di Massimiliano Nicoli
[Questo articolo è apparso sul numero 4 di “Im@ago” (imagojournal.it), nella sezione “L’immaginario della valutazione”, a cura di Valeria Pinto e Massimiliano Nicoli]
Immagina di vivere in un mondo in cui la valutazione è dappertutto. Sei in una città europea, ma potresti anche essere negli Stati Uniti, l’importante è che tu sia da qualche parte in Occidente, in uno Stato cosiddetto liberale, e che tu sia là in questi anni, in questi giorni. Immagina di essere in Italia, a Milano, a Roma, oppure – perché no? – a Trieste. Ma potresti anche essere in Francia, immagina, per esempio, di essere a Parigi. Sei uno dei tantissimi italiani che vivono a Parigi, che cercano lavoro, che trovano lavoro, che perdono il lavoro. Magari sei un cosiddetto lavoratore cognitivo – statuto che non si riesce mai a definire esattamente, eppure tutti sanno che cos’è –, hai fatto un dottorato, potresti persino averne fatti due – no, non è il tuo caso –, però hai fatto più di un post-doc. Immagina di svegliarti la mattina nel tuo appartamento e di dividere la tua giornata in due: di mattina studi e scrivi per trovare un’altra borsa di ricerca, di pomeriggio cerchi un lavoro qualsiasi, senza sapere esattamente quale, magari un boulot alimentaire – come dicono in Francia –, un lavoro tanto per campare, o forse no, cerchi il lavoro della vita, cerchi una svolta. Comunque sia, immagina di vivere in un mondo in cui la valutazione è dappertutto. Già, perché di mattina, quando studi e scrivi e fai progetti per trovare una borsa di ricerca, hai costantemente a che fare con i meccanismi di valutazione che devono vagliare, discriminare, selezionare, gerarchizzare quei progetti. Meccanismi, macchine, dispostivi, apparati, congegni, procedure, processi, sistemi, metodi, norme – pensi. Sai che la domanda che hai presentato per una certa borsa è la numero tremilacinquecentoeccetera, sai che a ogni domanda corrispondono due lettere di raccomandazione scritte da autorevoli personalità scientifiche che valutano le qualità del candidato come eccellenti, non comuni, pregevoli, assolutamente rimarchevoli, sai che a tremilacinquecentoeccetera progetti – ma forse sono di meno, forse non tutti coloro che hanno attivato la procedura on-line per candidarsi e hanno ricevuto un numero di serie hanno poi portato a termine la domanda, poniamo che siano meno della metà, cioè millecinquecentoeccetera –, quindi sai che a millecinquecentoeccetera progetti corrispondono tremilaeccetera lettere di raccomandazione. Capisci che esiste una produzione su scala industriale di queste lettere e supponi che ci siano autorevoli personalità scientifiche che passano buona parte del loro tempo, quando la scadenza per la presentazione della domanda per una borsa si avvicina, a scrivere lettere di presentazione per persone che forse conoscono appena. Ti passa persino per la testa di intraprendere un’attività imprenditoriale di produzione di lettere di presentazione conto terzi, ci ridi sopra e trasferisci il balzano progetto nella seconda parte della giornata, quella in cui ti dedichi alla ricerca di un lavoro. Immagina di conoscere bene i meccanismi, i dispositivi, le procedure di valutazione dei progetti, perché ti è capitato, nel tuo piccolo, di prendervi parte come valutatore, e quindi sai bene che cosa significa effettuare una valutazione formalizzata attraverso un processo di double-blind peer review. Ti chiedi come faranno i valutatori a gestire una tale mole di progetti da valutare in tempi brevi, essendo – anche questo lo sai – la qualità media dei progetti molto alta, e ti rispondi che, in assenza di una macchina informatica in grado di gestire contemporaneamente l’aspetto oggettivo e soggettivo della valutazione, saranno la sorte e i rapporti di forza accademici a fare selezione. Capisci che le borse che hai vinto fino a oggi le hai vinte grazie all’orrido e immorale caso – la fortuna di imbattersi in un referee favorevole, per esempio – e non tanto perché un gioco di valutazioni incrociate abbia reso infine giustizia al tuo merito. Immagina di chiederti il motivo di tale immane sforzo di valutazione e di altrettanto gigantismo burocratico, se è vero che l’elemento del caso, l’al di là del bene e del male che la buona valutazione – quella giusta – dovrebbe scacciare, finisce sempre per rientrare della finestra. Ti viene in mente di aver letto un libro di Béatrice Hibou che si intitola La bureaucratisation du monde à l’ère néolibérale, che ti ha indicato nella burocratizzazione della politica, della pubblica amministrazione e della vita quotidiana il correlato di un governo neoliberale, e così non riesci a fare a meno di mettere in fila, in un catalogo infinito, tutte le pratiche burocratiche e di valutazione in cui sei coinvolto in questo esatto momento: ti sei iscritto al collocamento, hai chiesto il reddito minimo, stai cercando un altro appartamento in affitto, devi rinnovare la domanda di iscrizione alla biblioteca nazionale, hai aperto un conto in banca, stai per chiedere l’assicurazione sanitaria, hai inviato un articolo a una rivista, ti sei candidato per alcune borse di ricerca, ti sei candidato per diversi posti di lavoro – per ognuna di queste cose hai dovuto presentare un nutrito dossier pronto per un’attenta attività di valutazione. Ognuna di queste pratiche, presa singolarmente, è necessaria, è opportuna, quasi scontata, non c’è dubbio! – pensi –, ma all’improvviso le consideri come un insieme, le immagini come un complesso non privo di un’involontaria coerenza. Senza contare il numero di questionari di valutazione che compili quando usufruisci di servizi su internet o per telefono, e d’un tratto ti ricordi anche i questionari che hai somministrato agli studenti dell’università, quelli che hai compilato quando hai seguito dei corsi come allievo, gli infiniti questionari di valutazione che gestivi quando lavoravi in un’azienda e avevi a che fare con il suo sistema qualità ISOqualchecosa. Ti ricordi la fine che facevano quei questionari, ti ricordi gli aggiustamenti, i piccoli trucchi per far combaciare le cose, per evitare problemi, per adempiere gli innumerevoli obblighi imposti dal sistema. Ti ricordi le statistiche che ne seguivano, e i loro usi propagandistici. Ti ricordi pure di aver letto, una volta, un manuale di management dedicato alle pratiche di valutazione del lavoro, un volume collettivo, e ricordi che uno degli autori, in uno slancio di franchezza, confessava che tali pratiche si rivelano, in fondo, inefficaci dal punto di vista del raggiungimento degli obiettivi che esse stesse si pongono. E tuttavia – diceva – vanno messe in opera, perché creano un clima di giustizia organizzativa, senza il quale, al giorno d’oggi, non è possibile motivare le persone. Quindi ripensi al libro di Béatrice Hibou sulla «burocratizzazione del mondo» e constati che risuona con la tua esperienza quotidiana. Comprendi che valutazione e burocrazia sono come due specchi contrapposti, e che quando si afferma la necessità di smontare i moloch burocratici del passato, della scienza dell’amministrazione del Novecento, in nome della flessibilità, beninteso, dell’appiattimento delle gerarchie, dell’empowerment, della «proattività», della presa di iniziativa individuale, della responsabilità, della creatività, allora un nuovo sistema (post)burocratico si disegna sullo sfondo di questi discorsi, e «valutazione» è il nome che più gli corrisponde. Stai immaginando di vivere in un mondo in cui la valutazione è dappertutto. Poi ti ricordi di aver studiato Michel Foucault e che in Italia è uscito un libro sulla cultura della valutazione che si intitola significativamente Valutare e punire, l’autrice si chiama Valeria Pinto. Immagina di procurarti quel libro, sai che un tuo amico italiano lo possiede, te lo presta, ecco, immagina di averlo già letto. Attraverso quel libro scopri una letteratura critica sul tema della valutazione che non conoscevi, e che ti parla di «audit society» o «evaluative society», di «inspection age», che ti parla della valutazione come tecnologia di governo, come modo di esistenza dello stato neoliberale. Allora vai a rivedere un libro di Foucault che si intitola Nascita della biopolitica, immagina di andare a recuperarlo nella pila di libri che hai accatastato sulla scrivania e di individuare quasi subito le pagine che ti interessano, pagine che, a suo tempo, avevi appuntato e sottolineato, pagine che ora rileggi quasi con una certa agitazione. Immagina di immaginarti di spiegare a un pubblico quello che stai leggendo, come se fossi in classe o in aula, perché è questo che fai sempre quando cerchi di fissare dei concetti o di chiarirli a te stesso. Così immagini, senza nemmeno rendertene conto, di fare una lezione in cui riassumi alcuni aspetti delle analisi del neoliberalismo condotte da Foucault in Nascita della biopolitica, che poi è l’edizione del corso che Foucault tenne al Collège de France nel 1979. «Ecco, vedete» – ti ritrovi a sussurrare in un’aula immaginaria – «Foucault, nel 1979, proseguirà la propria ricerca intorno alla razionalità di governo liberale e neoliberale come quadro di intelligibilità della biopolitica, insistendo ancora una volta sul venir meno delle tecnologie disciplinari in quanto cifra o forma egemone dell’esercizio del potere nelle società occidentali. La governamentalità dei nostri giorni, e forse anche quella a venire, si effettua per lo più a livello di una “tecnologia ambientale” che opera intorno agli individui, all’interno dei loro campi di “gioco”, arretrando in modo massiccio rispetto alla “tecnologia umana” dei sistemi normativo-disciplinari». Stai dicendo che, secondo Foucault, il neoliberalismo sarebbe un’arte di governo che cede sul piano della disciplina che investe i corpi individuali per agire piuttosto sull’ambiente in cui «giocano» gli individui, modificandone le variabili. L’homo œconomicus teorizzato dai campioni del neoliberalismo americano è colui che risponde in modo sistematico alle modificazioni introdotte nell’ambiente: per governarlo non resta che lasciarlo fare, lasciarlo giocare, e intervenire sugli ambienti in cui si muove. Immagini una specie di governo indiretto e a distanza, che non può toccare gli individui se non per il tramite di un ambiente minuziosamente regolato, e immagini di essere libero, tu stesso, come un pezzo degli scacchi in una partita in stallo. Ma anche queste realtà ambientali, come i modelli antropologici liberali, non sono nulla di naturale – ti dici. Gli ambienti vanno creati, inventati e portati a un livello di realtà tale da poter funzionare come media di governo – sussurri nella tua aula immaginaria. Foucault le chiama «realtà di transazione», queste realtà ambientali che servono a governare, questi «correlati» della governamentalità – e te li immagini come degli oggetti, dei punti di presa, diafani e spettrali nella consistenza, solidissimi e reali negli effetti –, come la «società civile», la «sessualità», la «follia», dice Foucault. All’improvviso ti ritrovi in un mondo in cui i corpi sono mossi senza sosta da enti disincarnati che pure hanno la forza di dirigere le condotte, di muovere i gesti, di regolare i comportamenti, a cominciare dalla realtà di transazione più antica, l’anima – «prigione del corpo», vecchia storia –, fino a quelle più moderne e contemporanee: mercato, mercato del lavoro, economia della conoscenza, meritocrazia – pensi. Immagini di vivere in un mondo in cui la valutazione è dappertutto, perché la valutazione – ti dici – è una tecnologia ambientale di governo, un modo di «organizzare la libertà» – scrive Valeria Pinto. A partire dall’esperienza della valutazione, ti ritrovi intrappolato nel paradosso che Foucault pone al cuore della governamentalità liberale: governare attraverso la libertà, attraverso la produzione e il consumo di libertà. Immagina di vedere sfumare le distinzioni fra libertà e obbedienza, di vedere confondersi le frontiere fra «assoggettamento» e «soggettivazione», di averne persino abbastanza di queste fruste parole filosofiche. Allora precipiti al suolo di quello che stai facendo qui e ora e ti ritrovi bruscamente nel piccolo mondo di valutazioni accademiche in cui passi le mattinate. Immagina di esaminare con grande solerzia la funzione che ogni nodo, in questa trama di valutazioni, esercita rispetto ai comportamenti, ai gesti, alle condotte, alle forme di vita che riguardano te e i tuoi «simili». Non cerchi dei rapporti di causa ed effetto fra pratiche di valutazione e formazione della mentalità di ogni individuo, cerchi piuttosto qualcosa come una combinatoria da descrivere ex post, a partire dai suoi effetti. Cerchi di farti un’immagine, pur piccola e tascabile, dell’operatività concreta di una tecnologia ambientale di governo. Provi ad abbozzare una mappa delle pratiche di autoregolazione di sé all’epoca della valutazione di tutti e di ciascuno, dentro l’economia della conoscenza, per vedere come un ambiente strutturato dalle pratiche di valutazione produca e organizzi la libertà degli individui che vi sono coinvolti. Pensi alla valutazione dei candidati all’Abilitazione scientifica nazionale, in Italia, pensi alle «mediane», alla classificazione delle riviste scientifiche, ai giudizi espressi dalle commissioni su ogni candidato e visibili in rete, e incroci tutto questo con le procedure di knowledge assessment che governano l’economia della conoscenza a partire dalle istituzioni europee. Ti fai un’immagine della figura di studioso che le pratiche di valutazione – le loro attese e i loro esiti – disegnano, e così ti immagini una figura, o meglio, un «profilo» che è quello di uno strenuo produttore di pubblicazioni scientifiche valutabili – e ti ritornano in mente le mail che hai ricevuto all’epoca della prima tornata di abilitazioni da parte di sedicenti editori scientifici: «gentile ricercatore, ci consegni il suo manoscritto in formato Word, entro pochi giorni andremo in stampa…», oppure ti ricordi di esserti imbattuto pure nell’arte di spezzare libri già pubblicati in una serie di altri libri che non andranno mai in commercio ma che, in quanto dotati di codice isbn, saranno comunque conteggiabili come pubblicazioni distinte. Un «doping di pubblicazioni», leggi nel libro di Valeria Pinto. Libri, articoli, saggi che difficilmente qualcuno leggerà, forse nemmeno i valutatori. Ti chiedi che ne è oggi dell’idea di «pubblico» e della sua relazione con il gesto della scrittura. Chi scrive, per chi lo fa? Ti chiedi anche quali effetti produca sul piano della scrittura e dei suoi stili, dei suoi generi, delle sue forme questa corsa forsennata verso la solidificazione di ogni discorso teorico, critico, politico in oggetti scientifici valutabili, ti chiedi se resti qualcosa dell’elemento estetico della scrittura, come dei suoi inciampi, dei suoi paradossi, delle trasformazioni e degli abissi che essa impone al lavoro del pensiero. Immagini ancora quella figura di studioso – quel profilo – e vedi una silhouette dai contorni definiti, percepisci persino in te stesso il desiderio di coincidere con quella silhouette netta, chiara, piena compatta, coerente in tutte le sue parti: ogni eventuale elemento di «schizofrenia», o anche solo di eclettismo, è un evidente segno di immaturità scientifica. E poi pensi alle pratiche che l’autocostruzione di un profilo scientifico spendibile nel mercato della valutazione favorisce e sollecita. Ti ricordi una tua collega francese – stanca, estenuata – che una volta ti ha raccontato la sua vita da «Robin Hood» alla rovescia: «quando voglio organizzare un convegno internazionale – ti diceva – fisso una quota di partecipazione per i ricercatori giovani e sconosciuti, quelli che non contano nulla e che devono farsi un nome e una visibilità, e con i soldi che ricevo da loro pago le spese e i compensi per i keynote speakers, quelli importanti, con i quali devo tessere relazioni e fare “campagna elettorale”», «oppure – continuava –, se devo curare l’edizione inglese di un volume collettivo, in modo da aggiungere una riga “pesante” al mio cv, ma mi mancano i soldi per le traduzioni dei testi, allora faccio una call for translation e sfrutto il lavoro gratuito di chi ha bisogno di alimentare il proprio curriculum con una traduzione». Immagini di vivere in un mondo in cui la valutazione è dappertutto, e immagini che questo mondo sia popolato da «asceti della performance» – come dice uno studioso di management francese – e da micro-sfruttatori del lavoro altrui, e vedi bene, nella tua immaginazione, come queste figure si confondano nei medesimi individui, transitino continuamente attraverso di loro, e costituiscano la variante intellettuale della libera impresa di sé al tempo della valutazione come tecnologia di governo. Pensi che molto si possa dire delle figure antropologiche che ti stai immaginando ma non che siano figure dell’obbligo o della coercizione, e nemmeno della servitù volontaria: nessuno è obbligato a fare quello che fa, in questo piccolo mondo libero e in overdose di pubblicazioni, saturo di discorso e punteggiato da continue prese di parola. Allora immagini altre mosse, perché capisci che per rendere inoffensivo il discorso esiste la censura ma esiste anche la sua proliferazione infinita ancorché disciplinata, come un continuo, sordo, ordinato brusio, e immagini di creare zone di silenzio e di ascolto come se fossero pratiche di sciopero, pensi a quel «divenire impercettibile» di cui parlavano Gilles Deleuze e Felix Guattari e di cui solo ora ti sembra di iniziare a capire qualcosa, immagini che quel «coraggio della verità» di cui ci si è riempiti la bocca nel tuo ambiente in questi ultimi anni possa avere a che fare più con una messa in sospensione del discorso che con l’ennesima presa di parola, ma hai già immaginato troppo, e la tua mattinata ormai è finita.
