di Federico Francucci
[Qualche settimana fa è uscita L’opera poetica di Emilio Villa, un volume di quasi ottocento pagine curato da Cecilia Bello Minciacchi per la collana «fuoriformato» dell’editore L’orma, diretta da Andrea Cortellessa. «Le parole e le cose» ha dedicato un post a questa pubblicazione importantissima, un magnifico regalo per chi ama Villa, e per chi non lo conosce l’occasione – infine – di accostarsi al compiuto corpus poetico di una delle voci più singolari, e meno note, del nostro panorama novecentesco. La fattura del volume, solido e di discreta raffinata eleganza, e l’eccellente livello della curatela, mostrano nuovamente cosa può essere un libro, come oggetto e come forma, dopo i tanti obbrobri editoriali e critici che ci sono passati per le mani – spesso materialmente sfaldandosi – negli ultimi anni. Sul valore dei testi ognuno potrà giudicare secondo gusto e coscienza, ora che finalmente sono disponibili. Per celebrare l’uscita di questo volume, e soprattutto per propiziare una maggiore circolazione del nome e di conseguenza dell’opera di Emilio Villa, ripropongo con alcune minime variazioni, ringraziando la redazione di «Le parole e le cose» per l’ospitalità, un pezzo scritto per una sezione monografica villiana della rivista «Atelier». Lo scritto risale al 2007, quando l’edizione delle poesie di Villa che oggi tutti possiamo portarci a casa si poteva soltanto sognare (Federico Francucci)]
Scegliersi l’eredità
C’è ancora tanto da lavorare su Emilio Villa, e non parlo solo di lavoro di concetto. L’incontro con quanto di suo si riesce oggi a leggere (che per fortuna è molto di più di dieci anni fa, ma rappresenta solo una parte della sua produzione) indurrebbe anche la mente meno sistematica alla richiesta di leggere ancora, di leggere tutto; il che attualmente, e non è dato sapere per quanto tempo, risulta impossibile. Lamentare le scandalose politiche della “grande” editoria italiana è legittimo; lo è ancora di più fare ogni sforzo per rendere almeno potenzialmente pubbliche – spesso per la prima volta – tante opere villiane, e corredarle di ipotesi e spiegazioni. Ma gli ostacoli che ci si trova così ad affrontare hanno carattere pratico, e se sono più eloquenti di mille discorsi per mostrare una condizione socioculturale, peraltro sotto gli occhi di tutti, rischiano di coprire altri problemi, che operano su un piano diverso e forse decisivo. Il fondamentale contributo storiografico e critico offerto di recente da Aldo Tagliaferri con la sua biografia intellettuale (Il clandestino. Vita e opere di Emilio Villa, Roma, Derive/Approdi, 2004) da una parte si presenta come supporto per tutte le ricostruzioni da intraprendere, a partire proprio dalla restituzione del corpus testuale, e dall’altra assolve a un compito ancora più importante chiarendo che prima di affrettarsi all’allestimento di un discorso “coerente” e unitario su Villa, come se avessimo già uno spazio riquadrato da riempire, come se sapessimo già bene cosa Villa è stato e cosa può ancora essere, occorre capire quali sono le difficoltà, anche le provocazioni, che l’opera di Villa, nella sua graduale riemersione dalla dimenticanza, pone; i problemi a cui lo stesso Villa rispondeva con l’ideazione della sua scrittura; infine il tenore delle sue soluzioni, poi necessariamente da misurare con le aspettative e le esigenze dei lettori “di dopo”, cioè noi.
