cropped-Baltz.jpgdi Giorgio Falco e Sabrina Ragucci 

[Lewis Baltz è morto la sera del 22 novembre 2014.
Il giorno seguente, su «la Lettura», è uscito questo mio pezzo sulla raccolta dei suoi testi, Scritti (Johan & Levi editore).
Un sms mi ha informato della sua morte mentre tornavo dall’edicola.
Il pezzo di Sabrina Ragucci è uscito sul «Manifesto».
La fotografia è di John Gossage; l’uomo che guarda il juxebox era Lewis Baltz (gf)].

Giorgio Falco

L’artista visivo è dentro la propria opera, la scrittura non deve soccorrere, adattarsi come una stampella che supporti il visivo. Ma Luigi Ghirri è diventato Ghirri anche grazie alla limpidezza divulgativa della sua scrittura. Ho letto quindi con interesse la raccolta dei testi di uno dei maggiori fotografi-artisti contemporanei: Lewis Baltz. Nato in California nel 1945, Baltz ha vissuto in Italia, a Milano e a Venezia, dove ha insegnato allo Iuav. La versione italiana dei suoi scritti – curata da Antonello Frongia, autore della postfazione – è arricchita di testi inediti rispetto a quella statunitense. La raccolta analizza il lavoro di alcuni artisti divenuti punti di riferimento del contemporaneo: Jeff Wall e Thomas Ruff, tra gli altri. Il saggio intitolato Too old to rock, too young to die è un viaggio nella fotografia americana degli anni Settanta, e a proposito dell’opera di Diane Arbus, morta proprio all’inizio di quel decennio, Baltz dà una definizione inusuale ma quanto mai precisa: “I ritratti immediati e senza orpelli di Diane Arbus sembrano fotografie di moda malriuscite”, e così sono ancora più rivelatori. Molto bello il testo – quasi un racconto di narrativa e un esemplare caso di descrizione del processo creativo – intitolato The Deaths in Newport. “Nel 1988 vivevo a Milano, nella casa di mia moglie, in un periodo in cui ero testimone e coprotagonista del deterioramento del mio terzo matrimonio”. Come spesso capita in questi casi, anche Baltz e sua moglie credono che partire possa essere la soluzione per salvare il matrimonio. Raggiunta la California, Baltz ottiene l’incarico per fotografare l’area sulla quale sorgerà il nuovo edificio del Newport Harbor Art Museum, il museo di Newport Beach, la città in cui l’artista è nato: una costruzione da cinquanta milioni di dollari. Ci si aspetta che Baltz fotografi l’area sulla quale sorgerà il nuovo museo e l’avanzamento dei lavori, appena inizieranno: un campo di un ettaro e mezzo all’incrocio di alcuni svincoli autostradali.

Quel luogo, così ancorato al tipo di paesaggio che normalmente ignoriamo ma che è sempre stato il soggetto abituale ritratto fino ad allora dall’artista, è poco distante dal punto in cui, nel 1947, c’era stato un duplice omicidio. Baltz all’epoca aveva due anni. Il padre, titolare dell’impresa funebre Baltz, aveva ricomposto le salme delle due vittime e testimoniato in tribunale, e quella storia era diventata la sua storia, raccontata fino alla morte. A quasi mezzo secolo di distanza, Baltz si chiude in biblioteca alla ricerca di materiali d’epoca sull’omicidio. Riuscirà a fotografare ciò per cui ha ottenuto l’incarico, oppure, alla ricerca di nuovi stimoli, virerà verso un altro tipo di lavoro? Riuscirà a vivificare la narrazione orale ascoltata dal padre e, infine, a salvare il suo terzo matrimonio?

Nella raccolta di scritti, l’artista non poteva tralasciare chi ha condiviso assieme a lui l’esperienza che ha influenzato la storia della fotografia e il nostro modo di vedere il paesaggio: New Topographics – Photographs of Man-Altered Landscape. I lavori di quella mostra, tenutasi a Rochester nel 1975, prendevano le distanze dalla quasi totalità della fotografia di paesaggio conosciuta prima di allora. I nuovi topografi hanno adottato uno stile ibrido, tra il documentario, l’arte concettuale e, per ammissione dello stesso artista, “la classica fotografia commerciale da agenzia immobiliare”. Baltz ha cercato l’identità, o l’assenza di essa, e rivendicato una neutralità di sguardo, ottenuta come se l’esito fotografico fosse una serie di reperti rinvenuti dopo asettiche ricognizioni, svolte da tecnici distanti da qualsiasi tentazione estetica, tecnici che raffreddavano il proprio senso di stupore davanti all’apparizione di un capannone, non potendo tuttavia evitare di mostrarci lo strappo visivo che esso produceva. I capannoni, gli hangar, i depositi industriali – nuovi o già dismessi – di Baltz sono inquietanti: paiono atterrati dallo spazio, appartengono al regno del fantastico, un’apparizione rivelatrice di qualcosa di più profondo, che sta in un angolo remoto del cosmo, e quindi dell’uomo. I capannoni di Baltz sono atterrati qui per conquistare il pianeta. “La terra improduttiva è marginale; natura è ciò che resta dopo aver soddisfatto ogni altra esigenza umana”. Ma tutto questo può avvenire solo perché “la nostra visione della natura, che ci piace per lo più considerare come un fatto intrinseco – naturale -, è di fatto un prodotto culturale della rivoluzione industriale”.

