di Pierluigi Pellini
[Questo articolo è già apparso, con altro titolo, su «Alias – il manifesto», 7 dicembre 2014].
Illustra perfettamente il paradosso di un libro fra i più importanti della letteratura dell’Ottocento, e oggi fra i meno letti, l’apparato iconografico che ne accompagna la lussuosa edizione nei «Millenni» (François-René de Chateaubriand, Genio del cristianesimo, a cura di Mario Richter, Einaudi, 2014, pagine CX – 880, euro 90). Un apparato che accosta capolavori di inquietante modernità – come il Sogno di Ossian di Ingres, quasi surrealista nella violenza dei contrasti cromatici – e croste imbarazzanti, ispirate a nostalgie d’ancien régime o a leziosità di un Biedermeier devozionale. Così i Lavori di restauro all’abbazia di Saint-Denis di Adrien Dauzats, con tanto di volatili sciamanti dal campanile: stereotipati anche se fossero del 1813, come recita la didascalia (ma all’epoca il pittore aveva nove anni: il dipinto è addirittura del ’33); così Am Allerseelentag di Ferdinand Georg Waldmüller, scena cimiteriale del Giorno dei morti, inopinatamente ribattezzata, in didascalia, Il giorno di Ognissanti. Tuttavia, anche i quadri più belli – questo è il punto – non si sottraggono, a posteriori, a un lieve sospetto di kitsch; e, al contrario, perfino la paccottiglia dei santini estetizzanti e dei più triti topoi (giovani martiri cristiane, rovine, tombe campestri) si riscatta in qualche dettaglio premonitore.
È quel che avviene, esemplarmente, nell’opera di Anne-Louis Girodet, che di Chateaubriand ha dipinto un celebre ritratto (riccioli mossi dalla brezza, sguardo teso a malinconiche lontananze, abbigliamento intonato all’edera blu che ricopre le rovine di Roma: prevedibilmente campeggia, sia pur tagliato, in copertina), e sulla cui modernità insiste un bel libro di Chiara Savettieri (L’incubo di Pigmalione. Girodet, Balzac e l’estetica neoclassica, Sellerio, 2014). Così è anche il Genio: frutto di una conversione sulla cui autenticità ogni dubbio è lecito, pubblicato con manageriale tempismo, nel 1802, nei giorni stessi in cui si solennizza l’entrata in vigore del Concordato napoleonico, sempre in bilico fra due secoli, fra trionfante classicismo e avvisaglie romantiche, è al tempo stesso stucchevole catalogo di argomenti apologetici e documento di una sensibilità nuova, magazzino inesauribile di situazioni, immagini, metafore cui attingerà a piene mani l’intero Ottocento.
Una lettura integrale delle quasi mille pagine del Genio non può non alimentare la cattiva fama di un’opera che contende alla pastorale di Astrée (Honoré d’Urfé, 1627) e alla pedagogia di Télémaque (Fénelon, 1699) la palma del più noioso fra i classici francesi. E non può non suscitare qualche perplessità sulla compresenza in libreria, oggi, di ben due traduzioni: quella di Bompiani del 2008 (pp. XLVII – 1728, euro 40), non sempre impeccabile nella resa (di Sara Faraoni), ma con l’originale a fronte; e questa nuova di Einaudi, più rigorosa e corredata di apprezzabili apparati, da cui però sarebbe stato lecito aspettarsi, anche in considerazione del prezzo, meno approssimazione nell’allestimento delle tavole fuori testo e una più attenta correzione delle bozze (capace almeno di uniformare l’alternanza René/Renato e di nascondere gli appunti del traduttore, come «[per eliminare cacofonia]»). Perplessità accentuate dal fatto che il capolavoro di Chateaubriand, le ben altrimenti grandi Memorie d’Oltretomba, è ormai introvabile: la splendida edizione, voluta da Cesare Garboli, e curata nel 1995 da Ivanna Rosi per la defunta «Pléiade» di Einaudi, è purtroppo esaurita (perché non riproporla in tascabile?).