Immagina che ora sia pomeriggio, cioè la parte della giornata in cui devi cercare un lavoro che ti dia un salario, una fonte di reddito. Ti sei iscritto al collocamento, non ti hanno aiutato. Però ti hanno proposto di frequentare un atelier sulla creazione di impresa. Immagina di esserci andato: hai trovato consulenti seri e molto motivati, pronti ad accompagnarti nel tuo percorso imprenditoriale. Solo che tu non hai un progetto, lo devi ancora immaginare. Ti hanno riempito di informazioni, hai scoperto che in Francia esiste lo statuto di auto-imprenditore, che non è come la Partita Iva italiana, è una posizione che puoi aprire immediatamente in rete, è attiva da subito, se lavori, allora fatturi e paghi le tasse, se non lavori, non fatturi e non le paghi. Se non funziona, come l’hai aperta così la puoi chiudere. Quelli del collocamento ne sono entusiasti, consigliano a tutti di diventare auto-entrepreneurs. Immagina che proprio il giorno dopo una delle scuole di lingue alle quali ti sei proposto come insegnante di italiano ti risponderà – sarà l’unica a farlo – chiedendoti se sei disponibile ad assumere lo statuto di auto-imprenditore per l’insegnamento dell’italiano. Todos caballeros, ovvero tutti imprenditori – ti dirai. Ma non ti stupisci, perché conosci bene quel libro là, quello di Foucault, il corso al Collège de France del 1979, sempre quello. È quel libro che ti ha insegnato che lo sforzo utopico neoliberale coincide con la trasformazione della società in una società di unità-imprese, con la «demoltiplicazione» della forma-impresa come forma della soggettività. È stato quel libro, insieme a tutta una letteratura che si è sviluppata a partire da lì, a spiegarti che l’onnipresenza della formula «capitale umano» – mirabile invenzione della Scuola di Chicago – nel discorso pubblico, politico, economico significa «ognuno imprenditore di se stesso», ognuno impegnato a valorizzare quel capitale costituito dall’insieme delle proprie capacità, competenze, attitudini fisiche e psicologiche. Se la materia di cui è fatta la vita – immagini – deve essere gestita come capitale, quale forma deve assumere quella vita – la tua –, se non la forma dell’impresa? Che l’impresa sia un’altra realtà di transazione – astratta, ineffabile, concretissima? Ti viene da ridere, perché immagini di vedere ovunque realtà di transazione e superfici di attacco per una governamentalità, e ti chiedi a quale livello di paranoia tu stia arrivando. Però – pensi –, Foucault ci ha insegnato, attraverso libri come Sorvegliare e punire e corsi al Collège de France come Il potere psichiatrico, che la posta in gioco del potere disciplinare, del potere che si esercita sulla vita, è di produrre un’anima intorno al corpo, di dare forma di anima – un’anima visibile e «autentica» – a un corpo; un corpo che di per sé non è certo bruta sostanza biologica, passività in attesa di impressione, ma «corpo utopico», visibile e invisibile, aperto e chiuso, misterioso e trasparente, fucina permanente di forme possibili, fame e sete di soggettivazioni – ecco stai di nuovo immaginando di fare una lezioncina. Allora immagini di chiederti: come si fa a trasformare una vita in capitale umano? E immagini di risponderti: modellando quella realtà di transazione che si chiama anima – la nietzschiana prigione del corpo – sulla forma dell’impresa. E come si fa? – ti chiedi ancora. E che cosa c’entra la valutazione come tecnologia di governo? Immagina di trovare la risposta in quello che stai facendo questo pomeriggio per cercare lavoro: curriculum e lettera di motivazione, curriculum e lettera di motivazione, curriculum e lettera di motivazione. Immagina di scrivere e riscrivere molte versioni del tuo curriculum e altrettante – anzi, ben di più – lettere di motivazione: dipende dal destinatario della tua candidatura, da chi valuterà il tuo dossier, dal tipo di impiego che stai «postulando», per usare un calco del termine francese che si usa per indicare la richiesta di lavoro e che trasmette molto bene la disposizione d’animo del demandeur d’emploi. Antica invenzione, il curriculum vitae. Ti sembra di aver letto che risalga alla fine dell’ottocento, che sia una pratica nata in ambito militare, come quasi sempre accade per le procedure di reclutamento e assunzione. Immagini però che tuo padre e tua madre non abbiano mai scritto un curriculum in vita loro, o forse una volta appena in tutta la loro esistenza di lavoratori attivi, e immagini bene. Invece tu, che speri di non essere nemmeno alla metà della tua vita, ne hai già scritti, diffusi e fatti esaminare a centinaia, forse se li sommi tutti superi il migliaio, e per un momento ti immagini come una stramba creatura ibrida, a metà fra la macchina e il vivente, che continuamente si sdoppia, si osserva, si contempla, si sorveglia, si governa – e fin qui tutto normale, pensi, è il movimento della coscienza, è il gioco delle istanze psichiche, è la condanna alla trascendenza dell’«animale che parla» –, e che però iscrive tutto questo nella struttura di un curriculum; come le stampanti di una volta, quelle che vomitavano fogli infiniti e traforati, così tu non smetti di srotolare davanti a te stesso la tua vita, i tuoi gesti, le tue scelte, in forma di cv. Ti domandi se la tua immaginazione non stia esagerando, e ti rispondi chiedendoti quante volte, nella tua vita, tu abbia regolato le tue esperienze e le tue scelte in base alla loro pertinenza a un curriculum e alla loro capacità di aggiungervi una riga, quante volte tu abbia consegnato a quel curriculum, o alla sua idea, al suo fantasma, il potere di decidere sulla tua esistenza. Immagina che siano state tante, eppure troppo poche, infatti ne paghi le conseguenze, infatti, per l’ennesima volta, stai «postulando» un lavoro. Immagina di mentire almeno un po’, sia quando redigi il tuo curriculum, sia quando, attraverso la lettera di motivazione, lo spieghi, lo giustifichi, lo compatti, ne riempi i buchi. Immagina di non riuscire a coincidere con l’immagine vetrificata che dai di te stesso, di sfalsarla, ma pure di inseguirla, quell’immagine, e quel senso di coerenza, di pienezza, di lucidità che ne tiene insieme gli elementi, come se tu fossi sempre in ritardo sulla tua vita (sbirci la pila dei tuoi libri: comme si tu étais en retard sur la vie – ti suggerisce maliziosamente il dorso di un libricino di René Char). Immagina di inseguire quell’immagine come si insegue l’illusione dello specchio, con la sua capacità di solidificazione immaginaria, di «richiudere su di sé e nascondere per un momento l’utopia profonda e sovrana del nostro corpo», come ha detto una volta Foucault in una conferenza radiofonica del 1966. Il curriculum, specchio dell’anima. Per quanto tu menta, per quanto tu sia votato a una filosofica malafede, per quanto tu faccia professione di ironica distanza rispetto ai tuoi stessi sforzi di renderti oggetto appetibile sul mercato dei lavori, tu sai bene quanto sia importante modellizzare la tua storia all’interno di un profilo specifico, coerente, lineare, progressivo, disciplinato – e questo ti riporta, peraltro, alle pratiche di valutazione accademiche di questa mattina –, e perciò lo fai, e temi sempre di non farlo abbastanza. Pensi che bisognerà studiare, prima o poi, questo «gioco di verità» su di sé che si chiama curriculum vitae, e gli effetti collaterali di soggetto che si producono all’interno del gesto, continuamente rilanciato, di scrittura e riscrittura dell’immagine di sé. Intanto, immagini di vivere in un mondo in cui la (auto)valutazione è dappertutto. E, d’altronde, ti rendi conto che le pratiche di autovalutazione e autogoverno finalizzate all’accaparramento di una risorsa scarsa (il lavoro/reddito) in un mercato iper-competitivo sono codificate, istituite e validate all’interno delle stesse organizzazioni aziendali presso le quali ti candidi. Immagina, infatti, di aver letto qualche manuale di management delle risorse umane, per provare a entrare nel mondo in cui vive chi ti valuta, oppure immagina di aver lavorato in quell’ambito, o nel campo della formazione continua, quella finanziata dalle istituzioni europee, quella che ha per obiettivo, come si dice in tutti i documenti ufficiali, la valorizzazione e lo sviluppo del capitale umano. Del resto, hai una formazione umanistica e se vuoi lavorare in un’azienda non puoi che entrare dalla porta delle risorse umane, come tutti i luoghi comuni sulla «occupabilità» degli «umanisti» ti insegnano. Questi manuali, queste esperienze, ti ripetono che il mondo è cambiato, il lavoro si è trasformato, e il bel mondo di Brecht, come diceva già Pasolini, non esiste più. Oh, che novità – ti dici: è da quando andavi a scuola che senti cantare la canzone della globalizzazione e della flessibilità, quella che annuncia che il conflitto non è più fra capitale e lavoro ma fra chi ha il coraggio di cavalcare la tigre del cambiamento e i rottami reazionari che vi si oppongono. In questo mondo nuovo – hai scoperto – i contratti giuridici che regolano i rapporti di lavoro sono inutili orpelli che irrigidiscono e appesantiscono le organizzazioni, che invece devono essere snelle e duttili, in grado di vibrare come un’ancia al soffio irregolare dei mercati. Un altro tipo di normatività deve intervenire a regolare il rapporto di lavoro – pardon, pensi: di collaborazione –, una normatività di tipo psicologico. Si dice «contratto psicologico», infatti, e si intende uno scambio di promesse che nel contratto giuridico non si può scrivere, o non si può scrivere del tutto. Questo è ciò che hai imparato. Ieri, il contratto psicologico era fatto di assoggettamento contro salario, di dedizione in cambio di impiego stabile; oggi, è fatto di motivazione, implicazione, identificazione con l’impresa all’interno di un rapporto di lavoro volatile come un gas. Capitale e lavoro: immagini il due che diventa uno, e non certo perché la solida fatica del lavoro subordinato e comandato si disperda finalmente in una società di produttori liberi e indipendenti, ma perché – immagini – ciascuno diviene particella imperfetta che partecipa di una quasi-platonica idea imprenditoriale, ciascuno docile fibra di quell’universo che si chiama impresa. «Identificazione organizzativa»: immagina di aver appreso che questa nozione è una nozione decisiva nelle pratiche manageriali contemporanee. È l’identificazione con l’impresa che spinge le persone verso una postura proattiva e auto-imprenditoriale, che promuove il «commitment» e favorisce la stipula del contratto psicologico, in aziende in cui i subordinati sono collaboratori, la parola «controllo» si accompagna costantemente al prefisso «auto», e le persone devono fare appello alla propria personalità, più che alla gerarchia aziendale, per raggiungere gli obiettivi dell’organizzazione – come hai letto in un libro di management dedicato proprio all’identificazione organizzativa. Immagina di chiederti quanto tutto questo ti riguardi, o riguardi piuttosto un ristretto mondo di «quadri», immagina di chiederti quanto questi discorsi girino a vuoto su loro stessi o quanto trapassino in ciò che i filosofi chiamavano Zeitgeist, lo spirito del tempo. Immagina di ricordarti di quando lavoravi nella formazione continua e ti trovavi a organizzare corsi obbligatori di comunicazione e team working, gestione dello stress, creazione di impresa, tecniche di leadership ecc. per apprendisti commessi, tornitori, fresatori, addetti alle macchine a controllo numerico, elettricisti, idraulici ecc.; immagina di ricordarti di quando, tempo fa, hai fatto un colloquio di gruppo per un posto di commesso in un supermercato e hai partecipato a un role playing in cui si trattava di decidere tutti insieme, attraverso un brain storming, quali sono le dieci qualità che definiscono un autentico leader al giorno d’oggi; immagina di ricordarti che, colto alla sprovvista, hai fatto scena muta e infatti non hai avuto il posto; immagina di prendere atto che il linguaggio manageriale di cui hai fatto esperienza nei libri sia lo stesso linguaggio che ritrovi nei documenti del Fondo Sociale Europeo e nella maggior parte del discorso politico che riguarda il lavoro, la scuola e l’università; immagina di pensare che il confine fra le pratiche manageriali e ciò che dovrebbe stare loro di fronte, accanto o altrove sia un confine mobile e poroso, che forse non esiste nemmeno, e immagina di ipotizzare che gli stessi discorsi manageriali non siano altro che la codificazione momentanea di una tecnica di governo che, dal basso, li eccede, li sostiene e li fa funzionare. E siccome stai immaginando di vivere in un mondo in cui la valutazione è dappertutto, ti ricordi pure di aver letto nella letteratura manageriale che le pratiche di valutazione del lavoro, della performance, del potenziale della risorsa umana, hanno a che fare con la costruzione dell’«immagine di sé» – proprio così, dell’immagine di sé –, con la rappresentazione della propria personalità, della propria identità e del proprio ruolo sociale. Uno psicologo del lavoro francese, che si chiama Claude Lévy-Leboyer, ti ha insegnato che la costruzione dell’immagine di sé è la vera posta in gioco delle pratiche di valutazione del lavoro: ciò che consente alla risorsa umana di conoscere se stessa, di soddisfare l’«appetito di sapere» che la concerne, di accrescere la lucidità, la qualità e la pertinenza della propria immagine per potersi infine manifestare a se stessa, e per potersi trasformare, sviluppare, potenziare. Contemporaneamente, la valutazione delle risorse umane fornisce all’azienda una descrizione esatta dell’individuo, ne bracca la «verità», ne verifica la compatibilità con l’organizzazione, ne mappa il «potenziale umano» e traccia le linee del suo possibile sviluppo, consente di prevederne i comportamenti. Impari che la costruzione dell’immagine di sé è un elemento di quel contratto psicologico che sigla la corrispondenza di amorosi sensi fra l’individuo e l’impresa, è un elemento della retribuzione, a volte l’elemento principale, talora l’unico: lavora per me e ti dirò che sei. E ciò che puoi diventare. Ti chiedi quale forma prenda questa ennesima declinazione del «supplemento d’anima» che l’immagine di sé – come uno specchio – è in grado di secernere, e ti rendi conto che tutto ruota intorno al concetto di «competenza». Immagini la tua stessa immagine – ciò che rincorri dal mattino al pomeriggio mentre insegui un lavoro – ed essa ti appare come una cartografia delle tue competenze, trasparente e accessibile alla coscienza, in grado di potenziare ciò che in una certa psicologia si chiama «autoefficacia». Immagini te stesso come una costellazione di competenze che occorre conoscere, aggiornare, valorizzare, sviluppare, e sulle quali occorre investire. Le competenze: l’unica cosa che puoi diagnosticare e cambiare, quando la personalità resiste indefessa ai cambiamenti e l’inconscio – posto che tu ne abbia uno – sfugge per definizione al controllo del soggetto sovrano che vorresti essere. Le competenze: l’unica cosa che puoi gestire come se tu fossi il manager di te stesso. Stai cominciando a capire come, attraverso l’autentificazione di sé in quanto aggregato di competenze valutabili e traducibili in curriculum, si trasforma una vita – la tua – in capitale umano. Il curriculum, specchio dell’anima che si fa impresa. È quasi sera, il tuo pomeriggio di ricerca di lavoro ormai è finito. Immagina di spegnere il computer con gli occhi lucidi di stanchezza, anche se non hai fatto nulla fuorché immaginare. Hai capito che la valutazione è quella tecnica di governo che tiene insieme le tue mattine e i tuoi pomeriggi, perché essa organizza – materiale e incorporea – gli ambienti in cui ti muovi, perché essa è il necessario strumento di misurazione del valore del tuo capitale umano e della remunerazione dei tuoi investimenti su di esso, perché essa ha a che fare con quelle scabrose questioni che riguardano l’identità, la soggettivazione, il riconoscimento, il narcisismo – chiamale come vuoi –, con la produzione di una vera immagine di sé. Hai capito che questa immagine è valore d’uso e valore di scambio nel mercato, posta in gioco di una micropolitica che investe i tuoi gesti quotidiani, punto di arrivo irraggiungibile di una teoria di esercizi che assomiglia a una weberiana ascesi intramondana, che assomiglia, tutto sommato, a qualcosa come una disciplina – uscita dalla porta, rientrata dalla finestra. Ti viene voglia di continuare e approfondire i tuoi studi, collegare le pratiche della valutazione alle analisi di Foucault sul potere pastorale e sulla confessione come dispositivo di soggettivazione, metterti anche tu a cercare la genealogia del management nelle tecniche cristiane di governo delle anime – tanto più che, prima di spegnere il computer, hai visto su internet che la Pontificia Università Lateranense, «nel solco dell’insegnamento di Papa Francesco», organizza il primo corso di «Management pastorale», finalizzato a «ottimizzare le risorse umane ed economiche, coniugando competenza e Vangelo»: il management, figliol prodigo, è tornato a casa. Ma alla fine non lo farai, penserai che non hai più tempo, anzi, che è tempo di disperdere questo sapere nelle pratiche di vita – le tue –, per cambiarle, per farle diventare loquaci, prima che esse divorzino per sempre dai bei discorsi; penserai che al pessimismo della ragione – come diceva Franco Basaglia parafrasando Gramsci – si deve accoppiare l’ottimismo delle pratiche, perché tu non sei esterno al mondo della valutazione, e non ne uscirai fuori grazie a un balzo del discorso, e perché tu non sei una vittima: anche tu, come tutti, sei un uomo che valuta.
Riferimenti bibliografici
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[Immagine: Banksy, Security cameras (gm)].
Molto interessante ma troppo ironico-masochista questo saggio. Mi pare così dentro all’esperienza “peccaminosa” dei valutatori/valutati da non riuscire ad uscirne. Ovviamente è il parere di uno che ha vissuto/subito processi del genere in epoca più rozza e brutale.
Articolo pungente e ben scritto la cui congruenza con la mia personale esperienza mi ha condotto, durante la lettura, a momenti di semi-esaltazione in cui mi accorgevo di non essere “solo”. Non sono sicuro. Forse per un attimo ho solo immaginato che fosse pomeriggio e che mi connettessi a internet e che aprissi questa pagina e leggessi questo articolo e che mi ritrovassi tra quelle righe, spiccicato, valutato e valutatore.
Il tema è fondamentale, l’articolo è prezioso. Spero però che non sia presa come una polemica sterile l’osservazione che il tema è così importante che dovremmo trovare un modo di parlarne che sia proprio terra terra, riguarda davvero tutti, troppi, e non tutti sono capaci di seguire il filo di questo pezzo fino in fondo. Metterei da parte l’ironia e il masochismo giustamente rilevati da Abate per trovare (collettivamente, è un dovere collettivo) formule e spiegazioni piane e comunicative che permettano di far capire l’urgenza terribile dell’argomento anche alle casalinghe di Voghera.
Forse è vero che bisognerà trovare il modo di parlarne in modo più accessibile.
Ma intanto, grazie.
Concordo con Daniele. Giusta osservazione. Abbiamo un’urgenza comunicativa che va veicolata (anche) attraverso formule più elementari. Altrimenti…
Sono sostanzialmente d’accordo col contenuto dell’articolo (anche se trovo stilisticamente pesante quel “mettiamo che” ripetuto ad ogni piè sospinto), ma non con la sua impostazione.
La mia principale obiezione è di ordine lessicale, e quindi ovviamente politico. Qui si usa il termine “valutazione” nell’accezione oggi prevalente, che come poi mi pare sostenere anche l’autore, ne fa un’operazione burocratica. Se così è, ed io concordo che è proprio così, perchè accettare questa egemonia cultural-lessicale ed abbandonare senza obiezioni e senza lottare il senso ben più generale del termine, così generale da includere in sè perfino il termine già abbastanza generale di “giudizio”?
Valutare è una delle attività fondamentali della nostra vita da umani, e lo è anche in particolare la valutazione della gente che sta attorno a noi. Tutti noi più o meno consapevolmente lo facciamo continuamente e subiamo a nostra volta questo esame.
Anche se ci limitiamo agli ambienti di lavoro, la valutazione c’è stata sempre, sia nel settore pubblico che in quello privato. Se andiamo in un luogo di lavoro e chiediamo a coloro che lì operano un giudizio sui propri colleghi, se lo fanno con sincerità, essi risponderanno in modo significativamente simile, perchè questo famoso processo di valutazione, oltre ad essere spontaneo, è anche molto efficace.
Il punto quindi non riguarda la valutazione in quanto tale, ma la sua specifica accezione odierna che, nel richiedere che essa sia quantificabile, cioè esprimibile in un numero, la burocratizza.
Devo aggiungere che questo tentativo è vano, non nel senso che sia impossibile ottenere un numero valutativo, ma nel senso che tale numero non rispecchia una valutazione non dico veritiera, ma a volte neanche decentemente verosimile. Vale infatti il noto detto “fatta la legge, trovato l’inganno”, ci si ingegna immediatamente per aggirare le norme, e, dato l’elevato impegno in questa direzione, ci si riesce perfettamente.
Dall’osservatorio che ritengo molto significativo del mio luogo di lavoro, l’Università, assisto impotente al processo di degrado conseguente alla stessa istituzione da parte della legge 240/2010, meglio nota come legge Gelmini, dell’ANVUR , e della conseguente adozione dei parametri più fantasiosi e vari che a volte vengono applicati cumulativamente, mentre altre volte si succedono temporalmente.
Anche all’Università, anzi direi ancor di più all’Università, il proprio lavoro è sempre stato in vetrina (almeno per chi come me si occupa di scienze sperimentali). Per sua natura, il lavoro didattico è pubblico, visto che l’utenza studentesca è perfettamente in grado di sapere come tale attività è svolta. Lo è anche sul versante dell’attività di ricerca scientifica, visti i numerosi incontri che spesso riguardano l’intero globo, dove la propria attività viene confrontata ed eventualmente contestata: tutto poteva mancare all’Università pre-Gelmini, meno certo della valutazione.
A questo punto, sorge spontanea la domanda sul perchè si vada nella direzione così efficacemente trattata nell’articolo. Il punto è che l’adorazione della competitività richiede il concetto correlato di precarietà, non solo nel senso letterale di un lavoro a tempo definito, ma nel senso allargato di provvisorietà, di una determinata posizione nel luogo di lavoro che ti viene costantemente messa in dubbio.
Si è quindi passati da una struttura che era spietatamente selettiva all’ingresso, che ti concedeva un ruolo che era anche sociale, e che quindi ti poneva dei doveri si potrebbe dire come obbligo di onore, per onorare la tua figura, e che comunque non smetteva mai di valutarti e di potere quindi stabilire quanto fossi bravo nel tuo ruolo lavorativo, ad un mondo di numeri che consente, che ha consentito già, l’ingresso di persone inadatte a quel ruolo, che riescono poi a raggiungere le posizioni di massima responsabilità con meccanismi di sfruttamento sistematico delle falle normative. Questo mondo di incompetenti è poi quello che dovrebeb selezionare chi viene dopo di noi, e potete quindi immaginare quanto queesta selezione possa alla fine rivelarsi come una selezione capovolta.
Io ne dedurrei che non abbiamo problemi con la valutazione in quanto tale, quanto piuttosto con la sua burocratizzazione, ma soprattutto sulle cause culturali di tutto ciò.
Infine, una breve osservazione quando si parla del lavoro gratuito come se fosse un’assurdità.
A noi, il lavoro gratuito appare così assurdo solo perchè è ovvio in un mondo totalmente dominato dal profitto, dalla mercificazione di tutto, appare giustamente paradossale che magari proprio chi avrebbe più bisogno di essere pagato, debba offrire i suoi servigi in forma gratuita.
Ebbene, non credo però che dovremmo tacitamente accettare tale criterio, dovremmo al contrario affermare che non è il lavoro che va pagato, ma il lavoratore, è la persona che è il titolare del trattamento economico che gli serve appunto per la sopravvivenza propria e della propria famiglia. La mole quindi di lavoro per un dipendente titolare di uno stipendio non dovrebbe essere funzione dell’importo dello stipendio, ma del lavoro, umanamente sopportabile, che gli consenta cioè di potere trascorrere con dignità il tempo di lavoro.
La centralità della persona, questa sconosciuta.
Mi piacerebbe che l’autore ci indicasse qual’è la morale del saggio. Che si stava meglio quando si stava peggio?All’epoca in cui mi sono iscritto in dottorato io era tutto molto più semplice: concorsi truccati in cui il barone di turno metteva a posto il suo/sua pupillo/pupilla. Piace di più?
Il sistema accademico francese, che è quello che più rifiuta la logica della valutazione, è anche caratterizzato da un livello spaventoso di opacità, in cui le decisioni sono prese in modo spesso oscuro. Con il pretesto che valutare i candidati è opera impossibile, e se possibile ingiusta, si ricorre ad altre pratiche, generalmente basate sulle conoscenze personali. Piace di più?
Sono un grande estimatore di Foucault, e proprio per questo credo che gli si faccia un disservizio quando si esagera la dimensione ‘il sistema ci fotte’. Vorrei ricordare a Massimiliano che le genealogie in Foucault erano al servizio di un progetto di emancipazione. La dimensione del ‘che fare per cambiare le cose’ purtroppo oggi è assente da quasi ogni tentativo di riattualizzazione del suo pensiero.
Le genealogie servivano a Foucault per prendere ed aiutarci a prendere distanza critica dalle nostre pratiche al fine di poterle modificare. Ora sono diventate fini a se stesse.
Troppo spesso un esercizio con il quale gli intellettuali giustificano la loro esistenza sociale e accumulano il loro piccolo capitale di gratificazione simbolica.
Vogliamo chiamarla la fabbrica del sospetto, per restare in tema?