È noto che a partire dagli anni Cinquanta, e poi sempre di più nei due decenni successivi, gli scritti villiani sono permeati di una essenziale segretezza, di una cripticità che partecipa del sacro e del numinoso; essi mostrano, caso tutt’altro che raro nel panorama novecentesco, la loro incomprensibilità, rivelando la natura paradossale di oggetti che, pur inseriti nel circuito degli scambi, si corazzano con un’autoreferenza che vieta di aggregarli ad alcunché di altro. Anzi va detto che Villa è stato di un’incredibile radicalità nel seguire questa via, dato che ha decurtato il processo appena descritto del suo resto per così dire comunicativo, pubblicando le sue opere alla macchia, usando supporti diversi e più aleatori della carta, e comunque facendo in modo che solo pochissimi, davvero, potessero conoscerle (talvolta addirittura distruggendole: «sono l’unico che ha buttato via il meglio che ha fatto»). Quasi non serve aggiungere, per contrasto, che questa circolazione clandestina e fantasmatica, e la sua carica nichilista, è stata riassorbita dal mercato con una delle sue tante astuzie, trasformando gli oggetti poetici di Villa in costosissimi articoli da collezione: la consultazione di un motore di ricerca di rarità bibliografiche è da questo rispetto assai istruttiva. La seconda fase del percorso villiano ha catturato, almeno fino ad ora, l’attenzione di lettori e interpreti assai più dell’altra, un po’ per il suo carattere di “miniera aperta” da cui cavare gemme sempre nuove, un po’ per lo straordinario magnetismo che l’insieme di lingue, temi e stilemi di questi componimenti inevitabilmente suscita. Non si profila, in tal modo, il rischio di appiattire Villa sul suo (meraviglioso) periodo post-bellico, guardando alle prove precedenti quasi soltanto come a una premessa, e applicando all’intera parabola un semplicistico paradigma di sviluppo organico? e lo studio della produzione dal ’50 in poi, visto l’estremo grado di complicazione – quasi isolazionismo – che la segna e la conseguente necessità di una strumentazione tecnico-concettuale ben salda per scalfirne il guscio, inattaccabile ai più, non rischia da parte sua di ridursi a una di quelle pratiche, intraprese dai chierici per mantenere una briciola di autorità simbolica, di cui ci ha parlato Bourdieu? Ma, proprio tenendo a modello l’attitudine critica degli studiosi appena citati, si è cercato [nei contributi del fascicolo di «Atelier», ndr] di evitare ogni compiacimento e nostalgia di elitarie enclavi (che fraintenderebbero la minorità di quest’esperienza mutandola in rivendicazione di un’identità separata), e di dar vita a un tentativo di comprensione, a una messa in giudizio anche serrata, con diversi mezzi e saperi, di un’opera e di un periodo considerati da tutti straordinari, e perciò straordinariamente convulsi e controversi. La questione, naturalmente, verte sulla forsennata ricerca delle origini che ossessiona la scrittura di Villa nel dopoguerra, sul fondo sacro o religioso che tale ricerca attinge, sul ruolo che il poeta pensa per sé quando sceglie i panni dello ierofante; sugli elementi insomma che hanno giocato un ruolo così importante nella realizzazione di tante cose magnifiche, ma allo stesso tempo possono fermarne le spinte in un continuo e sterile ruminio. È come sempre necessaria un’opera di distinzione; si tratta di capire meglio come funziona Villa, cosa se ne può prendere, cosa si può riattivare: trovare punti di entrata e di uscita, o stabilire in che modalità sia produttivo addentrarsi in questo labirinto. Tutto ciò in vista, prima di tutto, di una conoscenza finalmente un po’ più diffusa, di un allargamento del numero dei lettori. Ma c’è anche da fare un discorso, non meno importante, sulla messa a frutto di Villa da parte della poesia italiana a lui successiva, nella quale la sua luce pare diramarsi in molteplici direzioni. Hanno espresso ammirazione per Villa alcuni dei poeti più interessanti (secondo me) della nostra scena attuale, e diversissimi tra loro, come Lello Voce, Marco Giovenale e Massimo Sannelli; e non sembra senza analogie con lo spirito villiano (o gli spiriti), la proposta di una poesia vocale, corporale, che lavori su racconti e simboli antichi e prenda accenti pitici, giuntaci da una linea a sua volta molto frastagliata della quale menziono soltanto due esponenti di spicco come Elisa Biagini e Laura Pugno. Quanto segue è il mio tentativo di contribuire a delineare i bordi di un problema, aggiungendo alcune glosse a quello che in merito hanno già scritto altri.
