cropped-strange_abstract_wires_red_blood_desktop_1680x1050_hd-wallpaper-1517931.jpgdi Daniela Brogi

Quale memoria si conserva di un matrimonio sopravvissuto alla rottura? Cosa resiste al furto degli anni? Tra le tante storie materiali, tra l’accumulo dei discorsi, cosa lega davvero i singoli alla minacciosa cantilena dell’ «io ero…tu eri…»? E, soprattutto, quante realtà e quante narrazioni parallele vivono dentro il flusso uniforme dell’esistenza trascorsa sotto un medesimo tetto? Il romanzo di Domenico Starnone costruisce un edificio che dà spazio precisamente a questi dubbi, articolandoli sia tematicamente sia stilisticamente: per questo Lacci (Einaudi 2014) non è, semplicemente, un romanzo sulla crisi di un rapporto di coppia, ma un’opera che allestisce, attraverso se stessa, gli autoscenari di irrealizzazione di sé tenuti in piedi dai pilastri indistruttibili del matrimonio.

Per capire cosa questo significhi è necessario ripercorrere la vicenda proprio attraverso la struttura che le dà forma. Lacci si compone di tre pannelli (libri), ciascuno dei quali è gestito da una prima persona attraverso cui, nel passaggio da un blocco all’altro, si esprimono tre distinti personaggi che prendono voce in tre diversi momenti della storia, usando il tempo verbale privilegiato dal racconto in medias res, cioè il presente.

Nel primo libro la voce da cui parte il racconto entra in scena di prepotenza: la sua carta da visita non contiene un nome proprio, e dunque non possiede un’individualità, ma passa subito a qualificarsi per via di una relazione, vale a dire identificandosi totalmente in due connotati essenziali stretti in un corpo solo, cioè lo status coniugale e il tono sarcastico – puntiglioso della rivendicazione:

Se tu te ne sei scordato, egregio signore, te lo ricordo io: sono tua moglie. Lo so che questo una volta ti piaceva e adesso, all’improvviso, ti dà fastidio (p. 5).

Appena prende familiarità col testo, chi legge capisce di trovarsi all’interno di un carteggio, ma si tratta di una narrazione a senso unico, senza alternanza di voci: tutta questa prima parte infatti contiene soltanto le lettere scritte da Vanda al marito. Siamo a Napoli, nel 1974: i due si sono sposati a ventidue (lei) e vent’anni (lui), nel 1962; hanno due figli: Sandro, nato nel 1965, e Anna, nata nel 1969. Al 1972 – la storia non lo dice ma lo sottintende – risale la pubblicazione italiana (per Einaudi) di uno dei libri che fecero epoca per la generazione dei due protagonisti, vale a dire La morte della famiglia (1971) di David Cooper; probabilmente, è proprio appellandosi al nuovo immaginario e ai cambiamenti della morale messi in circolazione anche da questo libro che il marito ha motivato il gesto di lasciare moglie e figli per stare con un’altra donna più giovane (« […] appena ho provato a reagire, mi hai bloccata, sei passato a discorsi generici sulla famiglia: la famiglia nella storia, la famiglia nel mondo, la tua famiglia d’origine, la nostra» (p. 7). Questo dossier di rimostranze arriva fino al 1978.

Nel secondo libro la narrazione si sposta su un altro personaggio, il marito, e in un successivo periodo, creando anche un nuovo testo, perché la distanza di tempo e di prospettiva disorienta il passo di lettura brevettato fino a questo punto, trasformando il libro da romanzo epistolare di una crisi a romanzo sulla rappresentazione di un matrimonio. Stavolta infatti l’azione risale a trentasei anni più tardi: siamo nel 2014, e a prendere la parola è Aldo – che ha un cognome, “Minori”, che fa risuonare una certa prossimità col cognome sveviano di Zeno “Cosini”, insinuando, al tempo stesso, la suggestione di una qualche somiglianza col protagonista della Coscienza. Anche Aldo è un campione di minieroismo, anche lui potrebbe avere il vizio delle bugie, come del resto molti altri personaggi di Starnone: per esempio il protagonista dell’Autobiografia erotica di Aristide Gambìa (2011), o quello di Labilità (2005) – romanzo, quest’ultimo, intitolato con un’espressione a cui sembra rimandare anche il nome del gatto di Lacci: Labes.

