di Massimo Gezzi
[Esce oggi per Italic Pequod Tra le pagine e il mondo. Dieci anni di incontri, dialoghi, letture, un libro in cui ho raccolto le interviste ai poeti uscite su riviste e quotidiani e le recensioni ai libri di poesia scritte negli ultimi dieci anni. Tra i poeti intervistati, oltre a Seamus Heaney, Giovanni Raboni, Edoardo Sanguineti, Aldo Nove, Milo De Angelis e Umberto Piersanti, c’è John Ashbery, con cui ho dialogato in occasione dell’uscita della sua antologia Un mondo che non può essere migliore. Poesie scelte 1956-2007 (Luca Sossella Editore), curata da Damiano Abeni e Joseph Harrison. Ecco l’intervista, uscita nel 2009 su «Poesia» di Crocetti].
Mezzo secolo fa John Ashbery aveva trentun anni. Due anni prima Wystan Hugh Auden aveva premiato il suo libro d’esordio, Some Trees (1956), al concorso bandito dalla prestigiosa Yale Series of Younger Poets. È grazie a questo evento, con tutta probabilità, che Alfredo Rizzardi lo scova e lo inserisce nella sua antologia Poesia americana del dopoguerra (Schwarz 1958). Per Ashbery è la prima volta in assoluto che i suoi testi appaiono all’estero in traduzione. La prima di una lunghissima serie, come sarebbe stato evidente di lì a poco. Cinquant’anni dopo, quando il poeta americano più premiato e discusso degli ultimi tempi si lascia ormai alle spalle la soglia degli ottanta, l’editoria italiana torna a ricordarsi di lui con un libro prezioso che tutti gli appassionati di poesia dovrebbero correre a mettersi in casa: la prima antologia italiana che attinge a oltre cinquant’anni di opere con la collaborazione diretta dell’autore.
Il libro, di formato grande e con una folgorante copertina rossa e grigia (un particolare del Red Cube di Isamu Noguchi), è stato da poco pubblicato da luca sossella editore, per la cura di uno dei nostri migliori traduttori di poesia americana, Damiano Abeni, e del poeta statunitense Joseph Harrison. La traduzione è dello stesso Abeni, in collaborazione con la poetessa americana Moira Egan (ormai romana d’adozione), approdata di recente al The Best American Poetry 2008. Il libro si intitola Un mondo che non può essere migliore. Poesie scelte 1956-2007, ed è uno dei fiori all’occhiello della collana «arte poetica», che tra i suoi meriti annovera quello di aver rivalorizzato il genere dell’autoantologia, che sia di autori italiani (Frasca o l’imminente Roversi) o stranieri (il grande poeta inglese Geoffrey Hill e, per l’appunto, John Ashbery).
Non che il poeta di Rochester, prima d’ora, fosse del tutto sconosciuto da noi: Aldo Busi, nel 1983, aveva tradotto l’opera più celebre di Ashbery, quell’Autoritratto in uno specchio convesso (1975), dichiaratamente ispirato dall’omonimo dipinto del Parmigianino, che resta ancora oggi l’unico libro di poesia ad aver vinto tutti e tre i maggiori premi statunitensi, cioè il Pulitzer, il National Book Award e il National Book Critics Circle Award. Ma, appunto, parliamo di venticinque anni fa, e in un Paese in cui i libri di poesia campano mediamente un paio d’anni prima di sparire dalla circolazione, è persino ovvio constatare che un lettore italiano, prima del giugno scorso, avrebbe faticato non poco a trovare qualcosa di uno dei massimi poeti americani viventi. Forse i più tenaci avrebbero potuto scovare qualche poesia in rivista: per esempio quelle contenute nell’Almanacco dello specchio 2 (1973) e tradotte da Silvano Sabbadini, che poi ritornò su Ashbery nel 1990 (numero 3 di «Testo a fronte»); o diversi fascicoli di «Nuovi Argomenti» tra anni ’80 e ’90, con traduzioni di Edward Lynch, Edoardo Albinati, Barbara Gastaldello e lo stesso Sabbadini; o ancora cinque o sei numeri della rivista che avete sottomano (il 32, con traduzioni di Albinati e Pietro Pedace; il 65 e il 200, con versioni di Nicola Gardini e Massimo Bacigalupo; il 115, con traduzioni e lungo saggio di Paolo Prezzavento; il 152, dedicato ad Ashbery sin dalla copertina, con articolo e versioni di Nicola Gardini; il 223, con la sola And Ut Pictura Poiesis is Her Name tradotta da Bacigalupo); infine il fascicolo 4 (2004) della rivista «Smerilliana», in cui ancora Prezzavento tradusse un lungo Frammento ashberiano, e il numero 35 (2005) di «Nuovi Argomenti», in cui Abeni anticipò una decina di versioni confluite oggi (quasi tutte) nel volume Sossella. C’erano anche, è vero, alcune sparute antologie di poesia americana che comprendevano Ashbery: Storie di ordinaria poesia curata da Riccardo Duranti per Savelli nel 1982, per esempio. Ma se un lettore degli anni Novanta e Duemila avesse desiderato un libro del poeta americano, non avrebbe di sicuro disposto di un’ampia scelta: nel 1997 Prezzavento tradusse Flow Chart (1991) per le Edizioni del Bradipo di Lugo; due anni dopo Albinati curò il volumetto Syringa e altre poesie per Il Labirinto di Roma; e l’anno scorso, in occasione dell’ottantesimo compleanno del poeta, il solito Abeni allestì una bella plaquette intitolata Fiumi di ali per le Edizioni l’Obliquo di Brescia (con una nota di Marco Giovenale). Ma, a parte questi encomiabili sforzi da parte di un’editoria in cui talvolta le dimensioni e il volume d’affari sono inversamente proporzionali alla qualità del pubblicato, Ashbery da noi era un poeta dimenticato e sconosciuto ai più.
