cropped-Ruff-Cassini.jpgdi Giulio Mozzi

[Oggi esce la raccolta di racconti Favole del morire di Giulio Mozzi, con postafzione di Lorenzo Marchese, Laurana 2015, pp. 155, euro 14. Ringraziamo l’autore e l’editore per la pubblicazione di questo estratto].

Del colui non sappiamo niente: quindi immaginiamo. Non si disperde, va in un qualche luogo, il colui. Dove va? Va in un luogo che non è in nessun luogo. Questo è l’altro mondo. L’altro mondo non è in un altro luogo, come la Luna o Antares sono in un altro luogo rispetto alla Terra: l’altro mondo non è in nessun luogo, o è in un luogo rispetto al quale il luogo nel quale siamo non è in nessun luogo. Tutto ciò che c’è in questo mondo, eccettuati i colui, occupa dello spazio: l’altro mondo, che è il luogo nel quale vanno i colui, è un luogo che non occupa nessuno spazio. Quindi è un luogo che non contiene nessuno spazio. Qui vengono stoccati i colui, e attendono.

L’infinito numero dei colui non è un problema: non occupano nessuno spazio in un luogo che non contiene nessuno spazio. Ci saranno, in questo luogo, dei posti dove mettere i colui: ci saranno dei contenitori, dei bauli, degli armadi, dei magazzini, dei sili. Dove i colui vengono stipati. In numero innumerevole, poiché non occupano nessuno spazio. Il creatore, sempre sia benedetto, sta nei cieli seduto su una gigantesca madia piena di anime: ogni poco solleva il culo, sia benedetto anch’esso, e lascia apparire uno spiraglio: di lì entrano le anime, a stiparsi nella madia, ma nessuna ne sfugge. Il creatore, sempre sia benedetto, eternamente le cova: e attende che il mondo da lui creato esploda. Ci sarà allora la battaglia finale tra il creatore, sempre sia benedetto, e il Grande Aminoacido, e il Grande Aminoacido sarà sconfitto e rinchiuso in una gabbia.

Il creatore, sempre sia benedetto, getterà la gabbia nell’abisso degli abissi – un altro luogo che non è in nessun luogo: ci stiamo facendo il callo – e da lì mai più, per quanto ringhi e si scuota, per quanto morda il metallo e per quanto lo colpisca con la sua possente coda, per quanto implori la pietà del creatore, sempre sia benedetto, per quanto aduli il creatore, sempre sia benedetto, per quanto benedica il creatore, sempre sia benedetto, da lì mai più uscirà, il Grande Aminoacido. Non riuscirà nemmeno a far tremare le sbarre. Un angelo insonne lo sorveglierà: avrà una spada invincibile, una panca scomoda, un tavolo a tre gambe, e per passarsi il tempo un gioco d’incastro di infiniti pezzi. Com’è sciocca, l’immaginazione! Basta cambiare i nomi. Si dice il cielo, e si intende il luogo che non è in nessun luogo. Si dice le anime, e si intende i colui. Si dice il creatore, sempre sia benedetto, e si intende l’evento ignoto dal quale tutto ha avuto origine, sempre che la stessa idea di origine non sia una bufala. Si dice il Grande Aminoacido, e non si intende altro che la nostalgia.

Soffriranno tremendamente di nostalgia, le anime stipate nella madia. Non che non sia delizioso starsene lì al calduccio, liberati dal morire e dal nascere, senza nessuno che ti mangia e senza voler mangiare nessuno, eternamente covati dallo smisurato culo del creatore, sempre siano benedetti entrambi: ciascuna di quelle anime aveva avuto un corpo, e ciascuna anima e ciascun corpo, da quando il nascere li aveva intricati, erano stati inestricabili, finché il morire li aveva estricati: non dell’intricazione, non dell’estricazione, ma dell’inestricabilità le anime conservano una nostalgia. Così pregano, le anime stipate nella madia, pregano come possono, senza voce perché non hanno organi vocali, senza congiungere le mani perché non hanno mani, senza pensare perché non hanno cellule grigie: pregano, le anime, ininterrottamente, il creatore, sempre sia benedetto: O creatore sempre benedetto!, dicono le anime, O creatore sempre benedetto! – e non dicono altro, perché senza organi vocali e senza mani e senza cellule grigie non è che si sia capaci di dire gran che; e l’intelligenza delle anime, per quello che ne possiamo immaginare, non possedendo esse nemmeno una cellula, sarà inferiore addirittura a quella dell’ameba o del paramecio, possedendo l’ameba e il paramecio almeno, beati loro, una cellula coi fiocchi e controfiocchi. Pregano dunque, nella madia, le anime, ininterrottamente; e il loro ininterrotto pregare produce, nei secoli dei secoli, un calore: che nei secoli dei secoli penetra attraverso il coperchione della madia, raggiunge e riscalda lo smisurato culo del creatore, sempre siano benedetti entrambi, risale per i visceri del creatore, sempre siano benedetti quelli e questo, raggiunge finalmente la gran pompa cardiaca, sempre sia benedetta, e pian pianino, di un milionesimo di grado per ogni milione di secoli, la riscalda. E il creatore, sempre sia benedetto, si commuoverà; e chiamerà a sé l’angelo insonne, e gli comanderà di impugnare la spada invincibile e di fare a pezzi il Grande Aminoacido, di farlo in quanti più pezzi possibile: di ridurlo in polvere. L’angelo insonne eseguirà. Allora il creatore, sempre sia benedetto, solleverà il suo smisurato culo, sempre sia benedetto anch’esso, dal coperchione della madia, e getterà sulle anime la polvere di aminoacido. I ciò e i colui si mescoleranno e si rimescoleranno, la madia esploderà in mille milioni di frammenti di vita, ciascuno misteriosamente memore di tutta la storia passata, e avrà inizio il creato. Questa è la speranza: un’immaginazione.

[Immagine: Thomas Ruff, Cassini (gm)].

14 thoughts on “Favola del morire

  1. Tutto altamente plausibile, al di là del vero-non vero, godibile, visionario, intelligente, ironico e divertente. Malinconico anche. Da leggere ad alta voce e rileggere.

  2. curiosa, questa “nuova maniera” mozziana, così diversa dal mozzi che mi era familiare… lo cercherò in libreria.

  3. In realtà, Dario, questa “nuova maniera” è sì una “maniera”, ma non è tanto “nuova”. Il libretto raccoglie testi scritti dal 2003 a oggi (il frammento riportato da Le parole e le cose appartiene però a un testo dell’agosto 2014).
    Certo, sono cose uscite un po’ alla macchia, su riviste non esattamente di grande circolazione, o presso editori molto piccoli.

  4. Prosa di alta concentrazione e intensità, disperata per il fatto d’essere assai immaginifica, con una chiusa (“Questa è la speranza: un’immaginazione.”), a mio modo di vedere, superflua, che sembra servire a scusarsi d’aver osato tanto.

  5. Mah, Gaddo: se “fede è sustanza di cose sperate“, e la speranza è un’immaginazione, direi che non si tratta di una “scusa” per “aver osato tanto”. E’ – mi pare – un rivendicare il potere dell’immaginazione (altra cosa dall’illusione, sia chiaro), che costruisce la speranza – ciò in cui sperare.
    Ma delle idee e degli intenti dell’autore, come noto, si può spesso fare a meno.

  6. E’ che – così mi pare – il fremito didascalico, il “saluto” della fine, grava troppo sul testo. L’impasto, “bello gonfio”, perde la lievitazione e si svigorisce nella creaturalità. L’allegoria viene tenuta sotto scacco ed espunta dalla retorica dell’immaginazione.
    Non credo, infine, che delle idee dell’autore si possa fare a meno, specie quando erompe il tarlo dell’assertività e specie se ogni occasione di parola è intesa falsificabile.

  7. Gaddo, confesso che non ho capito la frase:

    L’allegoria viene tenuta sotto scacco ed espunta dalla retorica dell’immaginazione.

    (Anche perché non vedo dove sia l’allegoria).

  8. L’impianto allegorico dovrebbe auspicabilmente governare una simile prosa, la retorica dell’immaginazione, invece, adusa a compartimentare, scioglie la catena lipidica e adieu. “Un gioco d’incastro”.

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