale.
Se noi non abbiamo alcun concetto di “vita degna” per loro accettabile (e non l’abbiamo, perchè l’individualismo nichilista per loro non lo è) alcuni di loro ricorreranno alla forza delle armi, e saranno grossi guai per tutti.
Buffagni, per favore, provi a pensare per una sola volta nella sua vita che anche gli individualisti che non credono in dio possono avere un ideale di vita degna, una moralità, degli ideali per cui combattere e da proporre agli altri, e che non sono tutti “nichilisti”. Lo faccia, questo sforzo di carità ermeneutica, come io faccio sempre lo sforzo di capire le ragioni e le passioni delle coscienze religiose.
Lo faccia solo per un momento, che so, una mezz’ora. Poi ritorni alla sua confortante condanna del secolo.
Caro Mauro, è evidente che io non parlavo di leggi – come scrivere un testo di legge in cui si proibiscono le vignette, in particolare quelle su Maometto? Però, attenzione: norme che impediscono il vilipendio delle religioni (al plurale) ci sono già, anche in Italia da alcuni anni, dove fino a non molto tempo fa vigeva ancora il Codice Rocco con il suo bravo reato di “offesa alla religione di Stato”. Diresti per questo che la repubblica italiana iperclericale dei cinquanta-sessanta (e oltre) non era una democrazia liberale? E, parlando sempre del nostro paese, la perfetta azione di lobbying delle gerarchie cattoliche non ci ha regalato una legge incostituzionale sul diritto alla procreazione assistita? Non siamo obbligati a morire come cani senza poter ricorrere all’eutanasia o al suicidio assistito? E che ne è della direttiva europea sull’omofobia, mai introdotta come aggravante di reato nel nostro ordinamento? Sono esempi che mostrano che una laicità a tutto tondo, in Italia, finora è stata impossibile. Il principio liberale (di passaggio: non esiste un principio liberale più forte di quello della tolleranza in materia religiosa, e quindi della laicità dello Stato) è venuto molto spesso a delle transazioni. Ora, nell’Europa che si profila, una laicità alla francese è improponibile. Perché? Semplicemente perché la secolarizzazione non c’è stata, o c’è stata in maniera molto ma molto limitata. A me piacerebbe che, come nel protestantesimo dei paesi nordici, la religione fosse diventata un fatto privato. Ma così non è. Le religioni, compreso il nostro mediocre cattolicesimo, sono ritornate all’attacco, occupano lo spazio pubblico in modo sempre più massiccio (anche grazie ai mezzi di comunicazione di massa). Parlando in senso strettamente politico, che cosa bisogna fare per scoraggiare una idiotissima guerra di religione che potrebbe profilarsi? Il criterio dell’ordine pubblico, evocato nel saggio di Ventura, mi sembra un buon punto di partenza per una riflessione. Finché ti limiti a portare il velo, a mostrare il crocifisso e simili, io Stato non t’impedisco di venire a scuola (lo dico perché in Francia al contrario è stato vietato, ed è un errore), se vuoi fare proselitismo con idee demenziali invece te lo impedisco – sto entrando qui, come vedi, nel problema giuridico del reato d’opinione… Allo stesso titolo, tuttavia, come Stato posso impedirti di continuare a pubblicare vignette su Maometto – cioè sospendo per un periodo, da vedere poi quanto lungo, il tuo diritto alla libertà di espressione – per il semplice fatto che in Pakistan (o da qualunque altra parte nel mondo) ci sono stati incidenti che hanno portato alla morte di diciannove persone, come è avvenuto effettivamente nel settembre 2012, mi pare, a seguito delle solite stramaledette vignette.
Ecco quanto volevo dire – e che è stato ben compreso da Daniele Lo Vetere. Certo, l’impegno dell’educatore è centrale in faccende come queste. Lo sa, caro Lo Vetere, che una delle cose di cui si discute a Parigi è proprio il tasso di “fallimento scolastico” altissimo nei quartieri sensibili in cui vivono i figli e i nipoti della questione postcoloniale? E poi ci sono quelli che parlano in termini del tutto generali e vaghi della “repubblica”, della “laicità” e così via… La retorica, come sempre, serve a coprire i problemi.
Caro Piras,
io lo sforzo lo faccio, tant’è vero che con lei parlo volentieri, non le faccio agguati col kalashnikov, nè penso che la sua vita sia indegna. Inoltre, non penso che un individualista ateo sia una persona indegna. Persone indegne che fanno una vita indegna ce ne sono in tutte le categorie sociali, le fedi religiose e politiche, etc.
Colgo l’occasione per invitarla ad applicare anche qui la distinzione, a lei cara, tra offesa alla persona e offesa alla religione (compreso l’individualismo e il nichilismo, che a modo loro sono religioni).
Io penso, molto semplicemente, che con il nichilismo si può forse tenere insieme un individuo, ma non si tiene insieme una civiltà. Altre persone, non per questo indecenti o sciocche, pensano di sì. Chi vivrà vedrà.
@ rino genovese, prima che risponda mauro:
certo, ci possono essere istituzioni che possiamo definire “democrazie liberali” sebbene con alcune imperfezioni (nel caso specifico nell’Italia repubblicana fin dal 1948 c’è l’articolo 3 che definisce tutti gli individui uguali a prescindere dalla religione, anche se contrastava e ancora contrasta in parte con i patti lateranensi, in quanto dovrebbero essere sostituiti da una legge valida per tutte le confessioni religiose, cosa però complicata dal fatto che il Vaticano è anche uno stato estero, ma non mi dilungo su questo tema giuridico particolare).
Non sono però d’accordo sulla tua contrarietà alla legittimità delle azioni di lobbying delle gerarchie cattoliche. i vescovi italiani infatti sono cittadini italiani come tutti gli altri e hanno pienamente diritto a costituire un gruppo di pressione o lobby allo scopo di influenzare l’opinione pubblica e i processi legislativi allo stesso modo con cui lo fanno i sindacati, gli ambientalisti o gli industriali del petrolio o del tabacco. Di fatto peraltro i vescovi italiani ritengono (a prescindere se a torto o meno) che le loro argomentazioni sulla non legittimità di procreazione assistita, eutanasia, diritti degli omosessuali siano accessibili mediante argomentazioni che usano la sola ragione (tant’è che queste tesi sono condivise anche dagli “atei devoti”) e dunque spetta alle capacità di argomentazione e convinzione del fronte che critica queste tesi il compito di far sì che attraverso elezioni o referendum lo stato italiano emani leggi in senso contrario e dunque a favore di procreazione assistita, eutanasia, diritti gay. Dire “È vero ma la chiesa è potente, ma la chiesa ha più mezzi di comunicazione e allora i difensori di quei diritti sono svantaggiati” vuol dire confondere la causa con l’effetto, non è che la chiesa convince a causa della sua potenza e grande presenza nei media, semmai la chiesa è potente e molto presente nei media proprio perché finora ha argomenti che convincono a molti. Detto questo naturalmente da me che sono favorevole ai diritti di procreazione assistita, eutanasia e diritti gay, però che li si ottenga con il libero dibattito democratico, così come sono state ottenute le leggi sul divorzio e l’aborto in passato. In fondo in ogni democrazia liberale uno stato e il suo popolo ha in quel momento sempre le leggi che si merita.
Diverso è il discorso invece di leggi che limitano l’espressione su base di convinzioni esplicitamente fondate su credenze religiose, tra parentesi il tuo appello all’ “ordine pubblico” esteso in quel modo potrebbe avere conseguenze pericolose, arrivando addirittura, in una società in cui c’è una maggioranza di “atei intolleranti” di vietare il culto pubblico e la stampa in pubblico di qualsiasi religione in quanto “nemica del progresso” (tra parentesi la costituzione dell’Unione Sovietica nel secolo scorso era quella in cui più estesamente erano esposti i diritti di libertà di espressione, di stampa e di riunione e sappiamo bene quanto diversa era l’applicazione concreta di tali diritti…).
ovviamente nell’esempio che ho fatto il cristiano non mangia carne di venerdì, mannaggia alla fretta, credo che il discorso si sia capito comunque
*Dire “È vero ma la chiesa è potente, ma la chiesa ha più mezzi di comunicazione e allora i difensori di quei diritti sono svantaggiati” vuol dire confondere la causa con l’effetto, non è che la chiesa convince a causa della sua potenza e grande presenza nei media, semmai la chiesa è potente e molto presente nei media proprio perché finora ha argomenti che convincono a molti.
@Michele Dr
Mi perdoni il puntiglio, ma in questo Paese le leggi sul divorzio e sull’aborto esistono grazie a dei referendum abrogativi di norme precedenti, referendum i cui esiti dimostrarono che la “potenza” politica della Chiesa, e dunque la sua capacità di influenzare con la propria visione dell’uomo la nostra legislazione, era inferiore alla sua capacità di convincere i molti.
@ michela,
non ho ben capito la sua ultima frase sugli esiti dei referendum su divorzio e aborto che “dimostrarono che la “potenza” politica della Chiesa, e dunque la sua capacità di influenzare con la propria visione dell’uomo la nostra legislazione, era inferiore alla sua capacità di convincere i molti.”
Detta così mi sembra che lei intenda dire che la Chiesa a quel tempo aveva una capacità comunicativa e di convincimento che faceva sì che la maggioranza dei cittadini italiani condivideva le visioni della Chiesa del tempo, mentre era meno potente a livello di influenzare in direzione dei suoi princìpi le azioni legislative della classe politica. Ma a me sembra che i risultati dei referendum di divorzio e aborto dicano proprio il contrario in quanto la maggioranza dei cittadini italiani si espresse in direzione opposta alle posizioni della Chiesa. Provi a riesprimermi in altre parole quello che lei intendeva comunicare.
Comunque questo discorso mi sembra irrilevante al riguardo della mia opinione, che intendeva affermare che una confessione religiosa in quanto considerata come un insieme di normali cittadini come gli altri, ha tutto il diritto di esprimere le proprie tesi sulla legittimità o meno su certi temi come fine vita e diritti omosessuali e spingere a leggi fondate su tali loro tesi se queste ultime sono argomentate a partire da premesse accessibili alla sola ragione, che possono essere non condivisibili da molti, ma legittime comunque nel dibattito democratico.
Molto interessante, di certo, per me, uno dei migliori contributi apparsi finora sui fatti di Parigi.
Provo a discutere alcuni punti.
1 Molto acuta l’idea secondo cui fine del terrorismo sia provocare la ritorsione dell’altro e smascherarne l’anima oscura e violenta. Ma c’è terrorismo e terrorismo, come mi sembra sia già emerso in certi commenti. Non attrbuirei nè ai Kouachi nè ai loro burattinai questa sottigliezza strategica. Gente che sbaglia indirizzo, non s’aspetta di dover digitare un codice, beve caffè con uno che lascia andare mentre spara in testa ad un inerme (tra l’altro, islamico).
2 Sacralizzare la satira è ciò che la satira stessa, se autentica e non un paravento per occultare una propaganda razzista o antisemita o violenta, respinge. La satira ha o no il diritto di esagerare e offendere? Oppura ne accettiamo solo una versione light, denuclearizzata, decaffeinata, grigia e salottiera, che non graffia e non bestemmia? “Nessuno dev’essere molestato” per le sue opinioni religiose. Ah sì? Dunque aspettiamo che i religiosi ci dicano quando si sentono offesi e quando no? Cosa travalica la loro soglia di permalosità e cosa invece può esser TOLLERATO? Dunque, loro, TUTORI DEL SACRO, decidono i limiti dell’espressione satirica. E chi scrive proprio per allargare i confini della dicibilità deve attendere da altri, professionisti dell’inattingibilità del sacro, il nulla osta. Che cosa succede nella mente di chi si sente offeso da una vignetta ? Avviene una ferita, un colpo doloroso al cuore che non si può accettare, perchè l’adesione al sacro risiede al centro dell’essenza della persona. Per questo non va trascurata la permalosità di chi minaccia o attua violenza contro la satira. La satira produce violenza, non semplice ironia, contro l’inattingibilità del sacro, lo smaschera e lo sveste, lo dissacra appunto, lo disidentifica, lo disincarna. Questo è un fatto: non si tratta di difendere la libertà di disegnare vignette, né la libertà di ridere, né la libertà di scherzare sulla religione. Si tratta di difendere la libertà di offendere e far del male al senso religioso di alcune persone. Le idee possono impaurire solo chi ne ha.
Ci mancano di rispetto i vignettisti blasfemi, lo fanno i negazionisti, lo fanno gli anticlericali di mestiere; questa mancanza di rispetto va vietata o solo denunciata con le armi della critica ragionevole? Il fatto che di solito i cattolici siano meno suscettibili non cambia nulla. Questo dobbiamo decidere: se concedere la possibilità di affermare idiozie, sciocchezze, banalità su delicatissime questioni spirituali, religiose, storiche. Le religioni del libro hanno sempre avuto eserciti e li hanno sempre usati, senza clemenze per il nemico. La satira ha sempre corso il rischio del rogo e della ghigliottina, ha vilipeso e calpestato, giocando coscientemente col fuoco. Senza sacralizzare la stessa satira, dobbiamo correre il rischio di rendere lecita ogni sua spericolata incursione non rispettosa né garbata all’interno di territori che ci stanno molto a cuore. Non è facile, la nostra prima reazione sarebbe la violenza, sempre. Tutte le volte che un burlone vuole fare il simpaticone su qualcosa che per noi è sacro: la bontà di nostra madre, la fedeltà della moglie, la bellezza inerme dei nostri figlioletti etc, tutte le volte che ci troviamo di fronte ad una dissacrazione di uno di questi nostri idoli la nostra mano stringe una pistola. Ora, se vogliamo prendere sul serio questa fase storica di scontro tra il silenzio ed il vociare, tra l’autocensura ossequiosa e l’eccesso irriverente, dobbiamo stare con chi esagera e dissacra. L’atteggiamento ossequioso e riverente non può essere obbligatorio per tutti, altrimenti cadiamo in un’epoca dovremmo aver abbandonato, quella medioevale. La cultura occidentale ha combattuto per uscire dalla Santa Inquisizione e dalle tirannie dei totalitarismi; ha combattuto quindi per rendere lecite le eresie e le eterodossie, anche quelle più fastidiose. Non viviamo più nei tempi in cui un’eresia è un oltraggio. Il tempo delle Crociate è fortunatamente finito, nonostante l’esistenza dei trogloditi assassini di Al Qaeda, dell’Isis e di Boko Haram. Le persone religiose hanno tutto il diritto di sentirsi oltraggiate da una mancanza di rispetto nei confronti della propria fede, ma non possono vietarla. E nemmeno possono pretendere attenuanti se reagiscono violentemente. Allo stesso modo gli atei possono legittimamente sentirsi offesi dalle manifestazioni più superstiziose ed intolleranti della religione, ma non possono vietarle (ma raramente la storia ha contenuto violenze in nome dell’ateismo o del politeismo). La società democratica ed aperta che da decenni tentiamo di costruire protegge, o dovrebbe farlo, un politeismo dei valori che comprende religioni diverse o nessuna religione, dunque rispetto o anche qualche scivolata nel pessimo gusto e nell’attacco irrispettoso. L’ossequio e il silenzio di fronte al Sacro non possono essere imposti.
Sara’ che sono una donna,, sara’ sicuramente per questo. Sara’ che mi sento chiamata direttamente in causa, come come corpo da normare e controllare, dai fanatici religiosi. Ma io tutta questa attenzione a non offendere l’islam non la capisco mica tanto bene. Io, il mio corpo, la mia parola pubblica, la mia gonna corta, la mia autodeterminazione,, io sono un’offesa vivente per qualsiasi salafita che incrocio per strada. Cosa dovrei fare, in nome di una irenica tolleranza: autocensurarmi? una gonnella un po’ piu’ lunga, suvvia, che sara’ mai? Vorrai mica provocare dei morti, in nome della tua discutibile liberta’ di vestirti come ti pare? E poi, dai, com’ e’ di cattivo gusto, sta gonna corta..
Assomiglia sinistramente a quelli che dicevano che le ragazze violentate se la volevano, perche’ anche loro , insomma, provocavano, e si sa che l’uomo e’ cacciatore. Cosa costava, mettersi dei pantaloni larghi e delle scarpe basse?
Appunto: costa. Mi costa tantissimo. Io alla liberta’ e alla laicita’ non rinuncio. Che io sappia, laicita’ significa che la religione non conta, nella sfera pubblica, e soprattutto non orienta le scelte legislative ne’ la vita collettiva. Vuol dire che faccio il gay pride anche se ai preti e alle vecchiette da’ fastidio. Vuol dire che la battaglia per l’aborto la faccio anche se fa piangere Gesu’ bambino. Non si capisce perche’ cio’ che era ovvio per chiunque – stato laico, battaglie laiche, ovvio conflitto democratico contro posizioni oscurantiste – non debba valere nei confronti dell’islam. E’ perche’ sono stranieri? Pazienza, sono stranieri ma sono anche fascisti ( vogliamo pronunciarla, questa parola?). Il problema magari non consiste tanto nell’offesa che noi cattivi laicisti infliggiamo a questi sostenitori di una dottrina politica dichiaratamente reazionaria (mai provato a leggere qualche loro testo ideologico?), ma nel mettere in pratica un po’ meglio la nostra democrazia, in termini di lavoro e di opportunita’. Le banlieus oggi non posson cho produrre un lumpenproletariato nazisteggiante. Forse, la questione vera non sta nel rispettare un po’ di piu’ qualcosa che francamente non sempre e’ cosi’ rispettabile. La radice di molto fanatismo religioso e’ il disagio, la frustrazione, la rabbia. Un paio di generazioni fa, questi giovani jihadisti sarebbero diventati comunisti. Oggi la domanda di riscatto sociale non trova risposte e si trasforma in altro. L’offesa al profeta diventa importante perche’ si e’ gia’ stati offesi nella propria vita, nel proprio futuro. Ma qui il discorso si farebbe politico ed economico. La soluzione comunque non e’, non puo’ essere in nessun modo, rinunciare alla laicita’ e alla liberta’ di essere anticlericali, pubblicamente, apertamente, senza paura. La soluzione riguarda l’economia e le sue scelte. Ergo, non c’e’ speranza.
Però per discutere con sufficiente serenità, cara Lorena, sarebbe utile non immaginare subito che dietro le opinioni di qualcuno ci sia del marcio.
“La donna con la gonna se l’è cercata”. Ma no. Ma perché? Perché dobbiamo discutere così?
@Michele Dr
Forse non sono stata chiara: volevo dire, all’opposto, che la Chiesa aveva allora più potere politico (sufficiente ad influenzare la legislazione prodotta dal Parlamento, diciamo) che capacità di convincere la maggioranza dei cittadini (come dimostrò l’esito dei referendum). Mi è sembrato che lei volesse dire il contrario, se non è così mi scuso.
Peraltro la piccola digressione può essere utile a ricordarci che i rapporti tra Stato e Chiesa in Italia – ma forse in tutti i Paesi e con tutte le religioni fortemente strutturate- non assumono tanto la forma del dibattito di idee, quanto quella di concretissimi bilanciamenti di potere.
Per Michele Dr.
Non cogli il senso di quanto dico: l’esempio del cattolicesimo l’ho fatto per dire a Mauro che ci si può trovare in una democrazia liberale (e l’Italia, nonostante tutto, lo è stata dal dopoguerra a oggi) anche avendo una chiesa che s’intromette non solo nello spazio pubblico ma finanche nella elaborazione delle leggi. Che questo sia giusto o ingiusto è secondario; certo dimostra la non esistenza di un processo di secolarizzazione dispiegato (che avrebbe previsto una religione sempre più come fatto privato). Comunque, le chiese non presentano quasi mai argomenti, si basano piuttosto su dogmi. Se poi accade che – per un insieme di fattori anzitutto sociali (questione postcoloniale) – una religione come l’islam sia utilizzata per un discorso politico radicale e per legittimare il terrorismo, beh, questa è una prova di più della non esistenza della secolarizzazione. Non resta che prenderne atto, e allora – in taluni casi – si può anche far ricorso a un’emergenza da “ordine pubblico” per giustificare certe misure di contenimento della libertà di espressione. (Faccio notare, tra parentesi, che questo accade già in Francia, in particolare con il comico antisemita Dieudonné del quale il governo, non la magistratura, ha vietato alcuni spettacoli per ragioni di ordine pubblico: se accade su un versante, potrebbe accadere anche sull’altro, nel caso delle vignette).
Lo Vetere:
1. Leggendo ciò che ha scritto Lorena Currarini, non mi pare proprio che stia immaginando che “dietro le opinioni di qualcuno ci sia del marcio”.
2. “La donna con la gonna se l’è cercata” è una sua estrapolazione che non rende assolutamente giustizia al ragionamento svolto da LC. Anzi per la verità la sua risposta a me sembra proprio tesa a trovare un modo per sminuire le sue argomentazioni, uno qualunque, in modo da non doverci fare i conti.
Chiamandola anche “cara Lorena”. La conosce? Sennò a me suona pure paternalistico.
“Ma perché? Perché dobbiamo discutere così?”.
Discutere?
@ daniele
non ho capito a chi o cosa avrei attribuito del marcio. Comunque, in breve: volevo solo mettere in rilievo il rischio dell’autocensura. Rinunciare alla propria libertà perché qualcuno si offende e poi reagisce: è questa la proposta? Dove si va a finire, se si accetta un principio di questo genere? Chi decide cos’è offensivo? un testo sacro? tanto vale prendere Galileo e buttarlo nella spazzatura della storia. E quali sono esattamente i confini dell’offesa, cosa la circoscrive, come la riconosco? A me questa idea di rispettare sempre e comunque ciò che non è rispettabile è sempre sembrata una brutta forma di paternalismo, velatamente razzista, per altro. Poverini, non ce la fanno, non ci arrivano, si sa, nella loro cultura non si usa..E’ come dire che solo noi europei ce la facciamo ad assumerci il rischio della libertà. Il fardello dell’uomo bianco, in salsa politically correct.
Soprattutto, a me sembra che in tutto questo manchi l’accento sulla dimensione propriamente politica dell’islamismo radicale, che per quanto ne so non è l’espressione di un’istanza puramente identitaria (e poi, che feticcio ambiguo, l’identità), ma è un’opzione politica dichiaratamente reazionaria. I loro testi parlano chiaro. Una fonte fra le più amate è de Maistre, per dire. Rigettano la democrazia o l’autodeterminazione in nome del principio d’autorità fondato sul testo sacro; la gerarchia è il principio ordinatore della realtà umana. Allora: dobbiamo stare qui a discutere sulla laicità perchè a gruppi terroristici di estrema destra dà un po’ fastidio?
“dobbiamo stare qui a discutere sulla laicità perchè a gruppi terroristici di estrema destra dà un po’ fastidio?” Non è questo il punto. Il problema è che i gruppi terroristici si sono scelti una causa popolare tra i musulmani, e la nostra inutile ostinazione su questa demenziale questione di principio fornisce un vantaggio strategico ai terroristi nella loro strategia di polarizzazione delle posizioni e mobilitazione delle masse. Scriveva David Galula, forse il più importante teorico della contro-insurrezione, che nella fase iniziale dell’insurrezione la “causa”, spesso pretestuosa, è la sola ricchezza, il solo asset, degli insorti, la prima pietra del loro edificio. Noi non critichiamo la bestemmia per ottemperare ai desideri dei terroristi, ma per dare un vantaggio tattico ai “moderati” e stroncare il contagio della violenza.
Caro Ventura,
a questo punto però lei dovrebbe chiarire se la sua proposta è fatta per ragioni di principio o per ragioni strategiche.
A me sembrava che fosse per ragioni di principio (cioè il rispetto dovuto alle coscienze religiose), e per questo ho risposto con ragionamenti di principio, riassumibili così: proibire l’offesa alla credenza significa abolire il principio di tolleranza, tanto più se questa proibizione deve essere definita dall’offeso stesso.
Se è solo per ragioni strategiche, come sembra dire il suo ultimo commento, tutto è più coerente, ma non sono d’accordo, perché se seguiamo solo le ragioni strategiche non abbiamo ragione di occuparci di problemi di principio come la democrazia: vinca il più forte, vinca il più abile.
@ michela,
ora ho capito meglio, comunque mi pare che il suo discorso sia irrilevante, non sono il massimo esperto di storia dell’Italia repubblicana, ma penso che se a quel tempo la Chiesa era molto potente a influenzare i parlamentari e le loro azioni legislative, questo era dovuto soprattutto al fatto che il popolo mediante le elezioni aveva eletto parlamentari più influenzabili dalla chiesa rispetto che altri. Per il resto mi pare che dire che ” i rapporti tra Stato e Chiesa non assumono tanto la forma del dibattito di idee, quanto quella di concretissimi bilanciamenti di potere” sia un discorso che non valga solo per il rapporto religioni-stato, ma anche tra lo stato è qualsiasi gruppo di pressione presente nella società, come i sindacati, confindustria, gli ambientalisti e così via. E comunque in parlamento alla fine una legge passa se ha la maggioranza in quanto l’unanimità dopo un dibattito di idee non succede quasi mai. Dunque questo del bilanciamento di potere mi sembra un aspetto inevitabile del dibattito democratico, anche se si può auspicare che esso sia il meno presente possibile.
@ rino genovese,
sono d’accordo sul fatto che un processo sociologico di de-secolarizzazione sia presente anche nelle democrazie liberali, con le religioni dunque presenti sempre più nello spazio pubblico Quando dici però “comunque, le chiese non presentano quasi mai argomenti, si basano piuttosto su dogmi” io distinguerei caso per caso, come ho detto prima varie posizioni della Chiesa Cattolica attuale su aborto, eutanasia e diritti gay non le convido neanch’io, però devo riconoscere che i vescovi espongono tali posizioni in base ad argomenti sulla sola ragione, prova che sia che anche non credenti come Giuliano Ferrara condividono tali posizioni. Per il resto io ribadisco la differenza tra l’esprimere opinioni anche critiche su credenze religiose e tra reati come la diffamazione, l’ingiuria, l’incitazione alla discriminazione su base religiose e l’incitazione a reati come il terrorismo (Dieudonnè sembrerebbe un caso di quest’ultimo tipo). Le prime sono opinioni, le seconde sono azioni dirette a danneggiare altre persone.
@ fiordispina
Passo al lei, così non ci si può attaccare veramente a tutto. Lorena ha fatto un ragionamento e ha usato alcuni argomenti. Io anche, nei commenti precedenti all’ultimo che lei trova così irritante, neppure degno del nome di discussione (ma il mio contributo alla discussione non inizia da lì, ne ero già parte in causa, altrimenti non avrei sentito il bisogno di quel rilievo a Lorena. Non faccio il franco tiratore, di solito. Lei ha letto il mio primo intervento?).
Ventura ha fatto un ragionamento. Lo condivido nell’impianto generale dell’analisi della laicità e dei diversi modi di intenderla. Trovo che una riflessione al riguardo, visto quello che succede nel mondo, sia auspicabile. (Tra l’altro, sarebbe sintomo di vero illuminismo. Discutere e riflettere sulla nostra libertà è un modo per fortificarla, senza farne un dogma, “e chi non la capisce fatti suoi”).
Nel mio primo commento, tra l’altro, ho detto che però l’idea di censurare la libertà di espressione per ragioni di opportunità politica o ordine pubblico mi lascia molto perplesso. Ma questo è proprio il tasto dolente, oggi. Discutiamone.
Trovare dietro questo una malevola intenzione, quella per intenderci del tentare di giustificare la violenza con il fatto che questa sarebbe stata provocata (insomma che le donne in fondo se la cerchino con quella gonna corta e i vignettisti se la cerchino con quelle vignette), è ingeneroso e forse anche offensivo.
Ventura dice “discutiamo di laicità”. La risposta migliore e più dialettica sarebbe “certo, ma non condivido la tua opinione”. Accettabile, ma meno proficua quest’altra “la laicità non è in discussione”. Non accettabile, secondo me (secondo me, secondo me, secondo me…) “non discuto perché tu hai un doppio fine poco chiaro”.
@ Lorena Currarini. Nella risposta a fiordispina spiego “il marcio”. Forse l’espressione è troppo forte, perdonami. In questi giorni ho sottratto molte ore al sonno per leggere, riflettere, capire. Quello che succede (tutto: dal fatto di poter morire in una scena da videogioco ma col sangue vero mentre sei impegnato nel tuo lavoro quotidiano, alle discussioni sui rapporti con l’Islam e la libertà di espressione) è grave e mi colpisce profondamente. Sento l’urgenza di ragionare e solo per questo prendo la parola. Sentire un’allusione a possibili doppi fini in questo ragionare (e in quello di Ventura) mi ha offeso. Ma probabilmente ho sbagliato il tono della mia risposta. Me ne scuso ancora.
Comunque, nella tua replica poni delle questioni serie. Ci rifletto un po’ su e ti rispondo questo pomeriggio, se riesco.
Pur non condividendo il punto di vista di Lorena Currarini, devo tuttavia ammettere che per chi è laicista, l’unica conseguenza logica è praticare il proprio laicismo senza curarsi di coloro che hanno idee differenti, anche se violenti e determinati, e senza quindi operare la censura per conto terzi (che eviterei di chiamare autocensura, che al contrario considero l’unica accettabile e che deriva da una scelta consapevole e personale).
Non condivido il suo punto di vista perchè non condivido il suo laicismo, io sono laico, non laicista, e quindi accetto limitazioni al mio libero arbitrio come costo perchè anche gli altri si limitino. Pretendere che non debbano esistere limiti, significa essere ideologicamente fanatici fino a scambiare la propria opinione per la verità, esattamente come quei buontemponi degli islamisti fanatici fanno.
Non erigo quindi questioni di principio ma di merito, e nel merito ritengo inaccettabili molte delle pretese dei musulmani, allo stesso modo di molte di quelle cattoliche, di molte della cosiddetta società civile e così via dicendo, la mia parola d’ordine è entrare nel merito.
Tornando alla questione specifica dell’Islam, bisogna prendere atto che esistono dei principi della civiltà occidentale per me irrinunciabili che vengono in rotta di collisione con alcuni principi dell’islamismo. A me pare francamente tempo sprecato stabilire quale sia la condotta più giusta o più astuta da tenere con l’Islam, dobbiamo invece fare delle domande a noi stessi ed alle società occidentali, e prendere atto che il globalismo che la grande finanza ha lanciato per aumentare i propri profitti, produce questi effetti nefasti e va abbandonato, tornare a vere sovranità nazionali che ci consentano di ridarci la facoltà di scegliere come vogliamo vivere e convivere come comunità nazionali.
@ Raffaele Alberto Ventura su 14 gennaio 2015 alle 14:15
“Nel mio articolo ho usato come sinonimi terrorista=partigiano=insorto. Terrorista è troppo sbilanciato da una parte, partigiano troppo dall’altra, forse insorto è il termine migliore… ”
In linea col Blog chiedo lumi sul termine.
Mettiamo pure di usare insorto all’interno, dando per scontato che il destinatario della insurrezione userà il primo e che partigiano verrà utilizzato a insurrezione andata a buon fine.
In pratica risulta che insorti che insorgono si trovano nella condizione di rivoltosi in sollevazione contro il potere costituito (dizionario)
Pertanto gli insorti di Parigi sono in linea con quelli del 9/11? L’unico risultato certo è la possibilità per il potere costituito di ridurre drasticamente i diritti costituzionali dei concittadini. Lo scopo di una insurrezione è principalmente di far sloggiare con le cattive un occupante. Ma è questo il caso? Lo era per i partigiani italiani, per gli algerini e i vietnamiti e via elencando. Insomma non mi ci raccapezzo.
Per rammentare un fatto noto e banale ma forse non abbastanza meditato: il problema, di principio e di fatto, viene sollevato perchè nelle nostre nazioni europee, e in particolare in Francia, vi sono importanti minoranze (di milioni di persone) che NON sono d’accordo con il laicismo, con la laicità, con le vignette, con le gonne corte e via dicendo. Saranno anche reazionari, maistriani, fascisti, machisti, maleducati, ma ci sono, sono tanti e deprecarne l’esistenza e la testardaggine serve poco.
Quando si è tutti o quasi tutti d’accordo sulle questioni etiche di fondo, quali che siano, questo ordine di problemi non si pone proprio: si fa tutti il Ramadan, o le Quarant’ore, o la Festa del 14 luglio, o la Notte Rosa, e tutti vivono insieme felici e contenti (tranne i pochi bastian contrari che non mancano mai e fanno spesso una brutta fine).
Sarebbe più facile intervenire politicamente e giuridicamente se il punto che davvero duole, il clivage rovente dello scontro, fosse *soltanto* la religione, intesa come elaborazione teologica di un kerygma e pratica devozionale. Nella Francia del Cinque-Seicento, tra protestanti e cattolici il dissidio è *soltanto* religioso (anche se poi diventa subito bruciante, sanguinoso e politico perchè la religione è anche la fonte di legittimazione principale della sovranità). Ma cattolici e protestanti condividono praticamente tutte le altre appartenenze etiche: etnia, lingua, cultura e costumi; con differenze al nostro sguardo minime allora esulcerate dal conflitto teologico-politico. Così, l’effetto editto di Nantes (Enrico IV) + espugnazione de La Rochelle (Richelieu, Luigi XIII), che disinnescano il conflitto religioso e il conflitto politico, riducendoli a un livello latente e socialmente “tollerabile”, risolve il problema (fino all’errore catastrofico di Luigi XIV che revoca l’editto di Nantes).
Nella Francia di oggi, francesi e stranieri arabo-musulmani e francesi, cristiani o no, de souche, oltre ad essere divisi dalla religione (praticata, creduta o meno) NON condividono le appartenenze etiche fondamentali: etniche, culturali, di costume (parlano però la stessa lingua, il che paradossalmente aggrava il problema perchè ognuno capisce benissimo gli insulti, intenzionali o no, dell’altro).
A peggiorare le cose, il fatto che l’etica pubblica maggioritaria è il relativismo tardo-liberale, il quale, una volta che venga imposto per via giuridica, si risolve in una proibizione sistematica di tutte le appartenenze etiche di tutti, tranne le esplicitamente permesse e le affatto indifferenti.
Tra una laicité tradizionale alla francese e gli immigrati di religione musulmana un modus vivendi era possibile, in quanto era assai chiaro quale fosse l’etica dominante, quali i comportamenti permessi e proibiti, e chiaro anche, benchè sottinteso, il fatto che o gli allogeni si integravano assimilandosi, o se ne tornavano a casa.
Dopo l’illuminato provvedimento dei ricongiungimenti familiari promossi da Giscard nel 1983 per fare un favore alla Confindustria francese, che hanno aggravato esponenzialmente la situazione – sia perchè hanno radicato in Francia gli allogeni arabi moltiplicandoli, sia perchè le donne (almeno le donne di quelle culture) sono le custodi delle tradizioni e le trasmettono ai figli – questo quadro non è più possibile, e lo scontro latente è sempre più minaccioso.
Ci sono svariati milioni di francesi o stranieri di religione musulmana, una parte significativa dei quali rifiuta l’etica pubblica relativista e liberale. Impedire l’ostensione dei segni della propria religione non basta, e impedire l’espressione della volontà politica che si fondi sull’appartenenza religiosa o etnica è impossibile, perchè equivarrebbe a revocare la democrazia, il nostro moderno editto di Nantes: un partito degli immigrati arabi come quello immaginato da Houllebecq sarebbe legale. Improbabile, certo: ma probabilissimo, anzi effettuale è il voto organizzato musulmano, che dunque ha un suo peso nelle decisioni dei partiti politici francesi. Insomma, non si può neanche espugnare La Rochelle.
Ricordo per concludere che de Gaulle mollò l’Algeria esattamente per evitare questa situazione; e come oggi è chiaro, in questa come in tante altre cose aveva la vista lunga.
@ Lorena.
Se io propongo a uno dei miei studenti (faccio l’insegnante) qualcosa che non è in grado di comprendere, che lo colpisce, lo turba, lo sciocca e poi, al genitore venuto a lamentarsi, dico, “lei e suo figlio DOVETE avere la sufficiente maturità intellettuale, consapevolezza culturale, padronanza emotiva, … per capire quello che capisco io”, non sono un professore liberale e non paternalista, ma un pessimo educatore, che cade nella più dannosa e inutile delle prescrizioni paradossali (prescrivere al dovere e alla volontà quello che pertiene alle sfere umane non controllate dal senso del dovere e dalla forza di volontà, del genere “sii spontaneo”: se VOGLIO essere spontaneo, va da sé, non SONO spontaneo). Non solo, sarei anche violento.
Ci ho riflettuto e, sì, preferisco correre il rischio di passare per razzista (velatamente e per un paradosso che mi sfugge), che incompetente e violento.
Anche io credo nella libertà. Ma anche porsi in ascolto delle altrui debolezze è una bella libertà, è la libertà di incontrare l’altro. Non pesa meno del mio diritto di parola, che non mi va di imporre (difendere sì, imporre no). Mi piacerebbe soppesarli entrambi e non rinunciare a nessuno dei due.
Paternalismo? No, anche io sono debole, anche io vorrei che l’altro esercitasse la stessa libertà con me, piuttosto che impormi il suo diritto di parola. Questo c’entra poco con la censura, ma c’entra molto con lo sforzo di convivenza in una situazione in cui le lacerazioni fra “diversi” rischiano di diventare insanabili.
ad AP
A quanto mi risulta gli obiettivi tattici e strategici degli islamisti (tra i quali certo vi sono linee diverse) sono:
1) obiettivi strategici:
formazione di una alleanza di Stati islamici modellata sull’antico califfato, anzitutto nel Levante, che individui come nemiche le potenze occidentali: anzitutto gli USA, poi l’Europa. In vista di ciò, cambiare l’orientamento politico dei governi dei paesi islamici attualmente alleati delle potenze occidentali.