Ripetere l’atto dell’inizio
Il percorso verso le origini, del linguaggio, dell’uomo e addirittura dell’intera creazione, imboccato da Villa si sovrappone costantemente, e anzi sembra ne sia attivato, a un moto di ripulsa, di negazione in blocco del mondo per come il poeta se lo trova intorno: amministrato, tecnicizzato, sordo a ogni ricerca di autenticità. Nel grandioso progetto villiano questa sottrazione, e retrocessione alle radici, assume anche un potente valore escatologico, perché vi si gioca la possibilità di riportare alla luce un tempo diverso, che possa far deflagrare l’inerzia del tempo secolarizzato e porti addirittura idealmente a una specie di fine del mondo nelle fattezze in cui lo sperimentiamo (nunc videmus… tunc autem…). È stato ampiamente fatto notare che gli sforzi di Villa prendono ben presto la forma di una gnosi, e della gnosi si conosce il valore di totale negazione dell’ordine e della legge mondani, in qualunque ambito si manifestino incluso quello religioso: così ad esempio la interpretava Georges Bataille in un articolo del 1930 (Le bas matérialisme et la Gnose) uscito su «Documents». I diversi sintomi di tale atteggiamento gnostico – di fuga dal mondo falso e ricerca di un mondo diverso – si leggono chiaramente tanto nel lavoro di Villa sui testi religiosi, col suo sforzo di rendere di nuovo praticabili i ponti tra giudaismo e culti più antichi messi a tacere dalla canonizzazione della Bibbia (o di aprirne di nuovi), quanto nella sua infaticabile attività di critico d’arte, con le tremende bordate esplose contro grandi figure del panorama novecentesco (solo per fare due esempi: Picasso nella sua fase “mitica” e i surrealisti), accusate di attitudine turistica nei confronti dell’Antico, del primitivo, da cui avrebbero pescato come dal banco di un robivecchi, senza curarsi di ritrovare in quei materiali almeno un refolo del soffio che li animava. E altrettanto si leggono, invertendo il segno, nel fiancheggiamento (o trazione o supporto visionario: se c’è un libro in cui il monito di Deleuze e Guattari, «n’interprétez jamais!», risulta attuato, questo è certo Attributi dell’arte odierna) di un’arte sempre più avviata verso la liquidazione del figurativo e la conquista di un gesto astratto, assoluto, gesto concettuale e a-soggettivo in cui Villa vedeva la ripetizione rituale dell’esordio di tutto, del Fiat; oppure la traccia del sollevamento dell’anima, per tappe, al di là del carcere terreno, come quando definisce genialmente «stanze» i quadrati di Rothko, forse pensando alle teorie della cabbala gnostica (i palazzi che l’anima attraversa nella sua ascesa). Ma così non si è ancora detto niente, se non altro perché è facile verificare che, nell’estraneità e solitudine del risvegliato nel deserto del mondo, Villa si trova in numerosa compagnia. Restando su livelli alti: Cioran e il suo funesto demiurgo (Tagliaferri ha sottolineato le analogie), Simone Weil e la decreatio… il grande storico dei miti e delle religioni Ian Culianu ha fatto l’elenco dei dualismi gnostici novecenteschi, ed è un elenco lungo.