Una delle ragioni plausibili di questo incredibile e ingiustificabile ritardo, a parte l’esagerata e tutta italiana infatuazione per la Beat Generation, sta forse nella ormai proverbiale difficoltà (o oscurità?) di questi testi. Da sempre, infatti, le poesie di Ashbery scatenano un’aspra querelle tra chi le ritiene gratuite, frastornanti, certe volte addirittura «totally meaningless», e chi le considera invece oggetti estetici ardui e sfuggenti ma assolutamente affascinanti. Scorrendo le pagine di alcuni critici e recensori che si sono occupati di questa poesia, si ha l’impressione che di essa si riesca a parlare solo se la si paragoni a qualcos’altro, come per esorcizzarne e scongiurarne l’imprendibilità. Qualcuno, allora, ha parlato di «tele verbali» (Moramarco), qualcun altro sostiene che per entrare nel mondo poetico di Ashbery il lettore deve preliminarmente imparare una sorta di «nuova scala musicale» (Kalstone); altri hanno paragonato questa scrittura e le mille voci che l’attraversano all’isola di Calibano (Bedient), mentre a qualche lettore, più prosaicamente, la lettura di Ashbery fa lo stesso effetto di «una tanica di gas letterario esilarante che eccita e confonde in pari misura» (Kirby).
Tutte considerazioni intelligenti e in certa misura pertinenti: Ashbery, come poeta e come uomo, ha un finissimo senso dell’ironia e dell’umorismo, tanto da ammettere di essere dispiaciuto se le sue poesie non fanno ridere abbastanza, quando gli capita di leggerle in pubblico; è un raffinatissimo musicofilo, che in un’intervista ha dichiarato di pensare prima alla musica e poi alla poesia, e di considerare lo spazio poetico come una sorta di spazio musicale; è un grande appassionato e intenditore d’arte (ha lavorato a lungo come critico d’arte per l’International Herald Tribune, poi come corrispondente da Parigi, dove ha vissuto dieci anni, del magazine americano Art News, di cui in séguito è stato redattore), ed è lui stesso, in un testo dal titolo assai eloquente (And Ut Pictura Poesis is Her Name), a parlare di «poem-painting», di «poesia-quadro». D’altronde Ashbery non ha mai fatto mistero della sua predilezione per l’espressionismo astratto di un de Kooning, di un Pollock o di un Rauschenberg, eredi e prosecutori americani delle spinte avanguardistiche europee di inizio secolo, o per un tipo di arte geneticamente eccentrica come l’Outsider Art (o Art Brut) di un Henry Darger, dalla cui pittura si fece ispirare per la composizione della poesia-libro Girls on the Run (1999). Fiero avversario della «confessional poetry» alla Robert Lowell (genere che in un’intervista ha definito, in modo sprezzante, «poetry of pain», «poesia del dolore»), Ashbery predilige da sempre una poesia-collage in cui le parole, secondo l’impressione di diversi lettori, vengono usate in modo astratto e anti-figurativo. Non stupisce, dunque, che la lettura dei suoi testi provochi spesso una sorta di spaesamento, oltre che un’infinità di grattacapo ai pur solerti traduttori: Massimo Bacigalupo ha parlato a tal proposito di «versi che sfuggono al senso pur non cessando di mimarne l’immanenza»; «vai avanti a leggere», ha concluso da parte sua Nicola Gardini, «e, senza esserti perso, non sai più dove sei arrivato». Interrogato sulle sue scelte estetiche, che agli occhi di un pubblico americano appaiono forse ancor più spiazzanti di quanto non sembrino a noi, l’autore scantona e se la cava spesso con una battuta che mette elegantemente a tacere critici e ficcanaso: «Anche io, come molte altre persone, sono piuttosto confuso dal mio lavoro», ha dichiarato una volta a una rivista: «La cosa mi ha sempre incuriosito, ma allo stesso tempo mi ha sempre messo un po’ di timore e una sorta di imbarazzo per il fatto di dover seccare gli stessi critici che da sempre sono seccati dalla mia opera. Voglio dire, mi dispiace di causare tutta questa pena…». Quello che impedisce a qualunque lettore di arrendersi e di liquidare persino i testi più impervi di Ashbery è l’intuizione che al di sotto di quella superficie elusiva e magmatica («un tutto enorme e perpetuamente cangiante» che riflette alla perfezione la natura della realtà, l’ha definita Paul Auster) esista qualcosa di incandescente, di urgente, di vero, e che anzi questa verità si possa cogliere solo rinunciando a quella sorta di coazione alla coerenza che costituisce in fondo una della illusioni fondanti del cogito: se la poesia di Ashbery, come ha scritto qualcuno, rischia di «far sentire stupidi», questo andrà considerato come il primo necessario passo per una maturazione profonda che implica persino, come dichiara lo stesso poeta americano in una risposta alle mie domande, un accrescimento di sapienza o di saggezza.
Prima di interpellare Ashbery, mi sono fatto raccontare da Damiano Abeni come è stata progettata questa antologia, e che ruolo ha avuto il poeta nella sua costruzione: «Un ruolo fondamentale», mi spiega il traduttore: «Io e Joe Harrison, d’accordo con Ashbery, ci siamo presi l’impegno di allestire una lista di poesie da presentare direttamente a lui. Da qui è iniziata una lunga corrispondenza tra me e Harrison, durante la quale abbiamo cercato di ragionare su quale fosse la scelta più equilibrata da farsi. Volevamo dare al lettore italiano un assaggio di tutti i libri di Ashbery, senza enfatizzare troppo quelli degli anni settanta, che sono gli anni della sua consacrazione e del suo massimo successo». Per scegliere i testi, Abeni e Harrison impiegano ben tre mesi: «È stato un processo molto difficile, ancor più perché nei suoi Selected Poems del 1985, che noi abbiamo preso come punto di riferimento, Ashbery ha deliberatamente lasciato fuori alcune di quelle che noi ritenevamo le sue poesie migliori». È stato Harrison, allievo di uno dei massimi estimatori di Ashbery (vale a dire Harold Bloom), a proporre ad Abeni una primissima scelta. Il traduttore l’ha ritoccata, in base alle sue preferenze e alla potenziale riuscita del testo in traduzione, e infine, dopo tre mesi, il poeta ha ricevuto una proposta di indice. «Ashbery non si è affatto limitato ad accettare la nostra lista», continua Abeni: «Ha sostituito alcune poesie, ne ha proposte altre, ha persino selezionato di persona gli estratti dei testi più lunghi come And the Stars Were Shining, Three Poems, Girls on the Run, ecc., cosa che rende questa autoantologia un oggetto letterario assolutamente unico».
Ashbery ha anche saputo opporre dei netti dinieghi alle proposte dei curatori: «Per esempio, quando gli abbiamo proposto di pubblicare per intero la sua poesia più celebre e premiata, cioè Self-Portrait in a Convex Mirror, lui è stato estremamente fermo nel vietarcelo». Un mondo che non può essere migliore attinge a cinquant’anni di produzione, spingendosi fino al recentissimo A Worldly Country (2007): «Da questa raccolta, uscita mentre noi eravamo già da tempo al lavoro, è stato direttamente il poeta a estrapolare i testi». Chiedo ad Abeni che cosa ha significato per lui e per Moira Egan tradurre giorno dopo giorno testi così frastornarti: «Un’esperienza incredibile», risponde lui, che adora il mestiere di tradurre (o meglio l’hobby, essendo in realtà medico di professione): «Dopo qualche tempo mi sono accorto che cominciavo a pensare come i testi di Ashbery: mi arrivavano mail in inglese in cui venivo invitato a un evento, e io mi sorprendevo a chiedermi se lo “you” a cui era rivolto l’invito fosse una seconda persona singolare o plurale…». Chiedo anche come si sono ripartiti il lavoro lui e Moira Egan (i due, dall’anno scorso, sono anche coniugi, oltre che colleghi): «Moira mi ha aiutato tantissimo: in Ashbery anche le poesie apparentemente più semplici hanno sempre un doppio fondo di senso, un piano nascosto che si rischia sempre di non vedere. Moira è stata fondamentale, in questo, aiutandomi anche a riconoscere un’infinità di slang e moltissime citazioni più o meno criptate (da Emerson, dalla Bibbia, da Whitman, da Stevens…). Talvolta Ashbery è arduo anche per lei, che è americana. Una volta, mentre traducevamo, mi disse che le dispiaceva di non poter parlare con i suoi nonni morti: sarebbero stati ottimi consiglieri per decifrare alcuni vecchi slang ormai in disuso e ripescati direttamente dagli anni cinquanta…».
Con l’aiuto di Abeni sono riuscito poi a raggiungere John Ashbery. A ottantun anni suonati, era impegnatissimo nell’allestimento della sua prima mostra da artista visivo, presso la Tibor de Nagy Gallery di New York: due dozzine di collages, realizzati nel corso degli anni in solitudine o insieme all’artista Joe Brainard (1942-1995), che usava spedire al poeta buste piene di vecchie cartoline e di ritagli di giornali chiedendogli di usarli nelle sue opere future. Nonostante questo, Ashbery ha accettato di rispondere a un’intervista piuttosto articolata, che riproduco qui di seguito. Essendo un uomo estremamente cortese e uno dei poeti più premiati d’America (l’anno scorso è stato persino nominato primo poeta laureato del canale musicale MTV…), nel corso degli anni ha concesso numerose interviste. Ho cercato di leggerne diverse, prima di elaborare le mie domande, per evitare di chiedergli per l’ennesima volta, per esempio, quali siano le sue influenze letterarie (ovvero Eliot, Rimbaud, Whitman, la Gertrude Stein delle pitture verbali di Tender Buttons, l’amatissimo Raymond Roussel, Wallace Stevens, il primo Auden, Swinburne per qualche esperimento metrico e ovviamente i poèmes-trouvés di Breton e degli altri surrealisti degli anni Venti), o di spiegare il significato di qualche verso particolarmente oscuro, operazione da cui l’autore continua astutamente ad astenersi, talvolta sorprendendosi persino, con i suoi interlocutori, di essere proprio lui l’autore dei versi di cui gli si chiede conto. Le sue risposte sono ora argutamente fulminee, magari a fronte di una domanda un po’ pretenziosa, ora più ampie e distese. Volevo capire innanzi tutto cosa rappresentino per lui, primo poeta vivente a essere pubblicato dalla monumentalizzante Library of America, questa autoantologia e il pubblico italiano a cui è destinata.
L’antologia curata da Damiano Abeni e Joseph Harrison per luca sossella editore – la prima in assoluto, in Italia, a presentare testi scelti in collaborazione con lei – esce cinquanta anni dopo la prima apparizione di sue poesie in lingua straniera. Anche allora si trattava di un’antologia italiana, ovvero Poesia americana del dopoguerra, a cura di Alfredo Rizzardi. Cosa rappresenta per lei l’Italia e il pubblico italiano?
Non saprei dire come le mie poesie siano andate a finire nell’antologia di Rizzardi, dato che a quell’epoca ero piuttosto sconosciuto persino in America. Negli anni settanta il mio libro Autoritratto in uno specchio convesso attirò molta attenzione, vinse diversi premi letterari e fu tradotto in Italia da Aldo Busi. Speravo che la cosa fosse seguita dalle traduzioni delle mie poesie successive, ma fin qui non era mai successo, anche se un editore italiano aveva opzionato un’altra mia raccolta, rinnovando ripetutamente l’opzione ma senza pubblicare mai il libro. Come spiegare quello che l’Italia e i lettori italiani rappresentano per me? Sono tremendamente importanti, ovvio, come lo sarebbero per chiunque. Sono molto soddisfatto della generosa selezione del mio lavoro operata da Abeni e Egan. Il mio italiano va bene per leggere un giornale, non certo per giudicare la qualità della poesia. Ma dalle conversazioni con i traduttori e da altri commenti, credo che abbiano fatto un lavoro eccellente.
A proposito della ormai proverbiale difficoltà della sua poesia: in un saggio del 1991, un poeta e intellettuale italiano, Franco Fortini, ha distinto tra poesia difficile (comunque comprensibile da parte di un lettore volenteroso) e poesia oscura (in ogni caso incomprensibile, anche a chi la scrive). Condivide questa distinzione? E su quale versante collocherebbe la sua produzione poetica?
Non saprei immaginare un poeta che si siede e sceglie tra poesia «difficile» e poesia «oscura». Come si fa a sapere cosa sarà «comprensibile» da parte di un «lettore volenteroso» e cosa sarà «comunque incomprensibile, anche a chi scrive»? Chiedere a me se la mia poesia sia più difficile o più oscura è come chiedermi quale veleno sceglierei per mettere fine alla mia vita. Non ho mai programmato di essere né l’una né l’altra cosa. In ogni modo, i miei gusti letterari si sono formati durante quella che ora sembra la lontana era del modernismo del XX secolo, cioè l’età di Proust, Joyce, Kafka, Henry James, Gertrude Stein e i Surrealisti, per citare solo alcuni scrittori che hanno contribuito alla formazione della mia sensibilità di scrittore. Ovviamente alcuni di questi scrittori sono difficili, e io sono stato sempre attratto da quello che Yeats definiva «il fascino del difficile», perché avevo l’impressione che dopo aver letto qualcosa di difficile sarei diventato più sapiente. Ora sembra che i lettori non la pensino più così, per lo meno in America, dove la «leggibilità» è tenuta in gran conto, ma io continuo a pensare che la migliore poesia e arte spesso richiedano un certo sforzo per essere apprezzate.
Durante un’intervista lei ha dichiarato che nessuno, in una poesia, vorrebbe trovarsi a leggere di guerra, perché è già abbastanza triste che la guerra esista. In un passaggio di A Wave (1984), poi, si legge: «Le sorprese / Che la storia ci riserba non sono nulla paragonate / Alle violente emozioni che ricaviamo gli uni dagli altri». La poesia, secondo lei, deve partire solo dalla microstoria individuale, ignorando quella generale?
Ovviamente mi sbagliavo quando dicevo che a nessuno piace leggere di guerra in una poesia, dal momento che a molte persone piace (nelle interviste si dicono un sacco di cose di cui poi ci si pente…). Non credo che la poesia dovrebbe «partire solo dalla microstoria individuale, ignorando quella generale». D’altro canto, non credo che la poesia «debba» (o «non debba») fare qualcosa.
Che rapporto ha avuto e ha con l’arte e la letteratura italiane? Come è noto, il titolo del suo libro più premiato, Self-Portrait in a Convex Mirror, allude a un dipinto di Parmigianino, mentre The Double Dream of Spring (1970) traduce Il doppio sogno di primavera di Giorgio De Chirico…
Non sono sicuro di avere una vera relazione con la letteratura italiana… Certamente amo la pittura del Rinascimento Italiano, come tutti. Detto questo, c’è qualche artista italiano isolato la cui opera mi attrae particolarmente. Uno è il Parmigianino. Una volta ho fatto un viaggio in Italia per vedere quanti più suoi quadri potevo (l’Autoritratto naturalmente è a Vienna, l’ho visto lì). Sassetta, Perugino, Piero di Cosimo, Moretto da Brescia, Moroni, Ceruti, Tiepolo, Morandi, di cui attualmente è in corso una mostra al Metropolitan Museum, sono altri miei pittori preferiti (non ho volutamente espresso preferenze per Piero, Leonardo, Michelangelo ecc.). Quanto ai film, al contrario, conosco e mi piacciono soprattutto i più famosi, come Fellini, Pasolini, Antonioni ecc, anche se una volta al Museum of Modern Art ho visto un bellissimo film muto intitolato I topi grigi. Conservo un caro ricordo del Cappotto, basato sul racconto di Gogol e interpretato da Renato Rascel, ma non so chi sia il regista. Non sono troppo esperto, ahimè, di letteratura italiana, a parte Dante, Leopardi, Svevo e Montale, perché non posso prescindere dalle traduzioni inglesi. De Chirico, com’è noto, scrisse in francese, e il suo romanzo Hebdomeros è un capolavoro, al pari di molti dei suoi primi quadri. Lei non ha menzionato i compositori, ma potrei citarle Monteverdi, Scarlatti, Busoni (è italiano, vero?), Casella, Scelsi, Donatoni e Gorli. Non mi piace troppo l’opera – ho qualche problema con la voce umana.
Un imperativo costante della sua scrittura sembra essere quello di non ripetersi, di combattere il l’establishment letterario e il poetic decorum, di trovare qualcosa che non abbiamo ancora scoperto e di non soffermarsi su quello che sappiamo già, forse sull’esempio di un poeta che lei stima molto come Raymond Roussel. Un’arte che comunica quello che sappiamo già, ha sostenuto lei, non comunica niente. Quali sentieri inediti sta percorrendo, dopo gli ottant’anni, la poesia di John Ashbery?
Sì, direi che è tutto vero, e continua ad esserlo anche oggi che ho raggiunto la ridicola età di ottantuno anni.
Uno dei suoi traduttori italiani, Nicola Gardini, in un articolo su «Poesia» (152, 2001), ha scritto che lei gli ha confessato di non riuscire a capire perché mai Montale sia considerato così importante. Mi conferma questo dubbio?
Non ricordo di aver fatto questa confessione. Se mai l’ho fatta no, non lo penso più.
Si sente dire spesso che lei ama più la poesia minore che quella dei «maggiori». È vero?
Probabilmente no, ma posso capire come sia potuta nascere questa impressione dalla scelta di poeti poco noti che ho fatto per le mie Norton Lectures di Harvard. Mi interessava presentare degli autori che avessero avuto un’influenza sulla mia scrittura, e ho omesso i maggiori (tra i quali avrebbero potuto esserci Auden e Wallace Stevens) perché hanno già ricevuto molta attenzione critica.
Anche nel campo dell’arte, lei sembra più affezionato all’arte outsider di Trevor Winkfield o di Henry Darger, da cui ha liberamente tratto Girls on the Run (1999), che ai maestri di prima grandezza. Cosa la attrae di questi artisti?
Di nuovo, ho sempre scritto di artisti che non sono troppo conosciuti solo per riportarli all’attenzione dei lettori. Certo, la fama è soprattutto una questione di casualità, e ora gli artisti Outsider come Darger spesso sono più famosi degli artisti «insider»…
Un critico americano, John Emil Vincent, ha sostenuto che lei, da April Galleons (1987) e soprattutto da Your Name Here (2000) in poi, avrebbe messo in atto una strategia di avvicinamento al lettore, considerandolo con più amore e attenzione di prima. Le sembra un’intuizione giusta? Se sì, si tratta di un mutamento intenzionale?
Preferisco pensare di essere stato sempre affezionato ai lettori, persino nei giorni in cui non ne avevo. Per quale altro motivo si dovrebbe scrivere, altrimenti?
Sia Damiano Abeni che Joseph Harrison ritengono che Houseboat Days (1977) sia il suo libro migliore. C’è una raccolta che lei predilige, per motivi artistici o personali? E perché?
È interessante che entrambi pensino che Houseboat Days sia il mio libro migliore. Secondo me è stato sempre sottovalutato, essendogli toccato in sorte di seguire da vicino il molto più noto Self- Portrait in a Convex Mirror. I miei preferiti potrebbero essere A Worldly Country, solo perché è recente (2007) e io tendo ad amare più di tutti il libro più recente, ma anche Three Poems (1972), che è stato un esperimento di scrittura di una prosa che speravo potesse avere lo stile esuberante della poesia. Non sono sicuro di esserci riuscito, ma mi sono divertito a provarci.
La Library of America ha appena pubblicato il primo volume dei suoi Collected Poems: lei è il primo poeta vivente in assoluto a essere pubblicato da questa prestigiosissima collana. D’altra parte, la sua opera è molto apprezzata anche dalla cultura pop: l’anno scorso, per esempio, lei è stato nominato primo poeta laureato del canale musicale MTV. Che impressione le fanno queste due prime assolute, piuttosto diverse l’una dall’altra?
Ne sono molto felice. La pubblicazione della Library of America è un onore sorprendente e piacevolissimo. È proprio come vedere la propria opera pubblicata in Francia dalla Pléiade. Ed è bello sapere che sono stato il primo MTVu Poet Laureate, anche se non saprei dire con certezza cosa vuol dire, dato che sono troppo vecchio per guardare MTV. Spero comunque che voglia dire un possibile allargamento del pubblico della poesia.
Lo scorso settembre lei ha fatto il suo debutto come artista visivo, con una mostra di due dozzine di piccoli collages esposti alla Tibor de Nagy Gallery di New York. Prima di tutto, com’è andata la mostra? E poi un’altra domanda: molti critici ripetono che lei usa il collage come il linguaggio e il linguaggio (o la letteratura) come il collage. Crede che sia giusto, e che ci sia davvero una relazione tra la sua scrittura e la sua arte visiva? Nella prefazione alla sua antologia italiana, per esempio, Joseph Harrison paragona le poesie di The Tennis Court Oath (1962) a dei collages….
La mostra è stata una sorpresa, tanto per me quanto per i visitatori della galleria. Avevo quasi dimenticato di aver prodotto dei collages, quando il mio amico, il pittore Trevor Winkfield (la cui mostra ha occupato gran parte della galleria, durante la mia esposizione) me ne ricordò, incoraggiando i proprietari della galleria a rintracciarli (Winkfield usa giustapposizioni di immagini simili al collage, nei suoi quadri, che sono fortemente influenzati da Raymond Roussel). La mostra ha ottenuto buone recensioni sul New York Times e su qualche altra pubblicazione. Sarei propenso ad ammettere che c’è stato sempre un fattore collage nella mia poesia, ovvero l’uso di improbabili giustapposizioni di parole e idee al fine di produrre strani e – spero – significativi riverberi. Harrison ha ragione nel collocare questa tendenza specialmente all’altezza di The Tennis Court Oath, quando ero particolarmente legato al collage come modo di sperimentare nuove tecniche di scrittura.
Molti interpreti della sua opera hanno usato, per descriverla, delle metafore di tipo pittorico, teatrale, cinematografico o musicale. Qualcuno ha parlato, per esempio, di «tele verbali», ricordando la sua predilezione per l’espressionismo astratto; altri hanno sostenuto che un lettore, per poter esplorare la nuova geografia disegnata dalle sue parole, deve prima imparare una sorta di nuova scala musicale. Anche lei, d’altronde, ha sostenuto che quando scrive pensa prima di tutto alla musica (e d’altronde titoli come And the Stars Were Shining, o Andante Misterioso sono piuttosto eloquenti, in fatto di musica), e ha ammesso il probabile influsso di alcuni registi (Guy Maddin, David Lynch – forse anche Luis Buñuel, ipotizzo io…) sulla sua scrittura. È come se la sua poesia possa essere esplorata e recepita solo tenendo presente la sua profonda intersezione con le altri arti. Cosa ne pensa?
Beh, spero che non sia vero e che la mia opera possa essere considerata indipendente da qualsiasi forma d’arte abbia contribuito a ispirarla.