Nondimeno il Genio, come scrive Mario Richter, è il monumento letterario, imprescindibile quanto ingombrante, di «un’età di transizione particolarmente complessa e drammatica», quella napoleonica, «non molto dissimile da quella attuale»; e ha l’astuzia epocale di mutilare la retorica dell’apologetica cristiana: genere in cui s’inscrive quasi à rebours, rinunciando a ogni sottigliezza e astrazione dottrinaria. Facendo appello al pathos dei sentimenti e alle emozioni dei sensi, Chateaubriand dimostra l’esistenza di dio non per via teologica ma – se così si può dire – per induzione estetica, non solo ritrovando (come già molti) la perfezione del creatore nelle meraviglie del creato, ma anche fondando la legittimità della religione sulla bellezza delle opere artistiche che ha ispirato. Per questo può discettare con uguale, elegante dilettantismo di nidi d’uccelli e di campane, di pompe liturgiche e di sepolcri, del Paradiso perduto di Milton e della pietas rurale; e l’opera, smisurata nel suo accrescersi per addizione d’immagini, per suggestioni d’analogia, per civetteria di preterizione («Se ce lo permettessero il tempo e il luogo […] parleremmo delle gru delle Floride»: segue descrizione), si presenta come una sorta di debordante anti-Encyclopédie: summa asistematica di un sapere poetico che osa rivendicare la propria superficialità, scorgendo, dietro ogni epifania del bello, la mano della provvidenza – è lei che segna le rotte degli uccelli migratori, compone la versicolore armonia dei paesaggi, ispira l’arte e guida la storia; e rifiutando ogni indagine scientifica volta a far svanire l’incanto nella prosa delle cause materiali.
Eppure, dei miti romantici di cui i posteri gli riconosceranno la paternità, il Genio è responsabile quasi per caso, se è vero che l’entusiasmo per le cattedrali gotiche o per la poesia di Dante va ancora soggetto a forti riserve, dettate dalla persistenza del gusto neoclassico. Intimamente chateaubriandiano è invece l’esotismo, al tempo stesso disinvolto e sottilmente lugubre, che accosta suggestioni lontane nello spazio e nel tempo: gli antichi Ebrei e gli indigeni del Canada, le guerre fra Atene e Sparta e un conflitto fra scoiattoli e castori nelle foreste del Nuovo Mondo; e che di ogni oggetto descritto evoca il disfacimento, di ogni vicenda umana la fine. Da quest’autentica coazione mortuaria discende il tema forse più emblematico, quello delle rovine (in proposito: Elisa Gregori, Un virtuose des ruines, Cleup, 2010): i ruderi romani come i resti delle distruzioni rivoluzionarie, le tracce di civiltà scomparse come il guscio infranto dell’uovo di un uccello, tutto è «fragile monumento» chiamato a cantare le lodi di dio.
Ma la moderna malinconia di quell’inquieto viaggiatore che è Chateaubriand percepisce l’universo «come un immenso albergo in cui tutto è in continuo movimento»: negando ogni ieratica fissità; e la sua bulimica curiosità si nutre di cibo profano. Riscattando la fede popolare, esaltando la bellezza del culto e il fascino misterioso della rivelazione, il Genio ostenta di voler spezzare il «cerchio di fango» della ragione illuminista; in realtà, non fa che ratificare suo malgrado quell’identificazione di fede e mito, di devozione e favolosa puerilità, affermata dalla polemica illuminista. Tutto è, perciò, il Genio fuorché documento «di quanto articolate e profonde siano le radici cristiane della cultura europea», come recita la conclusione, a sua volta apologetica, dell’Introduzione di Richter. Rinunciando a ogni serio dibattito teologico, Chateaubriand decreta l’irreversibile declassamento del cristianesimo dall’ambito filosofico e ideologico a quello estetico; trasforma la religione in lussureggiante repertorio d’immagini, a disposizione – di qua da ogni investimento di fede – della mitopoiesi romantica; e, più tardi, dell’estetismo fin de siècle. Come la modernità dello Chateaubriand autobiografo discende dall’elusione dell’imperativo di sincerità, dall’invenzione di un io proteiforme difeso da negazioni e censure (lo ha mostrato Ivanna Rosi, Le maschere di Chateaubriand, Le Lettere, 2010), così il fascino dell’apologista è tutto nella finta ingenuità, e nella fondamentale doppiezza – troppo consustanziata per essere solo ipocrisia –, di una voce d’autore che in null’altro crede, verosimilmente, che nel potere incantatorio della parola. Per questo, alla prosa patinata del Genio, al ritmo avvolgente delle sue frasi, alla sua stessa soporifera prolissità, si può, senza anacronismo, riconoscere un’attualità postmoderna: più plausibile delle torve rivendicazioni identitarie dei paladini dell’Europa cristiana.
[Immagine: Anne-Louis Girodet, Ritratto di Chateaubriand].
2 thoughts on “Chateaubriand nichilista?”