di Gilda Policastro
[L’articolo di Gilda Policastro compare sull’ultimo numero di «il Reportage», che è uscito in questi giorni].
Artiste coeve: contemporanee e coetanee in un tempo di crisi dei settori produttivi canonici, figurarsi dell’arte. Donne che scelgono percorsi non garantiti in partenza, quanto all’esito professionale o alle opportunità di successo. Quando possono dirsi riconosciute, uscite dalla massa indistinta del chi ci prova? La preoccupazione materiale condiziona il loro lavoro? E il genere? Incide sul processo creativo? È possibile riconoscere l’opera di una donna? Da cosa? L’esplorazione di due ambiti convergenti, l’arte “povera” e il femminile, richiede una compagnia consapevole e disposta allo scambio: qualcuna ha rinunciato in partenza, sentendosi “già arrivata”. Il suo traguardo era l’orizzonte, dice un’autrice del secolo passato di un suo personaggio. Perché mettersi limiti?
Sabrina
«Walker Evans diceva che ci sono solo quattro alternative: essere ricchi di famiglia; fare lavori commerciali; essere pagati in quanto artisti; o fare qualcos’altro per guadagnare». Esordisce così Sabrina Ragucci, che da circa vent’anni, da quando cioè ne aveva poco meno di venti, lavora con le immagini. Fotografa, tuttavia, non è una definizione che sente appropriata: «La mia vera attività è quella di comporre relazioni tra immagini e scrittura. Di sicuro, nelle immagini o nelle parole dell’opera, sono sempre presente in forma biografica: come un pittore rinascimentale che si autorappresenta, spesso in un angolo, nelle sembianze di un cane che guarda verso l’esterno noi che guardiamo il quadro». È da qui che si può partire, in effetti: dal riconoscimento reciproco attraverso le rispondenze o le differenze. Scrivo e fotografo come altre artiste più o meno coetanee girano documentari o recitano: per lo più in assenza di fama, la notorietà che una volta si diceva televisiva e oggi è determinata dallo sharing e dai followers. Nessun agente a supporto, nessuna aspettativa di mantenimento attraverso l’attività artistica: piuttosto vivere per l’arte, secondo un mito sepolto dalle priorità commerciali. «Presentare il proprio lavoro al mondo è soprattutto un “rivolgersi a” e il rapporto con gli altri è sempre uno sprono e un rovello», continua Sabrina, che spesso lavora con il suo compagno Giorgio Falco, come nel caso recente del libro con immagini Condominio oltremare: «Ho sempre voluto costruire una struttura narrativa che superasse l’oggetto silente, antinarrativo, qualcosa che potesse attraversare un immaginario sovrapposto, fotografia e scrittura, senza un inizio reale e senza una fine». Un po’ più in là, da lato, da lato, avrebbe detto il poeta.
Chiara
Il racconto della propria condizione di “artista” (termine che come la “realtà” di Nabokov, continua a doversi mettere tra virgolette, perché suoni plausibile) parte di solito da un momento di vocazione o di presa d’atto lungi da qualunque ansia prospettica: è quello che ricorda Chiara Lagani dei Fanny e Alexander rispetto alla decisione di fare l’attrice, maturata nell’adolescenza: «A quell’età la preoccupazione materiale già esiste, ma le sue necessità sono poste in un secondo piano. In parte sono ancora convinta che l’artista conservi per tutta la vita un aspetto fanciullesco che muta proporzioni alle cose; e se è vero che la praticità del fare legato all’arte teatrale rende forzatamente esperti in molte prassi (siamo tecnici, amministratori, promoter, grafici, scenografi, costumisti), il rapporto con l’immateriale ha sempre un posto speciale nel nostro quotidiano e ne diventa per lunghi periodi il centro pulsante e fondativo». Si tratta, mi domando, di una questione di genere? Un uomo non avrebbe, viceversa, risposto (com’è effettivamente accaduto, in qualche circostanza) che se l’artista vive di emozioni, bisogna che si sforzi nel frattempo di comunicarlo all’Enel? Come si campa, ma – soprattutto – come ci si confronta con un orizzonte che, Enel o meno, non venga scandito dai ritmi del lavoro tradizionale, la sveglia alle sei del mattino, il “beggiare” (timbrare il cartellino, nell’idioletto dell’azienda), le ferie, l’Inps? E perché si chiama lavoro quello di coordinare ingegneri o manovali, di rispondere ai telefoni di studi medici o notarili, di pulire pavimenti o bagni pubblici, e giammai quello di dar corpo e forma alle idee? Il problema è di arretratezza culturale endemica o bisogna comunque fare i conti con la concezione del lavoro universalmente intesa come produzione, precisamente quantificabile e remunerata? Per Chiara la separazione non è così netta, e nemmeno determinante: «Credo che anche alcuni percorsi comuni e convenzionali consentano un rapporto vitale, feroce e inquieto con se stessi e con il mondo in cui viviamo. E forse anche altri percorsi, comuni e convenzionali più del mio, hanno il limite (che a volte diventa virtù) della commistione tra vita privata e vita lavorativa, che arriva a confonderne i piani. Di irrinunciabile c’è il senso di libertà che ricavo dal mio lavoro. Di opprimente e limitante c’è sicuramente il senso di precarietà, condivisibile anche con altri lavori». Se della fatica di affermarsi in un campo lavorativo “anomalo” non ripaga, o non sempre, il successo tradizionalmente inteso, c’è almeno la possibilità di conquistare una posizione nell’ambito di una nicchia di intenditori? «Difficile comprendere i meccanismi che determinano il successo. Il mercato, certo, ma non solo: la questione è più complessa e ha a che fare con alcune contraddizioni del nostro tempo. Credo che la cosa importante sia non fare del riconoscimento il proprio fine, ma accoglierlo quando arriva come gratificazione o ricompensa provvisoria che accredita non tanto uno status quanto la necessità di lavorare sempre meglio e sempre più profondamente».
Betta
La conferma della condizione d’artista come terreno costantemente in prova, al di là della fatica e della provvisorietà contingenti, mi viene da Elisabetta Benassi: «Questa è la “condanna”, per dirla con Sartre: non potersi fermare, né sospendersi mai. Ogni volta che mi preparo a realizzare un nuovo lavoro è come se fosse la mia prima opera: cerco di fare qualcosa a cui non avevo mai pensato prima e questo mi sollecita a cercare di sorprendere prima di tutto me stessa. Insomma è l’unico modo per “lasciare il certo per l’incerto”, come dice il titolo di un lavoro di Boetti: solo cosi il limite può sparire». Betta esordisce come videoartista passati i trent’anni: arriva così ai primi riconoscimenti con «un desiderio di accelerazione costante, per recuperare il ritardo. Se mi guardo indietro sono le opere, i lavori che ho realizzato che mi permettono di scandire il tempo e di percepirmi». La parola artista oggi non le fa paura, meno che mai declinata al femminile: «Si chiede mai a un uomo: qual è la tua condizione, come ti senti a essere così? Io mi sento artista e basta, e non credo sia così importante oggi distinguere il maschile dal femminile nell’arte, a meno che i temi di genere non siano i temi del lavoro. Ci sono artisti maschi che fanno lavori all’uncinetto e artiste donne che sparano con il fucile: diventa difficile collocarsi. Alla fine la sensazione è quella di guardare questo problema attraverso gli occhi degli altri, anche se tu il problema non lo vedi».
* * *
L’arte performativa, il teatro di ricerca, la fotografia (e la scrittura). Comune a tutte le artiste che ho fin qui incontrato è la consapevolezza che la fama sia il momento in cui si va verso qualcuno. Chiara ha raccontato di un amico che ritiene l’opera compiuta in sé, senza il bisogno di esporla: «Spesso mi arrabbio con lui, perché per me è sempre una questione comunitaria, di tensione o attrito con l’altro. In teatro senza uno sguardo che la accende, l’opera cessa di esistere. La visibilità è il prezzo che si paga al mondo per poter esistere, per questo, credo, non se ne può fare a meno». Anche Betta si è raccontata come un io di relazione: «Mi sono ritrovata nel mezzo della scena a partire dai miei due video del 2000, You’ll Never Walk Alone e Timecode, e ho capito che le opere importanti sono quelle che creano un’apertura, divenendo uno strumento per gli altri come proiezione di immaginazione, ed è una sensazione molto bella, molto forte. In un certo senso per me questo significa essere riconosciuta e avere successo».
