cropped-coolredlights_theconversation.jpgdi Giacomo Giubilini

Come affrontare un festival del cinema a quarantadue anni, quando la soglia di attenzione si abbassa e si stempera in una perpetua resa postprandiale senza nemmeno più bisogno del pranzo? Quando si rischia di russare senza accorgersene, e già prima di entrare in sala? Dopo poche righe fitte di romanzo «corposo» e «necessario» o pochi istanti di trame che non decollino subito con squillanti richiami primari – violenza, sesso, musica, duelli eroici, amori? Per quale motivo praticare questo sforzo titanico di restare vigili?

La risposta è semplice: per godere. Un consumo bulimico di immagini, come se non bastassero quelle che ci pervadono quotidianamente, è il modo migliore per ribadire con forza che il consumo, qualunque esso sia, è un atto dotato di senso, non un travaso passivo. Smentire cioè le ovvietà di una litania costante, un racconto tanto spanato quanto ideologico, secondo cui consumatore è un tapino manipolabile da oscure forze.

Nell’esperienza festivaliera dell’accumulo di immagini, tutta la passività di chi guarda e tutta l’ansia irrazionale di totalità e completezza che lo pervade – questo «vedere tutto» – risulta tutto sommato non solo un atteggiamento auspicabile, ma anche un’esperienza estetica autentica. Una resa impegnata, un consapevole disimpegno: essere per almeno una settimana al centro di una corrente impetuosa di suoni e immagini, ma contro la necessità di interpretarle. Per sedare per una volta, invece di acuire e coltivare, l’ipertrofia vendicativa dell’intelletto che ridurrebbe tutto questo a ragioni cristallizzate.

I festival di cinema quindi non soltanto come occasione culturale per ricostruire linearità storiche, formarsi e scambiare toponomastiche di ricorrenze di stili, epoche, filmografie. Non soltanto luoghi per cementare le proprie convinzioni e rafforzare il proprio piumaggio narcisistico da dotti monaci del cinema. Ma come occasione salvifica per perdersi. Perdersi intanto nel proprio sonnambulismo da sala come condizione necessaria per godere a pieno i sette film al giorno di media. Perdersi nelle ellissi della propria memoria frantumata, nelle trame che si sovrappongono, nei generi che sconfinano in altri generi. Perdersi in una landa di malinconie e gioie, insensatezza e programmazione, luoghi deserti e metropoli, anime perse e ritrovate, destini segnati e fughe possibili, che rendono appieno il senso del godimento di quest’arte.

Spezzare per qualche giorno la consolazione di procedure ortopediche, un ricostruire significati che è anche un volerli imbrigliare; mollare questo altrove, lasciare andare il “filisteismo interpretativo” (Susan Sontag). Il vecchio soccorso nel deserto del Nevada (Melvin and Howard) sarà davvero Howard Hugues e sarà andato davvero andato al Desert Inn di Las Vegas a fare acquietare i suoi fantasmi, o avrà finito i suoi giorni in una spiaggia dell’isola di Amity in fermento per l’imminente festa del 4 luglio (Jaws)?

E quell’anziano catorcio umano di detective di Los Angeles, rabbioso, catarroso e malato, ritroverà il gatto di un’entusiasta e irrazionale Lily Tomlin (The Late Show), o dovrà scappare rincorso da un’autocisterna posseduta dai demoni della contemporaneità a bordo della sua Plymouth (The duel)? Le formiche ci uccideranno tutti, buoni e cattivi (Phase IV), o c’è la possibilità di sedarle al suono di un sassofono in un appartamento divelto e desolato (The Conversation)?

E’ bello tornare da un festival con queste domande insensate e senza alcuna risposta.

[Immagine: Gene Hackman in The Conversation (1974) di Francis Ford Coppola (gs)].

 

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *