di Alessandra Sarchi
Interni di fabbriche e di cantieri navali colti quando la luce ne isola porzioni e ne esalta gli spazi come fossero cattedrali, ponti in costruzione dove l’occhio si diverte a ultimare idealmente il segmento mancante, eliche e turbine che diventano pattern geometrici, pompe di estrazione del petrolio che costituiscono anch’esse sequenze di forme ripetute, esterni di essiccatoi del tabacco che proiettano ombre più simmetriche e metafisiche che in un quadro di Giorgio de Chirico, scheletri di sommergibili e areoplani in costruzione, la raccolta di centonovanta fotografie a tema industriale di Emil Otto Hoppé proposta al Mast di Bologna (Emil Hoppé: il segreto svelato. Fotografie industriali 1912-1937, 23 gennaio-3 maggio 2015) declina tutta la fascinazione per le macchine che accompagnò la seconda rivoluzione industriale.
Si tratta di una mostra importante che porta all’attenzione del pubblico italiano un artista meglio noto per la produzione di ritratti; Hoppé fotografò praticamente tutti i leader politici, i reali, gli attori, le celebrità dello spettacolo, gli scrittori e gli artisti più noti fra gli anni venti e trenta del Novecento, viceversa i suoi scatti sul lavoro, sull’industria, sul paesaggio sono rimasti a lungo dimenticati poiché, nel 1954, il fotografo stesso li mise in vendita. Acquistati dalla galleria fotografica londinese Mansell e schedati in base al tema, e non all’autore, sono stati ignorati per più di quarant’anni, fino a quando nel 1994 lo studioso di fotografia Graham Howe non ha iniziato a rintracciarli e catalogarli. Da questa ricerca, in parte confluita nella grande esibizione dedicata all’artista alla National Portrait Gallery di Londra nel 2011, è emersa l’opera di un fotografo modernista che spesso anticipa i suoi coetanei Alfred Stieglitz, Walker Evans, Edward Steichen, rispetto ai quali è altrettanto originale e tecnicamente inappuntabile.
Figlio di ricchi banchieri tedeschi, nato a Monaco nel 1878, Hoppé dopo studi compiuti fra Vienna e Parigi venne destinato alla medesima carriera dalla famiglia, impiegato della Deutsche Bank distaccato a Londra e a Shangai, nel 1907 decise di abbandonare il lavoro bancario e dedicarsi in maniera professionale alla fotografia.
I suoi scatti industriali sono frutto di viaggi in diversi continenti – Europa, Australia, Stati Uniti – e documentano l’entusiasmo per le macchine che pervade la coeva pittura cubista e futurista, nonché la letturatura.
Tuttavia mentre l’elemento meccanico il fuoriscala e la velocità diventano spesso in quegli anni, per la pittura e la scultura, una sfida mimetica al limite della rappresentabilità, le fotografie di Hoppé si pongono davanti ai propri oggetti con un nitore di visione quasi neorinascimentale. Non suggeriscono la riflessione sulla produzione meccanizzata di beni e sulla sua ricaduta alienante per l’uomo che, ad esempio, percorre parte dell’opera fotografica di Lewis Hine o Paul Strand. Uomini e donne al lavoro, quando compaiono nelle fotografie industriali di Hoppé forniscono la misura in senso metrico-spaziale del contesto in cui operano, come era stato nella pittura di paesaggio.
Non si vede la fatica, non si vede la brutalità o ripetitività del lavoro e nemmeno il brivido del rischio come nelle foto della costruzione dell’Empire State Building di Hine, talvolta si percepisce appena la difficoltà, tutta tecnica, del fotografo di includere la figura in movimento dell’operaio nel quadro di geometrie che il suo occhio ha individuato.
Queste nitidissime stampe ai sali d’argento fissano volumetrie esatte, nuovi rapporti antropometrici fra l’uomo lavoratore e la macchina in profondità di piani, in alzati di ombre e luci che disegnano un universo formale ancora dominato dalle leggi della prospettiva e dalle sue premesse cognitive.
Turbine, caldaie, interni di officine, aeroplani, eliche, cavi elettrici, fabbriche e impianti di estrazione del gas e del petrolio, ponti in costruzione e navi, questi sono i soggetti sui quali Hoppé posa uno sguardo pieno di concentrazione e di capacità di vedere il disegno astratto che qualsiasi struttura proietta, la luce che lo avvolge o che sottrae, le ombre emanate e assorbite.
Per questo riesce a catturare l’aura di oggetti in apparenza per nulla poetici. Una delle didascalie in mostra, tramite le parole del fotografo stesso, spiegando il procedimento di stampa, usa il termine roundness come esito finale.
La frase lascia pensare che tale esito sia da intendere legato al chiudere e aprire l’obiettivo in tempi che permettano un’entrata dilazionata della luce, ma potrebbe essere anche proprio l’effetto di rotondità che le sue fotografie hanno ciò che Hoppé ha voluto consapevolmente esprimere.
Una rotondità che dichiara l’esistenza qui ed ora dell’oggetto con la sua funzione, ma ne lascia intravedere anche il disegno per così dire ideale, quello legato alla sua ratio compositiva al suo correlarsi allo spazio circostante come pura presenza plastica, in ultima analisi artistica.
Per noi abitatori del paesaggio post-industriale e della crisi conseguente queste immagini, col loro elegante feticismo per la creazione meccanica, costituiscono una vera e propria archeologia del sapere che ha sorretto il secolo scorso, fino a che è stata sostituita dai cristalli e dai pixel della tecnologia digitale, oggetti liquidi e non più plastici, i quali non ambiscono più a essere fotografati, sono essi stessi l’immagine che ci comprende.
[Immagine: Foto di Emil Otto Hoppé (as)].
Il riferimento non detto di chi ha scritto questo articolo è a Walter Benjamin ed alla sua concezione della fotografia che qui viene male inteso. Mi permetto di suggerire la visione di questo documentario su Walter Benjamin che sa illlustrare bene e senza fraintendimenti i punti di vista di Benjamin: http://bit.ly/1kWvpzD
Ho voluto io aggiungere i sottotitoli in inglese che con mia sorpresa sono stati apprezzati da Kenneth Goldsmith sul suo sito sito di riferimento UBU web:
http://ubu.com/film/benjamin_fragments.html
Non credo sia obbligatorio il, sia pur rilevante, riferimento a Benjamin per intendere questo bell’articolo. Dopo i ritratti di Pound, T.S. Eliot e Marinetti, questo fotografo si è dedicato a oggetti e siti industriali in tutto il mondo. Più in generale mi pare che Sarchi ci inviti a ripensare al mito industriale, al modernismo, e al rapporto tra arte e tecnologia, alla luce del presente. E’, in sintesi, la nostra archeologia, o il nostro sottosuolo psicosociale, a esser sollecitato. Eliche, Turbine, Caldaie, Grandi motori stanno alla tecnologia virtuale di specie elettronica come L’Empire State sta alle Torri Gemelle. E entrambe le forme simboliche sono dentro di noi: data la rapidissima transizione italiana (paese ‘in ritardo’) dall’età industriale a quella postindustriale, nello spazio e nel tempo di una o due generazioni. Cercherò di andare a vedere questa mostra… Grazie.