Se anche non si vuole seguire l’opinione di Voegelin, secondo il quale tutta l’età moderna andrebbe definita età della gnosi, bisognerà almeno ricordare che secondo Blumenberg l’intera modernità si è legittimata nel corso dei secoli attraverso due successivi superamenti dello gnosticismo (che qui vuol dire, sintetizzando al massimo, impossibilità di avere fiducia nel mondo), e che se il primo, nella ricostruzione del filosofo tedesco, è fallito, potrebbe darsi che la tenuta del secondo si sia incrinata, magari in seguito a qualche profondo mutamento su scala planetaria. La dissoluzione percettiva provocata dalla virata elettrica ed elettronica della civiltà, lanciata a velocità folle dal capitalismo padrone del campo («tutte le cose solide svaniscono nell’aria…»), ha fatto sì che proprio l’affievolimento del senso del mondo e il sentimento di una “realtà falsa” che, simultaneamente, mostra i propri guasti e si rivela chiusa ad ogni evasione diventassero tra le più forti emozioni culturali del secondo Novecento; e si vede chiaramente come la selva delle dottrine gnostiche si prestasse bene, anche per l’eclettismo che le dà contorni “flessibili”, a trasformare questa percezione confusa in racconto (Gabriele Frasca ha tracciato la genealogia di questi fenomeni in due libri tra i più importanti usciti in Italia negli ultimi decenni, La scimmia di Dio – eh, sì… – e La lettera che muore). Con l’opportunità, anche, di orchestrare tali racconti, debitamente rimontati e “preparati” (come i pianoforti di Cage), e far loro suonare un’altra musica, non nel mondo contro il mondo, ma nel mondo per capire davvero il mondo, e rimanerci. È il caso, in Italia purtroppo ancora non sufficientemente sondato, del mostruoso romanzo The Recognitions (Le perizie), scritto da William Gaddis negli anni Cinquanta (e raccomandato a chi un po’ troppo unilateralmente si scaglia contro il postmodernismo tutto, che avrebbe rinunciato a fare i conti con la realtà). È importantissimo insomma, visto che ogni via gnostica si basa su un’esperienza personale ed è quindi diversa da tutte le altre, capire come si declina concretamente l’acosmismo villiano. Si può dire che la sua sia una gnosi senza salvezza e, in un certo senso, fin dall’inizio consapevole del limite su cui andrà a infrangersi; e forse è questa capacità di mutare direzione che, evitandole di sprofondare senza ritorno in una trascurabile frenesia d’onnipotenza, le dà la sua forza e la avvicina ad alcune sperimentazioni di pensiero tra le più alte del secolo. Cerco di spiegarmi, prendendo a campione la serie di poesie latine intitolate Verboracula, forse iniziate da Villa già negli anni Trenta ma messe a punto all’inizio degli anni Ottanta. In esse si presentano insistentemente le figure di un tragitto e di una destinazione a cui il movimento dovrebbe condurre; e nelle intenzioni del poeta è la parola oracolare, indifferente al regime referenziale e intimamente efficace o performativa, a fare quello che dice, a valere come proprio spazio di attuazione. Il percorso è quello che abbandona la Machina (la macchina del mondo, il «mechanicum dolum»: del quale, diceva Villa nel 1984, «non bisogna essere partecipi»), l’approdo è «locus […] quidam ultraloquus / ultralocus», un oltreluogo ad di là del discorso e del logos, da cui la parola trae la sua forza ma che può solo lambire, indicare con cenni oscuri. Si tratta di «neuter […] locus, / uter nec uter, utrum neque / utrum / ultra nec ultra, aliud nec aliud»; luogo impossibile solo alluso dalle attribuzioni contraddittorie, nemmeno coincidenza degli opposti, ma irriferibile luogo dell’origine, integrità del pleroma.
La parola che porta a perdersi nelle vicinanze di questo posto senza posto non avrebbe potuto catturarne l’energia, o l’emanazione, se in esso non si fosse aperto un «vulnus», uno squarcio, per farla passare; e anzi la stessa parola è lo squarcio a partire da cui, nella totale chiusura che è anche totale apertura, completa assenza di forme, qualcosa comincia a diventare pensabile. Il taglio infatti è «vulnus neuroelectricum, electromagneticum», attraversando il quale si addensa una «asperrima dianoesis», una prima traccia di pensiero ancora quasi completamente caotica, di cui la polivalenza e l’equivocità della parola oracolare sono già uno sviluppo avanzato. La ferita è piano di organizzazione, schermo, cervello. Un processo molto simile a questo si trova suggerito nell’Arte dell’uomo primordiale, scritto databile alla metà degli anni Sessanta, e relativamente meno impervio dei Verboracula. Anche qui l’accenno esoterico mi sembra evidente; l’uomo è non primitivo ma primordiale, come l’Adamo Cadmo, l’uomo prima della caduta nel mondo, il perfetto insieme delle dieci emanazioni della vuota e pura potenza del divino. E in effetti Villa propone a tratti un’immagine dell’uomo ancora completamente integrato alla Terra, fluido tra fluidi. Riporto solo uno dei molti passi che si potrebbero citare: «l’uomo primordiale non ha orizzonte. È tutto nel tutto, uomo nell’uomo, nutrimento nel nutrimento, flusso nel flusso, divino nel divino. Non c’è metamorfosi, poiché non c’è forma. C’è solo la sostanza omogenea, pesante e simbolica, di ciò che c’è: del questo e del quello, del sé e dell’altro, come tutto. […] L’uomo è solo presente a se medesimo». Come il locus di Verboracula, luogo di tutti i luoghi, non era un luogo, così ora l’uomo interamente presente a se stesso non è un uomo, non si differenzia in nulla dal gigantesco corpo della Terra. Ma Villa insiste sull’equivalenza dell’arte primordiale con il sacrificio, cioè di nuovo con l’apertura di una ferita. La ferita, simbolizzata, sarebbe il primo segno mai tracciato, la prima forma d’arte, e se viene inferta, e poi ritualizzata, per mantenere attiva la circolazione selvaggia dei flussi, per nutrire la molecola gigante e l’“uomo” ancora non separato, nondimeno in essa «l’uomo si dichiara, […] scolpito in schegge dell’omogeneo caos; un semplice, rude inizio: ma che cosa farà l’uomo umano, nei suoi anni a venire, se non ricalcare ripetere rivivere, come per un congenito afflato, mitico e rituale, l’atto del suo inizio?». Bisogna seguire il filo del ragionamento di Villa ancora in un passaggio, a mio parere fondamentale, dato che vi si comprende come questa scalata al muro del tempo fallisca sempre, perché la salita coincide in realtà con la discesa, e il tentativo di reinstallarsi nell’«univoco ubivoco universo», «omogeneo senza trame», finisce senza eccezioni per riportare nel mondo desolato che si cercava di abbandonare. Dove la «piaga gloriosa» inflitta al mondo diventa simbolo, lì si ha «la prima esperienza integrale e integrativa» dell’uomo, l’inaugurazione dell’umanità si potrebbe dire; ma è ancora lì che ha inizio «l’evanescente strada verso l’uomo che noi siamo, e l’arte sembra coincidere, come stimolo o come risultanza, con questo avvio, questa iniziativa di una fecondità periodica inaudita. Tra le conseguenze potremo forse inserire il chiarirsi della coscienza come attività depressiva e alternante, come negazione alienante, come frana che rompe e separa la intransitiva omogeneità» (esperimento: rendete meno cruento questo immaginario, trasformate la ferita in un’apertura non sanguinante, forse nella radura di un bosco dove i sentieri dei boscaioli portano e non portano, forse in quel rischiararsi, quel diradarsi in cui il mondo può mondeggiare, e nel mondo ogni cosa, ogni vera cosa, una brocca per esempio, può salvaguardare l’apertura in cui prende posto, mantenendo l’armonia dei Quattro, terra cielo divini mortali: otterrete lo stile arcaico, fitto di inaudite forzature, di un filosofo tedesco, instancabile cacciatore di etimologie, in dialogo con la Grecia e con l’Oriente, che qualcuno ha definito sciamano, altri sacerdote. Anche Villa, del resto, è stato chiamato, o ha fatto in modo che lo si chiamasse, così). L’origine dell’uomo coincide con l’inizio della sua decadenza; l’arte primordiale è quella scintilla che, nel flusso della germinazione universale, per così dire si mette di traverso per un attimo; cioè non si separa e non si oppone (ancora), ma tramite questo piccolo scarto acquista la capacità di riprodurre ritualmente il meccanismo di scorrimento della vita, potenziandola vieppiù; nello stesso tempo però, per quello stesso scarto, in tale scintilla si preannuncia già la cenere della coscienza, lo smottamento dell’interiorità, la negazione che volatilizza, inglobandolo, il supposto datum. Il processo non è senza analogie con quello descritto, in termini meno disforici e con un diverso modello geometrico, da Peter Sloterdijk nel grande saggio La domesticazione dell’essere; l’arte primordiale contribuirebbe a formare la prima “bolla”, la prima interiorità protetta in cui l’umanità può evolvere; e tale bolla sarebbe la heideggeriana Lichtung trasferita su, o ricondotta a, un piano antropologico fondamentale.