Federica
Si muove entro un analogo orizzonte Federica Fracassi, attrice: «Irrinunciabile è il mettersi in gioco ogni giorno come la prima volta davanti ad altri esseri umani, mettere te stessa davanti a loro nel bene e nel male. Attraversare la vita, le sue meraviglie e i suoi ostacoli con una costante condivisione moltiplicata che ti arricchisce incredibilmente». Federica ha interpretato Vera in Prima della pensione di Bernhard, la precaria Roberta di Aldo Nove, la moglie morente in Bella addormentata di Bellocchio («ma il cinema mi vuole poco: sono la versione âgée di Alba Rorwacher»), la malata terminale di Corsia degli incurabili di Valduga, oscillando con esiti sempre convincenti dal comico al tragico («così i miei miti: Mariangela Melato e Monica Vitti»). Ma in principio voleva danzare, ed è approdata al teatro durante gli studi: «Mi sono poi laureata a 40 anni, con una sensazione di liberazione e felicità per aver comunque portato a termine un percorso che mi ha arricchita, ma che non era la mia strada principale». Pochi come lei hanno l’onestà di riconoscerlo senza infingimenti: «Ho avuto la fortuna di avere una famiglia che mi ha aiutata economicamente. Questo non mi ha impedito di lavorare con abnegazione, anche inventandomi lavoretti paralleli che tuttora svolgo, ma spesso mi chiedo cosa sarebbe stato della mia passione senza questo sostegno. Me lo chiedo anche vedendo persone costrette ad abbandonare». Federica (l’ho pensato dalla prima volta che l’ho vista su un palco) non recita: è, fisicamente, la cosa che sta rappresentando, dai capelli alla punta dei piedi. Non è un’attrice ma una medium: parla di “abnegazione”, ed è qualcosa che parte, sì, dallo studio, dalla preparazione metodica, ma che arriva a toccare intimamente la conoscenza e l’esperienza. Proprio quello che si dice delle donne in genere, che scrivono e pensano col corpo: «Le parole che passano attraverso il corpo hanno un altro peso, un’altra sporcatura, sono incrostate di materia e di mistero. Stare in scena per me è sempre e soprattutto un’esperienza legata alla trasformazione del mio corpo, alla sua sofferenza e alla sua gioia». Non si riesce, in effetti, a immaginarla mentre imbusta viveri alle casse di un supermercato o grida dietro a un bambino al parco, se non come effetto di realtà, cioè sempre e comunque da un palcoscenico: «L’arte diventa il tuo modo di stare al mondo e allora certe stabilità o progettualità più comuni e quotidiane non sono così scontate e diventano una conquista da fare al contrario. Io ad esempio non ho figli e uno dei motivi credo sia stata la preoccupazione per il mio lavoro, per il mio corpo in scena, per la mia impossibilità di mantenerli, infine perché sento la responsabilità dei miei spettatori come se fossero figli».
Costanza
Di pubblico e spettatori non parla mai, curiosamente, Costanza Quatriglio, che pure è regista; di passione, piuttosto, e – come Federica – di un rapporto di costruzione identitaria coincidente con la scoperta della propria vocazione: «Studiavo giurisprudenza ed ero innamorata della filosofia del diritto e delle questioni legate ai diritti umani. Dentro di me si andava progressivamente mettendo a fuoco l’idea che mi sarei inventata un mestiere che mi avrebbe permesso di conciliare la mia passione per le persone con il desiderio istintivo e sempre più urgente di trovare fisicamente il modo di esprimere tale passione. Ecco perché filmare, per me, è sempre stato l’atto più fisico e completo che potessi compiere». Se in quest’habitus c’è il rischio di una separatezza programmatica dal resto del mondo, il mondo che lavora, che vive la vita dei supermercati e dei figli al parco, l’antidoto sembra ancora una volta la consegna, la linea di continuità che si stabilisce con altre generazioni, o con gli altri in generale: «Praticando l’insegnamento del cinema e avendo a che fare con gli allievi, a volte penso che l’incoraggiamento debba essere un diritto costituzionale. L’incoraggiamento, non il riconoscimento. Sono due cose distinte, anche se entrambe hanno a che fare con il responsabilizzare e, nello stesso tempo, con l’assumersi la responsabilità del proprio ruolo». Anche quello di essere donna, in un mondo prevalentemente maschile? «Il cinema si fa con i soldi. E ormai è scientificamente provato che dove ci sono i soldi non ci sono le donne. L’equivoco sta nel pensare che la cinematografia al femminile sia più intima, più da camera, quasi fosse antinomica a quella maschile che invece è devota al mito della forza, sempre e comunque. Nella nostra cinematografia, come antidoto a tutte queste limitazioni, è nata una generazione di cineaste che – insieme a tanti colleghi coetanei maschi – ha completamente reinventato il rapporto con la necessità di fare cinema, affrancandosi dal bisogno di una macchina produttiva consolidata. Questo ha fatto sì che si girassero sempre più film documentari di grande libertà espressiva, ma fuori da qualsiasi diritto, quasi sempre gratuitamente e in condizioni di lavoro ingrate». Come si sopravvive, al di là della perseveranza? «Credo nella fatica, mi dico che è bello costruire tutto mattone su mattone: mai una volta che non abbia dovuto fare sacrifici enormi e talvolta anche il lavoro degli altri. Ora vivo un momento di passaggio: sento che è finito un ciclo e un altro riparte, con la consapevolezza, però, di essere sempre all’inizio del viaggio».
Antonella
Il viaggio di Antonella Bukovaz è partito da un albero: «Spalmata di argilla ho camminato nel bosco. Arrivata davanti al grosso faggio ero del suo grigio chiaro con identiche striature e screpolature. Seduta in un cerchio, davanti ad altri cerchi che portavano a lui, ho respirato a lungo. Ecco, la mia prima esperienza artistica è stato questo rito di risanamento. Un rito che non aveva bisogno di pubblico e che mi piace pensare abbia fondato un legame profondissimo con la terra e con il sacro». A quel tempo insegnava in una scuola bilingue di una piccolissima comunità slovena: «Occuparsi di arte in un contesto così carico di tensioni e attriti culturali è come vivere addossati al confine orientale del mondo latino: non è neanche una scelta, ma la conseguenza di una geografia, di un paesaggio che diviene paesaggio mentale». Antonella scrive e parla del suo lavoro in termini di suggestioni e di interesse, più che di ambizione: «Se per fama si intende un riconoscimento condiviso e vasto, io lavoro troppo poco e in modo discontinuo per riuscire a ottenerla. Quando i miei alunni in classe mi dicono “učiteljica ti ho vista sul giornale, la mamma mi ha detto che è perché scrivi le poesie”, io mi sento riconosciuta. Niente a che vedere con il mondo letterario ufficiale». È, finalmente, il tratto comune che cercavo, il femminile dell’essere artista? «Ho girato la domanda alle mie figlie (17 e 18 anni) e un po’ cade nel vuoto. La cosa straordinaria è che tutt’e due sono convinte che in ogni caso le differenti opportunità legate al genere, laddove ci sono, saranno nel giro di pochi decenni, equilibrate e risolte. Amelia Rosselli diceva che la donna con la sua “fisiologicità corporale” avesse non qualcosa di diverso da scrivere, bensì “di più fisiologico da distinguere anche sul piano contenutistico”. Personalmente, in Italia ci penso e in Slovenia me ne dimentico: resta sempre una questione di geografie».
[Immagine: Rineke Dijkstra, Ritratti (gm)]