Aldo e Vanda sono sposati ormai da cinquantadue anni: «un filo lungo di tempo raggomitolato» (p. 28) che ha stretto i nodi del matrimonio, mentre invece il declino fisico ha indebolito il «sistema d’allarme» di Aldo, che si fa truffare da due furbastri. Hanno imparato a sopportarsi, a tacere, a dimenticare (« – Non ricordo più niente di noi – || Presi coraggio, chiesi: – Di noi quando? – || – Sempre: dal momento che ci siamo conosciuti fino a oggi, fino a quando morirò – »: p. 90). In occasione di una vacanza al mare Aldo e Vanna hanno affidato ai due figli la cura del gatto Labes (che «sta per la bestia», secondo quanto dice Aldo, e rappresenta «la tranquillità della casa»); i due si assentano per una settimana dalla loro bella abitazione di Roma – dove si sono trasferiti da molti anni grazie ai successi professionali ed economici di Aldo – ma al ritorno trovano una dimora ridotta in macerie dal passaggio dei ladri. Non è stato rubato nulla, ma tutto è devastato e fuori posto. Manca solo una cosa: il gatto. Eppure la preoccupazione maggiore di Aldo è che dal caos possa riemergere qualche traccia della sua antica storia d’amore e che la moglie possa scoprirla prima di lui: per questo passa la notte nello studio a ripescare tra i frantumi del proprio mondo domestico ciò che la memoria aveva scolorito da anni. Così, per esempio, comincia a riguardare le foto («ecco dunque ciò che mi risultava estraneo, la sua giovinezza. In quelle foto Vanda sprigionava un fulgore di cui io – ho scoperto – non conservavo alcuna memoria, nemmeno una favilla che mi permettesse di dire: sì, lei era così»: p. 53); si mette a rileggere fogli, libri, sottolineature, rincorrendo le convinzioni, i pensieri, le forme della coscienza legate a quelle vecchie tracce materiali della sua vita trascorsa, recuperando le rigidità ideologiche legate alle nuove battaglie contro la fedeltà in quanto valore piccolo borghese:

[…] Innamorato. Forse avrei dovuto dire proprio così: Vanda, mi sono innamorato. Invece mi espressi in un modo più brutale e tuttavia, a pensarci adesso, meno definitivo. […] Lei mi fissò esterrefatta e io stesso mi spaventai di quelle parole. Mormorai: avrei potuto nascondertelo, ma ho preferito dirti la verità. E aggiunsi: mi dispiace, è successo, reprimere il desiderio è meschino (p. 57).

A un certo punto Aldo ritrova e si mette a scorrere le lettere ricevute da Vanda all’epoca della loro separazione: quelle stesse che noi abbiamo già letto nella prima parte di Lacci. Ma adesso, nel Libro Secondo, possiamo ripensarle attraverso il controcanto della versione di Aldo («Voleva dimostrare – e non solo a me ma soprattutto a se stessa – che non sapevo e non potevo fare il padre fuori di lei, che escludendola mi escludevo»: pp. 68-69); la rabbia di Vanda, da questo nuovo punto di prospettiva, diventa smania disperata di autocelebrazione, gesto spavaldo e spaventato di un’identità femminile tutta compiuta nella funzione materna e nella performance continua di questa sua funzione– tanto che, a livello tecnico, in tutto il romanzo Vanda ha diritto di presenza solo attraverso la finzione delle lettere e dei ricordi gestiti dagli altri; è una figura di rimprovero a cui Aldo non sa reagire se non schivando gli urti – e facendo scempio delle altre due figure presenti da sempre: i figli. È a loro, e in particolare ad Anna, che dà la parola il terzo libro del romanzo, facendo ripartire l’azione dal 1978 per arrivare fino ad oggi: è il momento di rappresentare il matrimonio dalla parte degli anelli più deboli eppure più funzionanti della catena – ed è pure il momento di offrire la soluzione narrativa che qui non si svelerà. Attraverso Anna si completa la spiegazione del titolo del romanzo: Lacci, come i legami a cui costringe l’istituzione repressiva del matrimonio – secondo la vulgata di Cooper; ma l’espressione fa riferimento anche a una delle scene più belle del libro:

Anna mi chiese, accennando al fratello: – È vero che gli hai insegnato tu ad allacciarsi le scarpe? –
Mi imbarazzai. Avevo insegnato a Sandro ad allacciarsi le scarpe? Non me lo ricordavo (p. 80)

I lacci sono anche i figli, usati per garantire il legame matrimoniale e ricomporre la famiglia, per far poggiare la tranquillità della casa sulle fondamenta sicure dell’ambiguità (Labes non sta solo per la bestia, come Aldo ha voluto far credere: è anche la parola latina per definire la rovina, il crollo). Sandro e Anna nella terza parte, finalmente, trovano il modo di raccontarsi quello che avevano vissuto senza poterlo mai dire: «I nostri genitori ci hanno rovinati. Si sono insediati nelle nostre teste, qualsiasi cosa diciamo o facciamo continuiamo a obbedire a loro» (p. 126). Non è tutta la verità, perché a fare la verità del libro è l’intreccio, la sconnessione continua dei piani narrativi e temporali, secondo un effetto di prospettiva destinato a rimanere sempre imperfetto. Ma va bene così.