Tornando a Villa: se ogni fuga, per quanto simbolica, verso un altro mondo non può che cacciare più giù in questo, e se il mistagogo vede infine ridotte all’impotenza le sue pratiche, senza potere però staccarsene, c’è un motivo in più per capire l’atteggiamento contrastante del poeta nei confronti della sua opera, la vera altalena ciclotimica fatta di entusiasmo, delusione, disperazione, poi ancora fervore, nuovi stimoli e nuove sperimentazioni. Si conoscono l’intransigenza e la rabbia sempre manifestate dal poeta nei confronti di chi abbracciava idee diverse dalle sue; non sarà troppo azzadato dire che derivassero in parte dalla coscienza di una fragilità di base anche delle proprie operazioni. Tagliaferri ha detto benissimo che la scrittura funzionava per Villa insieme come depressivo e antidepressivo; continuare ad assumerne (fallire ancora, beckettianamente) era per lui l’unico modo per non morirne. La pretesa di Villa era altissima: rendere presente con le parole, le sue, una vicenda cosmica che comprendeva tutto. In essa il suo ruolo era, se non attivo, almeno medio: parlare le parole dell’origine, che lo parlavano. Ma è chiaro che lo strano dominio esercitato sulla sua attività, e indirettamente sui fruitori (diverso dalla funzione autoriale, ma in un certo senso ancora più rigido) crea dei problemi a questi ultimi. Chi accetterebbe per sé il ruolo di una breve frase in una storia sempre già scritta e sempre uguale a sé stessa, che passa per la bocca di un medium in trance?
Dedicata alla vita
«Il problema potrebbe riguardare ora l’esistenza di colui che crede nel mondo, certo non proprio all’esistenza del mondo, ma alle sue possibilità […] per far nascere nuovi modi di esistenza […]. È possibile che credere in questo mondo, in questa vita, sia diventato il nostro compito più difficile. […] Oggi abbiamo così tante ragioni di non credere al mondo degli uomini» (Deleuze-Guattari). E non bisognerà guardarsi dal diluvio di racconti canzoni fumettoni sul registro della diffidenza e del rifiuto del mondo, caduto nei nostri anni? Una gnosi pop sempre più mescidata, e scolorante in vacuità new age, da Battiato a Matrix. Chi pensa che questi prodotti possano avere potenziale “liberatorio”, per quanto piccolo? Sono invece soltanto una versione aggiornata di quel palchetto privato da cui secondo Benjamin, che lo chiama intérieur, la classe media guarda l’universo, o si illude, nell’età della tecnica. Certo Villa staziona a distanze siderali da tutto ciò. Ma voglio dirlo chiaramente: ogni interpretazione del testo villiano che lo intenda come ricerca di un’assoluta trascendenza (e non importa il risultato della ricerca), o come pratica (per forza immaginaria) di morte al mondo, riduce l’incredibile ricchezza di questo testo alla sterilità di un vaniloquio che serve solo a dissipare energie psichiche ben altrimenti utilizzabili. Ci sono altri modi di muoversi nelle «vanità verbali» di Villa, ed è lui stesso ad averlo lasciato detto molto chiaramente. Nella conferenza tenuta nel 1984 all’Accademia delle Belle Arti di Perugia, dopo aver pronunciato la frase già citata sulla necessità di non essere partecipi del mondo, Villa fa una rettifica importantissima: «il mondo è soltanto un aspetto moderno del vuoto e del nulla. Però il moderno è tutto, tutto quello di cui disponiamo». E implora: «dateci almeno un piccolo terreno sotto i piedi per poter sopravvivere».
In questa piccola frase sta un autentico rovesciamento della via gnostica fin qui illustrata (forse dovuto anche, come ben visto da Tagliaferri, all’avvicinamento di Villa a pratiche di pensiero orientali). Uno dei più grandi cimenti dell’arte e del pensiero novecenteschi è stato la ricerca di un luogo dove consistere, dove la vita potesse essere portata avanti non indegnamente. È sembrato a molti che la modernità si adoperasse a far scomparire o a contaminare quelli che fino ad allora erano stati i luoghi (anche simbolici) deputati a quella funzione. Dal momento in cui non ne è rimasta traccia, è stato necessario cercarne, o costruirne, di nuovi. Se il problema di Villa è mantenere l’arte, e tramite essa l’uomo, in contatto con un grande evento caotico (il luogo, o il processo, di tutto, si potrebbe dire), che dà ad entrambi il respiro e la forza, e riapre e scompiglia sempre i rapporti gerarchici, di sapere e di potere, che gli uomini stessi si avvolgono intorno per organizzare e amministrare la loro esistenza, il fine della continua ricostruzione, reinvenzione di questo rapporto è sempre quello assegnato all’arte nello scritto sull’uomo primordiale: spingere, potenziare, nutrire la vita. Il vuoto, il caos cavo, l’orizzonte assoluto degli eventi è immanente al mondo che percepiamo e in cui viviamo, qui e adesso, e certo non perché sotto o dentro di noi ci sia un uomo bestiale o primitivo. E anche su questo punto non si può rimproverare a Villa alcuna reticenza, nonostante la leggendaria difficoltà delle sue opere. Ancora nella conferenza di Perugia si legge infatti un passaggio splendido e commovente dedicato ai tanto amati maestri americani, Pollock, Rothko, Gorki, che può fare da epitome della concezione dell’arte, e della vita, di Villa, con la sua posta altissima e i sui altissimi rischi: «si sono sparati, si sono suicidati tutti. Tutti. Questa non è una risposta, ma è un evento del vuoto, però, un cadere nel vuoto dopo aver improvvisato una nuova vicenda dell’arte, completamente nuova, completamente dedicata alla vita». Dedicata alla vita; a «liberare la vita là dove è prigioniera», avrebbe detto Deleuze, «o per lo meno provarci, in un combattimento incerto» che porta l’artista a torcere, lacerare, forzare in tutti i modi il proprio materiale – come Villa faceva galleggiare le sillabe, infrangeva, combinava, metteva in risonanza parole e lingue intere – in modo da renderlo espressivo non di un’assenza incolmabile e irrecuperabile, ma di un fondo non formato sempre presente («virtuale e reale», ancora con le parole dell’ultimo Deleuze) in ogni aggregato di percezioni ordinarie: la grande piega, la variazione infinita dell’Universo. La lotta può sempre risolversi nella sconfitta, nel fallimento del tentativo che non sa resistere alla forza disumana di quello che sente e si arresta sul posto, proliferando su di sé a ricreare strati di difesa mitici o paranoici, oppure precipita a capofitto nel vuoto, non più capace di fare da filtro, di dare tenuta alle sue forme tremolanti e aleatorie, combuste e bucate, indistinzione di forma e informe. Ma finché mantiene consistenza è un gesto affermativo, per quanto severo o terribile, o enigmatico, possa apparire.
[Immagine: Emilio Villa].
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