Una volta lei ha sostenuto che l’America le è sempre sembrato un paese straniero, e che vivere all’estero fa comprendere da dove veniamo. È sempre di questa opinione? L’America è ancora un paese straniero per lei? Quali sono i poeti o gli scrittori americani che apprezza e frequenta di più?
L’America continua a sembrarmi un paese straniero, forse ora più che mai. D’altra parte, nei dieci anni che ho passato in Francia ho scoperto che sentirmi straniero mi piace. È stata Gertrude Stein a notare per prima che vivere a Parigi la faceva sentire più consapevole della sua identità americana. Una lista di poeti e scrittori americani che apprezzo sarebbe molto lunga, se dovessi inserire i contemporanei, inclusi i più giovani, i cui nomi non direbbero nulla ai lettori italiani. Tra i più «vecchi» includerei Whitman, Stevens, Marianne Moore, Elizabeth Bishop, Jane Bowles e anche T.S. Eliot e Auden, anche se a questi due non si sa che nazionalità assegnare.
Un’ultima curiosità. Lei ha più volte dichiarato di considerare molto importanti i titoli, aggiungendo che spesso comincia a scrivere a partire dalla suggestione di un bel titolo. Le piace il titolo scelto dai curatori della sua antologia italiana? Anche la copertina le è piaciuta, vero?
Sì, tendo a pensare ai titoli per prima cosa. Mi sembrano come un’apertura, un’indicazione rispetto alla direzione che la poesia prenderà. Forse in questo mi ha influenzato Wallace Stevens. I suoi titoli spesso determinano il modo in cui vanno interpretati i testi, per esempio la sua Mrs. Alfred Uruguay: se il poeta non ci avesse detto che la poesia parla di una donna che ha il nome di una nazione, noi leggeremmo quel testo in modo diverso. Sì, il titolo della mia antologia italiana mi piace, e mi piace anche il fatto che la poesia da cui è tratto non compaia nel libro. E la copertina è splendida.
[Uscita su «Poesia», XXII (2009), 234, gennaio 2009].
[Immagine: John Ashbery (mg)].
@ Massimo Gezzi
Caro Gezzi, con tutta la simpatia e la stima che ho per te, davanti alla tua intervista ad Ashbery mi viene da fare la stessa domanda che ho fatto per quella a Moresco: cosa dice d’importante per noi qui, in Italia, questo poeta americano, che pare ancorato al gusto aristocratico e berensoniano del Rinascimento italiano?
Nelle sue risposte (non so quanto «argutamente fulminee» o distratte) trovo annotazioni generiche («Come spiegare quello che l’Italia e i lettori italiani rappresentano per me? Sono tremendamente importanti, ovvio, come lo sarebbero per chiunque.»), sufficientemente banali o reticenti («Non saprei immaginare un poeta che si siede e sceglie tra poesia «difficile» e poesia «oscura».»), non argomentate («io continuo a pensare che la migliore poesia e arte spesso richiedano un certo sforzo per essere apprezzate»; « non credo che la poesia «debba» (o «non debba») fare qualcosa.»). Ma soprattutto – e qui la responsabilità mi pare dell’intervistatore (e dunque della tua “ideologia”…) – domande e risposte sono tutte riferite al “cosmo letterario-poetico-artistico” forse in comune tra te e l’intervistato. Che per essere sovranazionale non mi pare né aggiornato né problematico.
Spiegasse almeno perché l’America continua a sembrargli « un paese straniero, forse ora più che mai». (E ci fosse una domanda sulla politica che questo paese «straniero» svolge a livello mondiale!).
Caro Abate,
ti ringrazio delle obiezioni. Certo, in un’intervista fatta per e-mail è difficile dialogare a fondo e problematizzare: non si può rilanciare, non si può controbattere, non si può riflettere in presa diretta sulla risposta dell’interlocutore.
Le domande di quest’intervista vertono sicuramente sul «cosmo letterario-poetico-artistico», come lo definisci tu: era un’intervista di taglio divulgativo, fatta a un poeta semi-sconosciuto da noi, che mirava a destare qualche curiosità innanzi tutto sulla sua opera letteraria in occasione dell’uscita di una sua importante autoantologia, la prima in Italia.
Qualche appiglio “ideologico”, d’altra parte, Ashbery avrebbe potuto trovarlo, se avesse voluto: sai meglio di me che Fortini, quando distingue tra oscurità e difficoltà, parla anche della coscienza ideologica di chi scrive, così come fingi di non vedere, per la tua irresistibile vocazione alla bacchettata, le implicazioni della domanda sul poetic decorum e sull’establishment letterario, o quelle della domanda sulla poesia come ricettacolo di «microstorie individuali», e naturalmente quelle (anche politiche) del quesito sull’America come paese straniero. Se poi Ashbery ha risposto schivando queste implicazioni, o liquidandole con una battuta che dissolve con nonchalance parecchi astratti furori («D’altro canto, non credo che la poesia “debba” (o “non debba”) fare qualcosa»), non è affare della mia ideologia, credo (o meglio, lo sarebbe se avessi potuto rispondere, rilanciare – e non è detto che l’avrei sempre fatto).
In ogni caso, è straordinario come tu abbia già capito, da queste poche battute, che Ashbery non ha niente da insegnarci. Prova a leggere la sua opera, prima di tirare somme preventive, e vedrai che certi scrittori possiedono la capacità di metterci di fronte a qualcosa di diverso dall’identico che andiamo cercando, per celebrarlo o per liquidarlo a colpi di bacchettate.
Un saluto,
Massimo Gezzi
Aggiungo un post scriptum: se avrai la bontà di sfogliare queste pagine, vedrai che di domande che non parlano solo del «cosmo letterario» ce ne sono, e parecchie (talvolta poste, in primo luogo, per una mia necessità di capire meglio le cose). Ma mi sono già fatto troppa pubblicità, quindi taccio.
@ Gezzi
Leggerò, leggerò, se altre letture non mi impediranno queste…
Grazie della risposta.
E’ poesia attuale, sul quotidiano, tende alla prosa e parla della nostra vita ,piccola, di un microcosmo di relazioni. Tende alla prosa,come scrive Berardinelli, è molto narrativa, molto stimolante. Non basta? Dobbiamo parlare sempre di noi italiani, di come siamo e di come dovremmo essere’ Impariamao anche da altri. Il poeta viaggia nel pensiero, tra gli uomini e nomade, e scrive di questo, oltre che del sè. E’ cosmopolita e nomade per natura. O non è
é nomade
Il poeta e critico Richard Howard, nel recensire The Double Dream of Spring (Il Doppio Sogno della Primavera) sulla rivista “Poetry” scriveva che, «le poesie non sono “su” nulla, sono loro a essere qualcosa, esse sono la loro stessa creazione, e sarebbe più giusto dire che il mondo è, invece, una loro chiosa, un saggio critico su di esse. Con tutta la sua modestia e amabilità, nondimeno questa è la grande asserzione simbolista di Ashbery: che il mondo esista per finire in un libro».
Il vago sospetto è che sarà sempre così,
l’apparenza, il modo in cui le cose all’inizio si terrorizzavano
nella luce della notte e poi si rivelarono essere,
seppure ancora capaci, nondimeno, di un’angusta fedeltà
che tu e loro volevate diventare:
niente sospiri come musica russa, solo un immenso sdinapanarsi
fuori verso i punti di confluenza e la tenebra oltre
questi prati spogli, costruiti a spese dell’oggi.
Ora, ditemi vale la penna di leggerlo e recensirlo?. Con attenzione e in profondità ascoltiamolo, poi capiremo che questi versi ci turbano, entrano in noi…
pena
Sono contento che l’ottima intervista di Gezzi susciti qualche interesse nel pubblico italiano. Ma mi sorprendono affermazioni del tipo “[Ashbery è] ancorato al gusto aristocratico e berensoniano del Rinascimento italiano”, che oltre ad essere gratuite sono palesemente fuori bersaglio.
Ad esempio, invito Ennio Abate – come anche tutti i lettori di questa rivista – a citarmi il titolo anche di una sola composizione di Gorli, di Donatoni, di Scelsi (ma anche, andando più indietro) di Casella e Busoni, senza consultare alcuna fonte. Scommetto che ci troveremo in pochi.
Orbene, e anche qui solo per fare un esempio, Ashbery possiede 23 CD con musica di Franco Donatoni.
Facciamo le debite proporzioni con noi stessi, con il nostro gusto aristocratico e berensoniano, con il nostro essere pigri e obsoleti, e poi riparliamone.
buon giorno.
a Pagina 3, su Radio 3, stamattina, in occasione della morte di Ashbery, è stata citata questa intervista importante. la rileggo con piacere.
paola lovisolo
Cliccando per leggere il commento di paola lovisolo, mi accorgo in ritardo dell’invito/sfida di Damiano Abeni:
“Ad esempio, invito Ennio Abate – come anche tutti i lettori di questa rivista – a citarmi il titolo anche di una sola composizione di Gorli, di Donatoni, di Scelsi (ma anche, andando più indietro) di Casella e Busoni, senza consultare alcuna fonte. Scommetto che ci troveremo in pochi”. E replico ora, dicendo che non ho nessuna vergogna ( né mi vanto, eh!) per non saper citare “una sola composizione di…”. Avevo semplicemente scritto: “pare ancorato al gusto aristocratico e berensoniano del Rinascimento italiano”. Ho, dunque presentato la mia affermazione come *impressione*. Cosa c’è (o c’era) di scandaloso?
P.s.
E già che rileggo anche la risposta ricevuta da Massimo Gezzi ( ” è straordinario come tu abbia già capito, da queste poche battute, che Ashbery non ha niente da insegnarci”), aggiungo: ma dove ho sostenuto che “non ha niente da insegnarci”?
Buon lavoro ad entrambi.