2) obiettivi tattici:
a) disgregazione della coesione sociale nei paesi occidentali, a mezzo polarizzazione tra islamici e non
b) nei paesi occidentali, inasprimento delle misure di prevenzione e di repressione del terrorismo islamico, che costringa le masse islamiche immigrate a radicalizzarsi e a scegliere se stare di qua o di là, le masse autoctone a perdere fiducia nelle loro classi dirigenti che non sanno proteggerle.
c) accentuare le contraddizioni politiche tra potenze occidentali e governi islamici loro alleati, in vista del perseguimento dell’obiettivo strategico al punto 1.
Sono obiettivi molto ambiziosi e difficili, ma va ricordato che chi abbia motivazioni trascendenti opera su una prospettiva temporale anche lunghissima. Se il conflitto religioso, etnico e politico è abbastanza profondo, si trovano combattenti disposti a sacrificare la vita sapendo che non vedranno mai il frutto dei loro sacrifici (si pensi, per restare vicino a noi, all’esperienza irlandese).
@roberto buffagni
17 gennaio 2015 a 07:40
Ti ringrazio della risposta.
Gli obiettivi tattici a e b troveranno un aiuto insperato nelle politiche socio economiche della troika.
Perciò non sono d’accordo nel seguire i governi nella marcia parigina. Dispiace che nessuno dei partiti anti euro si sia sottratto alla tonnara del terrorismo.
Perdona l’ultima frase ma è finito il tempo in cui si andava a votare e poi erano gli eletti a occuparsi del bene della nazione…
ad AP
Prego. Un aiuto anche più efficace lo trovano nella “strategia del caos” USA. Gli interventi in Siria e Libia, per destabilizzare le quali sono stati finanziati gli islamisti, partono dagli USA + Francia + Inghilterra.
Quanto alla tonnara, non c’è niente da scusare: quello è.
Segnalo una analisi equilibrata e realistica di Aymeric Chauprade, studioso di geopolitica e parlamentare europeo del FN francese.
http://www.realpolitik.tv/2015/01/la-france-est-en-guerre-par-aymeric-chauprade/?utm_source=feedburner&utm_medium=email&utm_campaign=Feed%3A+realpolitiktv+%28Realpolitik.tv+%3E+la+g%C3%A9opolitique+sur+le+net%29
La lettura di questo articolo, nonostante alcuni spunti interessanti, mi ha parecchio desolato. E mi preoccupa l’idea che una riflessione così intellettualmente ricca sia attraversata nei suoi punti cruciali da argomenti così palesemente viziati. Cercherò di essere breve:
1. Tutto l’articolo oscilla in modo ambiguo tra merito e strategia. A volte sembra che secondo Ventura il problema della tesi illuminista (la chiamerò così per brevità) sia nella sostanza, cioè nel fatto che sia oggettivamente scorretta. A volte sembra invece che sia solo un problema di strategia, cioè che sia pericoloso consentire troppa libertà perché ci sono un bel po’ di uomini armati che si potrebbero arrabbiare per via di certi “atti linguistici”. Ovviamente c’è una differenza enorme tra le due cose, perché nella strategia si scelgono dei vantaggi immediati (evitare disordini) a scapito di maggiori vantaggi nel lungo periodo. Se gli stati a volte, per realismo politico, cedono alla strategia (censura) nonostante ci sia una cosa oggettivamente più giusta da fare (libertà), non vuol dire che nella sostanza sia più giusta la censura. Mi sembra che Ventura non faccia chiarezza tra le due cose e usi il rischio strategico per argomentare la correttezza sostanziale.
2. Anche volendo scegliere una posizione strategica piuttosto che una sostanziale (nei sensi di cui al punto 1), è storicamente scorretto ammantare questa tesi come tesi “di sinistra”. Quello che scrive Ventura potrebbe averlo sottoscritto benissimo Kissinger (per non parlare del pensiero conservatore storico) – riconosciamo il realismo politico per quel che è, quantomeno.
3. Moltissimi importanti progressi dell’umanità sono stati fatti ignorando le caute considerazioni strategiche, realistiche e conservatrici, del tipo di quelle di cui si preoccupa Ventura. I bambini neri non sarebbero stati ammessi nelle scuole degli Stati Uniti del Sud, per paura strategica del disordine pubblico. Gli omosessuali non dovrebbero tenersi per mano in pubblico, su un lungomare di provincia. Le donne che vorrebbero farlo non dovrebbero avere la libertà di legge di togliersi il velo in un paese a maggioranza musulmana conservatrice. E via dicendo.
4. Il punto in cui questa ambiguità tra strategia e sostanza appare più incomprensibile è nella diffusa retorica sul volto del lupo. Chi ha ragione, moralmente, tra il bestemmiatore e chi si offende e reagisce violentemente? Qual è il volto del lupo tra chi offende delle idee (per quanto care a qualcuno siano queste idee) e chi uccide delle persone per questa ragione? Ci dica l’autore quantomeno se ritiene che a suo avviso non c’è un criterio decente per rispondere a questa domanda, se per lui non può comporsi il disaccordo morale tra offendere delle idee e uccidere delle persone e pertanto la sua analisi si muove in un deserto morale in cui l’unica giustificazione per delle azioni è la strategia della ragion di stato. Se così è, come sembra, temo che siamo scivolati persino più a destra di Kissinger. Del resto, in effetti, forse neppure Kissinger avrebbe sognato uno stato che punisce severamente la bestemmia (e che Ventura crede già particolarmente diffuso, ma questo è semplicemente scorretto in fatto)
5. La parte retoricamente più triste del pezzo è quella in cui si cerca di raccontare cos’era Charlie Hebdo “senza peli sulla lingua”. La maggior parte degli strumenti usati in questo paragrafo sono delle fallacie argomentative enormi, imbarazzanti e davvero non capisco come possano resistere a una rilettura onesta. Snocciolo svelto, senza commenti, gli argomenti fallaci che vorrebbero mettere in cattiva luce la rivista non per motivi oggettivi, ma per questioni totalmente irrilevanti: che aveva pochi lettori, che pubblicava quel che pubblicava per creare clamore, che l’ex direttore stava simpatico a Sarkozy, che la compagna del nuovo direttore aveva parole non carine per lui, che stavano antipatici a Daniel Cohn-Bendit. Davvero imbarazzante.
6. Infine, la tesi centrale è che la koinè di una società multiculturale dovrebbe essere la sospensione di ogni giudizio. Qui non c’è lo spazio chiaramente per dibattere nel merito questa posizione, che per me è l’incredibile abdicazione a ogni giudizio morale e politico. L’individuo ideale di Ventura, moralmente inerme e giustificazionista, prende semplicemente atto delle idee che girano intorno e si astiene da ogni giudizio che possa ferire la sensibilità di chiunque. Domani non potremo scherzare sugli alieni di Scientology, o – se un numero sufficiente di persone si convincesse che anche il volto di Gesù non debba essere rappresentato – dovremmo coprire la Cappella Sistina e distruggere tutta l’arte religiosa degli ultimi 2000 anni. Del resto, c’è gente che si offenderebbe, no? Gente pericolosa. Spero che mio figlio non si ritrovi a vivere nel mondo di Ventura.
Le osservazioni di Roberto sono pertinenti e non ho necessariamente molto da aggiungere in mia difesa. Non sono sicuro che sia corretto parlare di visione conservatrice: dal mio punto di vista, il problema del progresso sono i limiti materiali al suo enforcement. La distinzione tra “merito e strategia” non c’è perché il punto di vista, come ha intuito Roberto, è quello secondo cui l’unico merito è la strategia, essendo venute a mancare le condizioni (diciamo economiche) perché si possa ragionevolmente pensare di progettare una società che corrisponda alle nostre ambiziose aspirazioni. Riguardo alla speranza che suo figlio “non si ritrovi a vivere nel mondo di Ventura”, beh, accidenti, la condivido. E la condividono in tanti, se crediamo alla demografia.
Però, una cosa è dire che tu reputi giusta la libertà di bestemmia ma credi che non ci siano le condizioni materiali di enforcement (una sorta di pessimismo strategico a fronte di un accordo sul merito), altra cosa è dire che tu non credi ci sia un criterio valido per me, te, i disegnatori di Charlie e i terroristi per metterci d’accordo che la libertà di bestemmia è moralmente migliore della censura preventiva. Quale delle due è la tua posizione? Perché dal post sembra la seconda, ma dalla tua risposta al mio commento suona più come la prima. Mi sembrano cose molto diverse.
Giusto, morale, è ciò che, in un dato contesto, permette la convivenza e impedisce la società di degnerare nella guerra civile.
Mi permetto di fare un’osservazione a @Roberto.
Trovo in verità molte delle tue osservazioni (assai analitiche, circostanziate) interessanti e fondate, da meditare.
Una cosa però a me continua a non tornare (continua perché non sei il primo a usare questo argomento): l’accusa a discorsi come quelli di Ventura di prefigurare un vulnus profondo allo stato di diritto nella sua TOTALITA’: un adattamento un po’ vigliacco alla realtà, la rinuncia fin troppo realistica a principi ideali imprescindibili, l’abdicazione alla difesa della ragione e dei diritti di fronte all’arroganza violenta del terrorismo. Forse un po’ troppo.
Osservo che la generalizzazione di un argomento dell’avversario oltre la sua validità puntuale è uno dei principali “stratagemmi” per “ottenere ragione” illustrati da Schopenauer. Ampliamento: “condurre l’affermazione dell’avversario oltre i suoi limiti naturali, interpretarla nel modo più generico possibile, prenderla nel senso più ampio possibile ed esagerarla”. Insomma, Ventura parla di censurare la blasfemia; i contraddittori vedono in questo l’affermazione di un principio generale quale “d’ora in poi OGNI COSA sia ritenuta offensiva per qualcuno, sarà censurata”: dalle gonne troppo corte, alla presenza dei bambini neri nelle scuole del Sud degli Stati Uniti, al tenersi per mano degli omosessuali sul lungomare.
Credo che nessuno voglia mettere in discussione lo stato di diritto o calare le braghe di fronte alla violenza fino al punto di negare noi stessi, la nostra civilità giuridica, la nostra libertà: vestirmi come mi pare o baciare chi mi pare non “aggredisce” mica l’altro (e se qualcuno si sente aggredito, la nostra civilità giuridica collettiva pesa di più della sua singolare sensibilità); se io irrido la religione dell’altro o la bestemmio, la mia “libertà” ha tutta un’altra invasività. Ha senso o no?
Daniele non credo di aver generalizzato il pensiero dell’autore. È lui stesso a confermarlo, prima in modo meno chiaro e adesso in modo cristallino in risposta a una domanda precisa. Ventura dice che non esiste la cosa più giusta se non, di volta in volta, dipendente dal contesto, ciò che mantiene la quiete. Insomma, se il KKK fosse stato un po’ più aggressivo, per Ventura sarebbe stato giusto e morale – lo dice lui – mantenere la segregazione razziale in Mississippi. Si è capito che io respingo radicalmente quest’idea relativista e inerme dell’etica pubblica. Ma credo che anche nella prospettiva di cruda e nichilistica realpolitik di Ventura, questo approccio sia sterile e distruttivo. Un principio morale che vale solo finché qualcuno di violento e agguerrito non lo contesti è di fatto un invito agli oppositori ad armarsi e attrezzarsi il minimo sufficiente per ottenere la giusta ritirata della società. Insomma, per Ventura la convivenza è un luogo in cui le regole sono dettate da chi è pronto a usare la violenza necessaria per minacciare il disordine pubblico in caso di disaccordo. Se questo non è abdicare alla ragione e a qualsiasi valore con pretesa di universalità, allora sono confuso.
A me pare che le questioni sollevate dalla strage parigina siano:
1. Funziona, è vivibile il multiculturalismo? Qual è il grado di diversità tollerabile fra le culture che convivono? Qual è la soglia di tollerabilità della consistenza numerica delle minoranze? Quale il rapporto tollerabile tra le diverse dinamiche demografie ?
2. Il multiculturalismo e la democrazia rappresentativa sono compatibili o no? Che accade se in una società multiculturale si formano partiti su base etnica e/o religiosa? (vedere le esperienze ad es. africane, v. anche Israele).
3. A seconda che si risponda di sì o di no alle due domande precedenti, quali provvedimenti di breve e lungo periodo vanno presi? (risposte variabili da “va bene così” a “espelliamoli tutti”).
La questione “libertà di espressione totale sì/no” mi sembra mal posta. La libertà di espressione totale non esiste, neanche nelle nostre società relativiste, che infatti sanzionano pesantemente la pura e semplice espressione di tesi storiche (leggi antinegazionismo), valutazioni etiche (leggi antiomofobia), etc.
Qualsiasi società sanziona, più o meno severamente, le opinioni, conforme ai suoi principi legittimanti e ai valori sostenuti dalle forze politicamente e culturalmente egemoni.
Roberto, la tua sintesi del mio pensiero non è esatta. Il KKK, visto che lo citi, lo si affronta secondo i modi e i tempi più adatti per il contesto: il gesto di Rosa Parks ha senso nel 1955 ma non ne avrebbe avuto nel 1861; nel 1861 al massimo ci si arma e si parte per la guerra contro il Sud. Se Rosa Parks avesse fatto quello che ha fatto un secolo prima, potremmo legittimamente considerare il suo comportamento come un errore.
a Roberto.
La invito a rilevare che l’esempio da lei proposto della segregazione razziale negli USA non è pertinente.
Anzitutto, la razza non è una religione e una cultura, è una determinazione naturale: si può benissimo essere neri e cristiani o buddisti o atei, neri e democratici o monarchici , neri e liberali o socialdemocratici, etc.: e infatti, il principale leader dell’integrazione negli USA era un pastore protestante.
Inoltre, il movimento per i diritti civili chiedeva soltanto di applicare anche ai neri tutte le conseguenze pratiche dei diritti del cittadino statunitense già sanciti dalla Costituzione e dalle leggi vigenti: di rendere insomma operanti i principi e i valori politicamente e culturalmente egemoni negli USA, rispetto ai quali la minoranza dissenziente era una parte dei cittadini USA degli Stati meridionali. In buona sostanza, Martin Luther King chiedeva che i bianchi permettessero ai neri di diventare *come loro*, colore della pelle a parte: rivendicava il diritto dei neri ad integrarsi e *assimilarsi*.
Poi, come è noto, le cose non sono andate come sperava MLK. Ma va comunque rilevato che gli islamici di qualunque tendenza o linea culturale e politica NON chiedono integrazione e assimilazione, e anzi le avversano, opponendovisi con determinazione, pacifica o violenta.
La invito anche a riflettere sul fatto che quando il movimento per i diritti civili dei neri USA , per complesse dinamiche culturali e politiche, si è radicalizzato, le minoranze più radicali hanno scelto di convertirsi all’Islam.
Le ragioni sono certo molte, ma in primo piano mi sembra ci sia questa: che convertendosi all’Islam, affermavano esplicitamente la loro volontà di *secessione* dalla cultura dominante, capitalistica, individualista, liberale e cristiana (o più correttamente, deista).
Secessione e opposizione radicali nel costume e nella cultura, ma anche nella politica, perchè l’Islam è *sempre* e *direttamente* politico, visto che non conosce distinzione fra Papa e Imperatore. Uno studioso francese dell’Islam, Maxime Rodinson, scherzando ma non poi tanto diceva che l’Islam è “il comunismo con Dio”. Così lo intendevano, infatti, le Pantere Nere.
Un errore strategico, forse – cioè una mossa poco efficace. Ma per poter anche solo parlare di strategia (cioè di mezzi), bisogna avere un criterio per valutare la giustizia degli obiettivi (cioè dei fini). Per te è giusto o ingiusto che Rosa Parks (o la sua trisavola nel 1861) dovesse cedere il posto a un bianco sul bus (o su una diligenza tirata da cavalli, suppongo)? Se tu affermi, come hai fatto, che questo criterio non c’è, deduco che Rosa Parks e il capo del locale KKK siano per te moralmente equivalenti – o meglio, che siano tanto moralmente migliori quanto strategicamente più attrezzati. Io condivido le tue osservazioni sulla necessità di adeguato enforcement – ma enforcement di cosa? Le ambizioni di progresso di cui tu parli sono davvero progresso? Se sì, come io credo, allora abbiamo un criterio valido per Rosa Parks e il KKK, per i disegnatori di Charlie e per gli imam, che stabilisce se un obiettivo sia giusto o ingiusto. A quel punto, dovremo sì discutere con grande attenzione delle strategie e dei mezzi, ma consapevoli del fatto che la ragione sta più da una parte che dall’altra, nel 1861 come nel 1955 o nel 2015.
a Roberto Buffagni: il mio esempio sul KKK riguardava semplicemente la tesi di Raffaele Ventura per cui non esiste giusto e sbagliato, ma è giusto solo ciò che evita il disordine pubblico. Limitatamente a questo mi sembra pertinente.
@RAV
In questo probabilmente lei ha ragione, tuttavia credo al di là dei necessari aggiornamenti nel corso del suo sviluppo, una società che voglia restare tale -e non trasformarsi in una pura e semplice somma di individui- abbia anche la necessità di sapere quali valori (o regole, per usare una parola meno pomposa) ritenga indefettibili, non negoziabili.
L’impressione generale che ho in questo momento è che l’Europa non lo sappia più e che la reazione di massa (lasciamo stare per un attimo politica e giornalismo, per i quali entrano in gioco altre dinamiche) all’orribile vicenda di Charlie Hebdo abbia soprattutto voluto esprimere la necessità di fissare un punto.
Ammesso che il punto non sia la libertà di bestemmiare gli dei degli altri, forse ce lo potremmo scegliere in un sonoro e fattivo NO all’esercizio della giustizia da parte dei tribunali religiosi e chiudere i tribunali islamici d’Inghilterra; o magari in un sonoro e fattivo NO alla disuguaglianza legale (vedi sopra) e di fatto tra uomini e donne.
L’assoluta orizzontalità dei valori che pare invece dominare in questo momento la nostra cultura produce in me, come credo in tanti altri, la sensazione di un costante e inarrestabile slittamento e -soprattutto, ed è la cosa più grave- che la disponibilità ad una infinita negoziazione nasca anche dal vantaggio economico di alcuni, nonchè dall’indicibile consapevolezza di troppi che a pagarne il prezzo saremo soprattutto noi donne.
a Michela.
D’accordo con lei. “L’assoluta orizzontalità dei valori” è vivibile solo se c’è omogeneità culturale ed etica. Quando non c’è quella, subentrano i rapporti di forza politici, che si esprimano pacificamente o no. Il problema è l’omogeneità culturale ed etica, che dove vi siano forti minoranze non integrate e non integrabili non c’è e non ci può essere. A mio modesto avviso, come minimo si dovrebbe ammettere unanimemente l’esistenza del problema e non negarla. Che non sia facile risolverlo, non c’è dubbio, ma almeno diagnosticarlo e non rimuoverlo perchè impresentabile.
a Roberto
Definire rigorosamente che cosa sia giusto o sbagliato, che cosa male o bene, non è per niente facile e importa una analisi filosofica nella quale i postulati autoevidenti sono ben pochi. Un esempio: io, che condivido con lei la valutazione positiva del sistema politico democratico rappresentativo e della libertà di espressione, etc., penso che l’aborto sia male e che il matrimonio omosessuale sia sbagliato. Lei?
Ai fini pratici, quel che è giusto o sbagliato, quel che è bene o male, va comunque sempre riferito all’etica di un gruppo sociale o di una comunità: all’interno della quale, va da sè, possono levarsi e in effetti sempre si levano voci contrastanti, che cercano di conquistare l’egemonia. Bisogna vedere fino a che livello giunge il conflitto.
Roberto Buffagni, sono d’accordo, ovviamente, che distinguere bene e male non sia facile, ma sono profondamente in disaccordo con il relativismo del “gruppo sociale”, che porta alle conseguenze che ho provato a esemplificare. Credo però che non sia il luogo per un discorso così ampio. Dico solo che, se si rifiuta la prospettiva relativistica per cui tutte le opinioni sono uguali e tutti i comportamenti sono uguali, dipende solo quale si afferma in un dato contesto storico, geografico e culturale, allora non si può accettare la tutela speciale delle religioni che invoca Ventura auspicando un divieto di bestemmia.
“”Non nominare il nome di Dio invano”. Non nominare il tuo Dio, se ce l’hai, e soprattutto non nominare quello degli altri”
interpretazione molto forzata, di un comandamento che viene dopo il primo (e quindi più importante) che nell’originale ebraico afferma con forza l’unicità di dio e l’idolatria (e quindi la vendetta divina per chi la segue) di chi ne crede altri. Il nome degli altri dei non va nominato perchè è idolatria affermare che siano dei, non perchè vanno rispettati.
Mi scuso per i mesi di ritardo con cui scopro questo interessantissimo post e relativa discussione.
Molto di quello che avrei voluto dire è già stato detto e, alla luce di quello che è recentemente accaduto, forse si poteva fare molto di più dal post Hebdo ad oggi.
Un punto però mi preme sottolineare.
Daniele LoVetere scrive
“lei e suo figlio DOVETE avere la sufficiente maturità intellettuale, consapevolezza culturale, padronanza
emotiva, … per capire quello che capisco io” non sono un professore liberale e non paternalista,
ma un pessimo educatore
La mia idea è che ci stiamo dimenticano il concetto, banale, di severità.
È chiaro che non si può andare da un ragazzino delle medie e chiedergli di risolvere integrali a mente, ma se tutti gli altri leggono e scrivono, mi aspetto da te lo stesso.
Se tutti intorno a te vivono in un certo modo, capiscono certe cose, ne accettano o rifiutano altre, all’interno di un range piuttosto vasto di possibilità, che include anche il non integrarsi con il circostante, perché legittimo, ma alla base deve esserci il riconoscimento del fatto che non capire qualcosa non è colpa di chi la capisce.
Il compito dell’insegnante è anche quello di premiare chi si impegna più di chi non lo fa, a prescindere dai risultati che ottiene. Il risultato ha un suo valore, ma l’impegno profuso per raggiungerlo anche.
C’è chi si impegna ed ottiene risultati, chi si impegna e non ne ottiene (etc etc, sono quattro combinazioni) ma di base non si può accettare passivamente l’idea che chi non si impegna almeno a cercare di capire quello che capisco io, facendo lo stesso sforzo che faccio io per capire quali sono le ragioni che rendono all’altro la comprensione difficoltosa, sia anche graziato dalla società, in quanto “non ha la sufficiente maturità”.
Insomma dovrei essere autorizzato a dirgli “beh, prima di condannare questo o quello, almeno imparalo, o, come minimo, dimostrami con i fatti che ci stai provando”.
Altrimenti gli sto semplicemente insegnando ad essere lassista.