Baltz è nato e cresciuto in una delle molte zone del mondo che ha subito, a partire dal Dopoguerra, una trasformazione dovuta alla costruzione di case, strade, autostrade.

Ma che cos’è, in fondo, il paesaggio? Con senso pragmatico, l’artista utilizza la definizione  coniata dal saggista e suo curatore, Marvin Heiferman: “Paesaggio come bene immobiliare”. Una visione per me molto convincente; si adatta non solo agli Stati Uniti, è perfetta per gran parte dell’Italia, che al di là della retorica da cartolina edulcorata, ha fatto del cemento il proprio credo. 

Ma i lavori di Baltz, come lo stile dei suoi scritti, sono lontani dall’indice accusatorio, ricordano le immagini ottocentesche di Mathew Brady scattate durante la Guerra di secessione americana: la desolazione di un prato, il luogo in cui la battaglia è da poco finita, eppure riesce a conservare, nel medesimo istante, il tepore dei defunti appena sollevati e la freddezza della morte, già divenuta sterile campo. I suoi più famosi – e per me convincenti lavori – rimangono proprio quelli degli anni Settanta: The New Industrial Parks near Irvine, California (1974) e Park City (1978-1980). Nel testo Note su Park City, il fotografo ripercorre la genesi di questa località turistica montana, “un insediamento per lo più di seconde case situato ventisette miglia a est di Salt Lake City”, nello Utah. Certo, da allora è passato molto tempo. Un artista rischia di adagiarsi su un comodo e accattivante “pittoresco tardo-industriale”. Baltz si è posto la questione. Chi – fotografo o scrittore – viene dopo qualcosa di dirompente, deve ricordarsi che spesso un capannone ha più storia fotografica o letteraria che storia industriale alle spalle. Forse per questo, negli ultimi anni Baltz ha trasformato l’ossessione dei suoi esordi. Ricordo nel 2007 una sua mostra a Modena, intitolata 89-91 Sites of Technology: erano esposti frammenti di fotografie, immagini riprese da telecamere di video sorveglianza, il cui motto poteva sintetizzarsi in: Che cosa non vediamo quando guardiamo? E da chi siamo guardati quando crediamo di vedere? “Il nostro estraniamento è ormai al di là di ogni possibilità di riconciliazione”, scrive Baltz. Proprio per questo è necessaria la fotografia che non cerca di rappresentare, di spiegare il paesaggio, ma è semmai il mondo che, attraverso la fotografia, ci aiuta a riflettere su di esso.

Le immagini mitiche sono forse quelle nei confronti delle quali è bene nutrire maggior sospetto” ammonisce Baltz. Sarebbe bello vedere – soprattutto delle immagini più note e risolte stilisticamente – ciò che il fotografo ha tagliato al momento dell’inquadratura. Una sorta di backstage degli scarti, dell’inespresso che riempie l’immagine, di tutto ciò che per pochissimo non è entrato nell’inquadratura ma – come accade spesso a malincuore – si è consegnato alla vita.

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Sabrina Ragucci

Lewis Baltz è morto a Parigi la sera del 22 novembre, a 69 anni. Sebbene in Italia fosse poco noto, Baltz aveva trovato casa, amici, era stato accolto, aveva lavorato, si era sposato, aveva divorziato, vissuto e insegnato per molti anni. Era in contatto, fin dagli anni Ottanta, con un gruppo di intellettuali e artisti per lo più vicini a Linea di Confine di Rubiera, e all’Università di Venezia dove, dagli anni Duemila, era stato insegnante. Nella sua opera lo sguardo è messo tra parentesi; se la fotografia riguarda le cose da vedere, allora dovremo ammettere la presenza di una difficoltà fondamentale, e persino di un’aporia: non succede niente, tutto è già avvenuto, l’inquinamento, la mafia, la politica, e noi possiamo vedere solo ciò che resta, il non-so-che e il quasi-niente, per dirla con Jankélévitch. «Mi sento come un uomo seduto accanto a un fiume che vende acqua (…). Uso una tecnica fotografica raffinata per presentare vedute di nulla».

Baltz, con le serie The Prototype Works (1967-’76), The Tract Houses (1969-’71) e The New Industrial Parks (1974) aveva ravvivato la fotografia di paesaggio americana, rilevando l’avanzata dello sviluppo industriale ed edilizio nei paesaggi aperti: parcheggi, parchi, uffici, porte di garage industriali alle spalle di capannoni anonimi, estratti dal caos e riconquistati alla bellezza della forma (del resto i capannoni asettici, nell’intenzione di chi li aveva costruiti, non dovevano sembrare ciò che erano). Baltz, dagli anni 70, ha «continuato a sviluppare un’importante riflessione teorica sulla fenomenologia del paesaggio americano», afferma Antonello Frongia nella postfazione agli Scritti, editi da Johan&Levi; è stato uno dei primi fotografi statunitensi a ottenere un riconoscimento ufficiale entrando a fare parte della famigerata mostra di Rochester, New Topographics: Photographs of a Man-Alterd Landscape, del 1975, e nei decenni successivi è diventato uno dei più autorevoli promotori di un riadattamento critico della fotografia americana di paesaggio, con immagini che alludevano e si ispiravano al Minimalismo, al Concettuale, e alla Land Art.

I lavori di Baltz degli anni ’70 e ’80 sfruttavano la capacità del mezzo nella descrizione degli ambienti sociali in rapido mutamento: Nevada (1978), Park City (1980), San Quentin Point (1982), Fos Secteur 80 (1987), Candlestick Point (1989) rappresentavano una sorta di (proto)terzo paesaggio, un territorio consegnato alla dimenticanza, al potere. Le immagini di San Quentin Point sono ispirate al film Dark Passage (La fuga, 1947) di Dalmer Daves; Bogart fugge dal carcere di San Quentin, non riusciamo mai a scorgere il suo vero volto, prima che si faccia operare per rendersi irriconoscibile, e cambiare identità: possiamo vedere solo gli spazi che attraversa. «Ho pensato mentre camminavo in quei luoghi ed ero di cattivo umore che avevo appena letto il libro di Jonathan Shell, Il destino della Terra, e non potevo fare altro che guardare il paesaggio come può vederlo un morto».

Questa morte che non si vede ed è ovunque, era quanto dell’opera di Baltz inquietava Luigi Ghirri. Baltz si era trasferito definitivamente in Europa per dedicarsi a progetti site specific e spesso gli erano state assegnate committenze pubbliche. «Era la fine degli anni di Reagan, i primi anni di Bush. L’America era cambiata in peggio. (…) Una voragine si era aperta tra i valori della borghesia e i valori dell’arte». L’arte era diventata qualcosa di diverso da ciò che è, da ciò che vale per se stessa, da ciò che era stata per Baltz, soprattutto nei sorgivi anni ‘60 e ‘70, trasformandosi in qualcosa di decorativo per le case negli Hamptons. Da questo momento in poi aveva lavorato con la fotografia a colori per rappresentare il nuovo ambiente high-tech dei laboratori di ricerca e delle industrie; così aveva potuto focalizzare l’attenzione su spazi apparentemente immacolati: 89–91 Sites of Technology. In un documentario del 1998, Baltz esordisce con: «Io non ho mai pensato a me stesso come a un fotografo».

Nell’ultima intervista, rilasciata la scorsa estate a Jeff Rian, diceva: «Una delle cose che si imparano quando si cerca di reinventare se stessi è che alla fine di ogni giornata sei ancora tu». E così lo avevamo ritrovato negli anni ‘90 ad affrontare il tema del potere, in termini sia positivi che negativi.

Power Trilogy (1992-’95) è composto da tre parti: Ronde de nuit è dedicato alla società; Docile bodies affronta l’individuo e fotografa persone durante operazioni chirurgiche in alcuni ospedali europei; con The politics of bacteria, Baltz si occupa dell’invisibile. In queste opere è un selettore di immagini e un fotografo, un artista indispensabile alla creazione di una composizione complessa. Il suo interesse nasceva da ciò che stava succedendo dopo la caduta del Muro di Berlino. «I nazisti erano stati il male, ma non avevano avuto la tecnologia avanzata».

Baltz chiude gli Scritti con un testo dal titolo L’inferno in terra: rappresentazioni distopiche all’epoca del nulla di speciale: potremmo definirli utili consigli di lettura per un aspirante artista, o semplicemente per un essere umano consapevole.

Baltz

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