di Claudio Giunta
[Questo articolo è uscito su «Internazionale»]
Come si diventa insegnanti? Serve un’abilitazione, e questa abilitazione è stato possibile ottenerla, in passato, in modi diversi. Due anni fa, per provare a ridurre il numero dei precari impiegati nella scuola, il Ministero dell’Istruzione ha aperto un Percorso Abilitante Speciale (PAS) per coloro che avevano già insegnato per tre anni anche non consecutivi nell’arco di tempo compreso tra il 1999 e il 2013. A questo PAS si accedeva senza concorso.
Adesso, in tutta Italia, cominciano a essere pubblicati i risultati dei PAS. Reperirli non è facile, perché non si trovano nel sito del ministero: bisogna cercarli nei siti delle università che hanno organizzato i corsi, e che però non informano sempre con esattezza circa il numero degli iscritti ai corsi e al numero dei respinti in itinere. Ma per quanto ho potuto vedere (e sentire, dai colleghi di altre università), quasi tutti i candidati hanno superato gli esami orali e scritti, e sono quindi abilitati. In alcune sedi, e in alcune classi di concorso, bisogna togliere il quasi: tutti i candidati sono stati promossi. Questo significa che, in alcune sedi, fra tutti coloro che si sono iscritti al PAS per l’abilitazione all’insegnamento (diciamo) dell’inglese alle superiori non c’era neppure una persona che nonfosse all’altezza del compito. Tutti all’altezza, tutti idonei.
Il dato dovrebbe sorprendere, e forse preoccupare, anche coloro che sono stati abilitati, e anche coloro che hanno firmato i verbali di queste abilitazioni: se tutti superano un esame, viene infatti il dubbio che l’esame fosse troppo facile o (ed è quasi lo stesso) che gli esaminatori siano stati tanto indulgenti da risultare ingiusti: nei confronti sia dei candidati più meritevoli, sia dei giovani che vorranno insegnare in futuro e avranno minori opportunità di farlo, sia dei cittadini che hanno affidato a quegli esaminatori il compito di distinguere, tra i candidati, i bravi dai mediocri.
Il dato sorprende certamente me, perché ho fatto parte di più d’una di queste commissioni e ho potuto verificare che – com’era da aspettarsi – tra i candidati ce n’erano alcuni che meritavano di diventare insegnanti di ruolo e ce n’erano alcuni che non lo meritavano affatto. Rilievo lapalissiano, lo so bene, e che basta l’esperienza di ognuno a confermare: in qualsiasi gruppo X di insegnanti ce ne sono di ottimi ma ce ne sono anche di molto scadenti, che sarebbe meglio facessero un altro lavoro. Ma è appunto questo dato d’esperienza che i risultati del PAS contraddicono in maniera così perentoria: perché dicono che quasi tutti o tutti gli esaminati erano idonei ad occupare una cattedra.
E dunque? Dunque bisogna riflettere sulle ragioni che hanno portato a un risultato che è, a lume di logica e di esperienza, un risultato assurdo; e a me pare che le ragioni siano tre.
La prima è l’inerzia. Dopo che il ministero ha deciso di creare questo ‘percorso abilitante speciale’, si è cominciato a dire che sarebbe stata una ope legis, cioè che i candidati andavano promossi; si è parlato di ‘pressioni da parte dei sindacati’, pressioni che io personalmente non ho affatto percepito (come si sarebbero manifestate, del resto?). Ma, percezioni a parte, bisogna tenere conto del fatto che i candidati non solo hanno dovuto seguire un anno di lezioni dedicate alle varie discipline d’insegnamento e alla pedagogia, ma hanno dovuto anche pagare questi corsi, una cifra oscillante tra i due e i tremila euro (che sono parecchi, per chi ne riceve mille alla fine del mese, quando va bene). Bocciarli? Alla fine di un anno di fatiche, durante il quale quasi tutti i candidati la mattina insegnavano, al pomeriggio andavano a lezione e la sera studiavano e preparavano – follia nella follia – le ‘tesine’? La dinamica stessa dell’esame sembrava incoraggiare alla clemenza: i candidati che ricevevano un’insufficienza potevano ripetere la prova dopo qualche giorno.
La seconda ragione è che bocciare, a un esame del genere, è molto penoso. Perché non è un semplice esame universitario, che si può rifare alla sessione successiva, è l’esame che decide se il precario X merita o non merita un posto di ruolo. Per molti è l’ultima occasione: bocciarli significa cambiargli, in peggio, la vita. Non è una decisione né facile né piacevole. Molti degli esaminatori hanno pensato o detto che «Arrivati a questo punto…», oppure che «Avrebbero dovuto fermarli prima», cioè non farli laureare, non assumerli mai in organico, nemmeno come supplenti. Ma adesso, dopo tre o più anni d’insegnamento, un anno di lezioni, interrogazioni e compiti, e due-tremila euro spesi, persone anche non più giovani… E allora si è premiato, si è concesso la sufficienza non per la preparazione (a volte, parlo ancora per esperienza, molto scarsa) ma per l’entusiasmo, lo zelo, o anche solo per la presenza alle lezioni, o la menzione, nella ‘tesina’ di pedagogia, dei quattro o cinque pseudo-concetti assorbiti in aula, e ripetuti come una giaculatoria:brainstorming, jigsaw, cooperative learning e simili.
Del resto, alcuni candidati non sono idonei a insegnare per ragioni che hanno a che fare non tanto con la loro preparazione ma col loro carattere, col loro modo di essere: li si ascolta parlare, e si capisce che non hanno mai letto un romanzo o un saggio al di fuori di quelli antologizzati nel manuale scolastico, che non leggono un giornale, che non saprebbero sostenere una conversazione su nulla, che hanno ancora, e avranno sempre, le ingenuità che avevano quand’erano studenti. Respingere questi candidati è difficile, perché l’esame verte sulle loro competenze disciplinari (o pedagogiche), non sul loro profilo intellettuale (come definirlo?) o sulla loro attitudine a insegnare (come dimostrare che il candidato X non la possiede?). Si scommette dunque sul fatto che un corso di pedagogia sia sufficiente a trasmettere a tutti questa attitudine. È una scommessa persa in partenza, è ovvio; ma si finge di vincerla, tanto nessuno – a parte gli allievi di questi insegnanti inadeguati – ne pagherà le conseguenze.
Ma né la prima né la seconda ragione sarebbero state sufficienti a generare questo lassismo se non ce ne fosse stata una terza più potente: la paura. Molti dei commissari avevano paura. «Lo bocciamo? Non vorrei che facesse ricorso…». «E se fa ricorso?». «Questo vedrai che fa ricorso». La maggior parte degli insegnanti della scuola e dell’università ha del diritto un’idea vaga, e in questa vaghezza c’è molta più minaccia che consolazione: nessuno vuole «essere portato in tribunale», nessuno vuole mettersi negli impicci, meglio far passare – con un voto appena un po’ più basso – il candidato litigioso, meglio non impuntarsi. Del resto, i commissari hanno delle buone ragioni. Gli uffici legali di alcuni atenei hanno mandato messaggi preoccupati; alcuni candidati sono stati ammessi alla prova finale con riserva (cioè dopo essere stati respinti ad una o più prove intermedie), perché «annunciano ricorso», per «coprirci le spalle, in caso di ricorso»; alcuni candidati si sono presentati all’esame orale accompagnati da un avvocato.
Per quanto possa sembrare strano (e inquietante), credo che sia stata proprio questa – questa paura non della Giustizia ma della giustizia amministrativa – la ragione principale che ha spinto molti dei commissari d’esame a ‘tenersi larghi’, o a lasciar correre. Ma sia inerzia, sia clemenza malintesa o sia paura, quello che mi sembra di poter dire, a ragion veduta, è che lo Stato non è in grado, oggi, di selezionare i suoi insegnanti.
Lo sarà nel prossimo futuro? Non credo proprio, se il prossimo futuro sarà affidato alla disciplina pedagogica della Buona Scuola. Leggo che «circa gli insegnanti in servizio, tutte le ricerche dimostrano che ciò che in loro è carente non è la competenza sulla materia, ma la qualità pedagogica: non sono stati preparati a confrontarsi con le problematiche dell’età adolescenziale e con gli interessi dei giovani d’oggi» (Giunio Luzzatto, «Sole 24 ore», 15.2.2015). Io non conosco tutte queste «ricerche». Sospetto ormai che ricerche sia soprattutto l’etichetta che appiccichiamo sulle nostre convinzioni o sui nostri interessi, per non doverci pensare più (ma posso dire che diffido degli adulti che pensano di avere la chiave delle «problematiche» e degli «interessi dei giovani d’oggi», e che pretendono di insegnare a me, o a chiunque altro, ad adoperare questa chiave). Quella che conosco di prima mano è la competenza disciplinare di molti studenti universitari che diventeranno prima o poi insegnanti, e anche quella di molti che insegnanti lo sono già; quello che so è che laureiamo persone che non sanno scrivere in italiano, che non hanno idea di cosa sia la letteratura dopo Svevo, che credono che Tito Livio sia un imperatore romano, che mettono Galileo nel Settecento e che pensano che Aldo Moro sia un uomo politico degli anni del fascismo.
C’è però un modo spiccio ed efficace per risolvere questo problema: non considerarlo un problema. E noi faremo così.
Claudio Giunta scrive:
“li si ascolta parlare, e si capisce che non hanno mai letto un romanzo o un saggio al di fuori di quelli antologizzati nel manuale scolastico, che non leggono un giornale, che non saprebbero sostenere una conversazione su nulla, che hanno ancora, e avranno sempre, le ingenuità che avevano quand’erano studenti. Respingere questi candidati è difficile, perché l’esame verte sulle loro competenze disciplinari (o pedagogiche), non sul loro profilo intellettuale (come definirlo?) o sulla loro attitudine a insegnare (come dimostrare che il candidato X non la possiede?).”
Da quello che ho capito dunque se basta “ascoltarli parlare” per capire il loro “profilo intellettuale” (ovvero se “hanno mai letto un romanzo o un saggio al di fuori di quelli antologizzati nel manuale scolastico”) e la loro “attitudine a insegnare (ovvero se sanno “sostenere una conversazione”) allora è totalmente falso che non esiste alcun criterio abbastanza oggettivo per misurare queste due caratteristiche (e questo dovrebbe valere anche per le proposte di valutazione da compiere sui docenti che già insegnano nelle scuole allo scopo di favorire la didattica di qualità e di evitare il più possibili abusi della libertà degli insegnamento come favoritismi, clientelismi e partite truccate, ben distinto da altri scopi come “accumulare soldi” o cose del genere). Io comunque oltre ad esami terrei in considerazione anche tirocinii e laboratori dove gli aspiranti docenti mostrano “sul campo” le loro effettive qualità.
In quanto al discorso finale sul fatto che si laureano persone che non sanno niente della letteratura dopo Svevo o chi era Aldo Moro mi conferma l’idea che una persona ignorante in Letteratura e Storia non è certo capace di insegnarla, ma di nuovo, non basta sapere la materia per saperla insegnare. Occorre dunque provvedere in ogni modo controllando non solo chi si appresta a entrare a insegnare nelle scuole ma anche a chi è già dentro esse ad insegnare.
Il discorso mi pare non faccia una piega. Avverto però che non abbiamo (ancora) toccato il fondo. In altri paesi (UK, USA) il ricorso lo possono fare – e spesso lo fanno – già gli studenti universitari dopo un esame fallito. E quando questo “processo” (interno all’università) avviene è il docente – follia nella follia – a dover dimostrare l’ignoranza del discente. Senza contare che un corso con molti bocciati dimostra alle ‘alte sfere’ dell’università (composte da manager, non da studiosi) che l’insegnante non sa insegnare e/o non soddisfa il criterio ormai esplicitamente richiesto per il posto: “ability to enhance customer satisfaction” (citazione letterale).
E così non solo non si boccia più nessuno, ma si diventa davvero dei pessimi insegnanti.
A Raffaello: il tuo discorso è interessante, ma bisognerebbe aprire un altro discorso: si dovrebbe in effetti compiere una netta distinzione tra lo scopo delle promozioni nelle scuole preuniversitarie (comprendenti anche gli esami di maturità) e lo scopo dei test di accesso ed esami presenti nelle università e nei concorsi per insegnanti o altri posti di lavoro.
Nel primo caso le promozioni non hanno il compito di selezionare ma di far apprendere a studenti certi saperi e competenze (in un altro articolo in questo sito infatti si proponeva di abolire in tale contesto le bocciature, certo modificando molte altre cose del tipo rendere più flessibili gli indirizzi e rendere il diploma qualcosa che precisa in quali materie lo studente è più portato), nel secondo caso invece lo scopo è selezionare persone per collocarle in posti di lavoro limitati e se i posti disponibili sono solo 50, anche se si presentano 100 persone che vogliono puntare a questi posti e che sono tutte abbastanza brave in quel lavoro, bisogna per forza di cosa selezionare i migliori fra i migliori (tutto questo perlomeno in teoria, non so ad esempio quali sono le regole legate ai posti di lavoro disponibili e ad altri fattori che farebbero sì che in varie facoltà ci sia numero chiuso in ingegneria e non in lettere).
Dunque dire che “un corso con molti bocciati dimostra alle ‘alte sfere’ dell’università (composte da manager, non da studiosi) che l’insegnante non sa insegnare e/o non soddisfa il criterio ormai esplicitamente richiesto per il posto” mi pare una grande stupidaggine, provate a dirlo ai corsi di ingegneria o medicina dove errori in operazioni chirurgiche o nel costruire ponti fa rischiare la vita a chissà quanta gente. Almeno questa è la mia impressione.
Qualche settimana fa una mia studentessa del PAS è arrivata a lezione con una graziosa bomboniera azzurra: era appena diventata nonna.
Per fortuna è una brava studentessa, perché confesso che personalmente avrei qualche difficoltà a bocciare una nonna.
La frase riportata dal collega Giunta – «circa gli insegnanti in servizio, tutte le ricerche dimostrano che ciò che in loro è carente non è la competenza sulla materia, ma la qualità pedagogica: non sono stati preparati a confrontarsi con le problematiche dell’età adolescenziale e con gli interessi dei giovani d’oggi» (Giunio Luzzatto, «Sole 24 ore», 15.2.2015) – aveva dato i brividi anche a me. In generale (non conosco Luzzatto), mi chiedo se chi si sente in diritto di esprimere tali pronunciamenti abbia mai messo piede per un giorno in una classe. Potrei fare un florilegio di testimonianze di insegnanti costretti a subire le ovvietà e/o improbabili ricette pedagogiche ammannite, anche ai corsi, da persone ignare della pratica dell’insegnamento (ma bravissime a ripetere il mantra cui si accenna nell’articolo) . Del resto, basta parlare con qualsiasi studente delle vecchie SISS o dell’attuale PAS per sentire cosa pensano delle lezioni di pedagogia.
Insegno all’università dopo aver insegnato otto anni a scuola e ovviamente ho conosciuto insegnanti preparati e capaci di fare il loro mestiere, ma anche molti che non avrebbero mai dovuto avere una cattedra. Il punto chiave rimane la preparazione: non si può pensare a una scuola efficiente senza preoccuparsi soprattutto della preparazione e delle competenze degli insegnanti. A meno che non si pretenda che i docenti abbiano come compito primario l’occuparsi delle problematiche adolescenziali e non dei contenuti di quel che trasmettono.
Stupisce peraltro che i pedagogisti nelle loro ricerche non si siano accorti che preoccuparsi di come si insegna, a chi si insegna e come si trasmette il sapere è pensiero costante di qualsiasi docente (solo che le persone impegnate nel loro lavoro quotidiano non perdono tempo a teorizzare tali preoccupazioni, ma le risolvono giorno per giorno, classe per classe, alunno per alunno).
Condivido del tutto quanto scritto dal prof. Giunta. Il problema d’origine è però il PAS stesso: se tu vuoi un certo livello in uscita devi innanzitutto selezionare in entrata. Con il Tirocinio Formativo Attivo ciò è stato fatto, eccome, con il PAS no. Assurdo. Per poi dare agli abilitati TFA 42 punti in più per le graduatorie d’istituto. Assurdità che si aggiunge ad assurdità. Si doveva fare UN SOLO percorso abilitate e poi concedere, ovviamente, uno “sconto di pena” a quanti insegnano da più anni, in base agli anni di insegnamento. Mi fa rabbia pensare poi che il Ministero stabilisca un numero di abilitati in base alle proprie esigenze e poi chieda agli abilitanti di pagare circa 3000 euro solo di tasse universitarie per abilitarsi. Lo Stato taglia i finanziamenti alle Università e pertanto si deve inventare queste cose obbrobriose. Le Università incassano.
Il timore dei ricorsi è la scusa addotta da tutti quei docenti che, pavidi e menfreghisti, non vogliono assumersi le proprie responsabilità. Il ricorso nel caso di bocciature scolastiche o, in questo caso, di mancata abilitazione avviene solo sulla base di vizi di forma; verbali incompleti, negligenze nel corretto svolgimento delle procedure e cose simili. Nessun avvocato entra nel merito delle scelte della commissione. Certo è molto avvilente pensare che docenti universitari si trincerino dietro alla paura dei ricorsi pur di non svolgere correttamente il lavoro per cui sono pagati…
Vi giro le indicazioni (suggerimenti) ricevute dal DS del mio istituto a proposito di come -secondo lui e conseguentemente secondo i criteri del POF (piano dell’offerta formativa dell’istituto)- noi docenti dovremmo seguire pedissequamente per valutare i nostri alunni. Bocciare??? cui prodest???
Se cliccate sul link qui sotto trovate i criteri:
http://www.edscuola.it/archivio/esami/la_valutazione_scolastica.htm
Buona lettura…
un docente molto ma molto avvilito