[Immagine: Strange Abstract Wires Red Blood Desktop – http://hdwallpapersfactory.com/abstract/strange-abstract-wires-red-blood-desktop-hd-wallpaper-151793/].

5 thoughts on “Archeologia di un matrimonio. Lacci di Domenico Starnone

  1. Sì, è davvero un libro significante e bello questo ultimo di Starnone, che si apprezza anche per la limpida essenzialità e concisione della narrazione, perciò ringrazio Daniela Brogi per come bene lo ha presentato, senza svelare ciò che il lettore apprende solo alla fine del libro. Conclusione (quella del romanzo) spiazzante che interroga il lettore su un quesito a cui non è data, credo, risposta certa: quando la barca fa acqua, è bene rompere, separarsi, anche a costo del dolore dei figli e del partner abbandonato o è meggio ricomporre la famiglia, superare ‘il momento di difficoltà’, sacrificare il desiderio in nome di una ‘normalità’ in cui meglio i figli possano crescere? Il libro, come sempre la letteratura vera, non è didattico, ma a mio parere tra le righe si legge la grandissima responsabilità che sempre le figure genitoriali hanno nella buona o nella cattiva riuscita dei figli. Questi due ragazzi del romanzo, insomma, appaiono il prodotto di quel concentrato di silenzi e repressioni che la loro famiglia è stata. Allora meglio buttare le carte in aria alla prima infatuazione, mi correggo, al primo “innamoramento” a cui spesso accade di andare incontro all’interno della relazione matrimoniale? Non ho avuto figli ma, da insegnante, ho avuto tanti ragazzi devastati da famiglie rotte, ricomposte, allargate… Al dubbio espresso non ho risposta, naturalmente. E considero l’eros, in qualsiasi forma si presenti, dono degli dei. Ma per sorridere: alla lettura del romanzo è seguita una burrasca durata qualche giorno all’interno della mia, di me lettrice, relazione matrimoniale. Quando si dice che la letteratura mette le mani nel sangue! Mi scuso per la verbosità.

  2. Baumann descrive il desiderio umano,molto forte, di formare relazioni sentimentali, e l’opposto desiderio, anch eforte e umano, di non essene vincolati.E questo ci dice di che razza di strano canovaccio confuso sia l’amore.Dalla passione al disamore, dalla gelosia al tradimento,dall’amore platonico al desiderio:queste le fasi,pressappoco, dell’amore.
    Mi piace ricordare la metafora dell’amore di Deleuze nel suo Abecedario:ti addentri nelle acque oceaniche dalle dolci spiagge e subito ricevi un’ondata in faccia. Ti rialzi ed ecco un’altra ondata. Bevi un po’,annaspi, e arriva una terza ondata,forse poi impari a nuotare. Potrebbero essere una decina la fasi dell’amore,che si declinano in varie maniere, ma il più terrbile e facile a incrinarsi è quello corrisposto.Perchè l’amore comporta attenzione,cura, uscire da sè e guardare l’altro, quel tu che conta più di tutto.Quando si fa davvero l’amore si crea qualcosa che prima non c’era. I legami d’amore sono tenaci, a volte diventano abitudini,ossessioni, e toccano la nostra fragilità e debolezza. e soprattutto comprendono troppe cose:piacere,sicurezza,potere,euforia,complicità,evasione, vita stabile,abitudini, rinnovamento di sè, curiosità,abitare nella vita di un altro, Ma è indiscutibile davvero che l’abitudine, lo scorrere del tempo ci porta a voler vivere altre vite e quindi a tradire e a innamorarsi di nuovo, per illudersi di rinnovarsi, di rinascere, di cominciare altre vite. Se poi l’altro, quello con cui prima avevamo un forte legame, s’innamora a sua volta, potrebbe accadere di soffrire, di desiderare di ricominciare un rapporto antico, rinnovandolo. E da questo cerchio non si esce mai, se non si è saggi e consapevoli. L’illusione che questa non sia l’unica vita, ma che abbiamo tante vite da vivere, ci porta a tradire fino all’autoinganno estremo. Perchè non c’è nulla che ci faccia vivere, ringiovanire, rinascere come l’amore. E’ questal’illusione che fa sentire come ‘lacci’ i legami amorosi che si stabilizzano.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *