cropped-Renzi-telefono.jpgdi Mauro Piras

In Europa, in questo momento, sembrano possibili solo tre politiche: l’europeismo antipopulista; il populismo antieuropeista; e il populismo europeista. Il primo le ha prese sonoramente alle elezioni europee del 2014, quando tutti i partiti tradizionali che hanno sostenuto la politica dell’Unione Europea sono crollati, soprattutto se provenienti dalla tradizione socialista. Il secondo tipo si rafforza, data la crescente insostenibilità sociale delle politiche UE, ma ha una posizione da free rider: trae vantaggio politico dalla situazione, senza correre nessun rischio, dal momento che difficilmente i vari Farage, Grillo, Salvini, Le Pen ecc. andranno a governare, se non nelle amministrazioni locali. Alla fine si vede che a vincere è l’ossimoro che unisce i due poli apparentemente inconciliabili, europeismo e populismo. La Merkel, certo, non fa testo, perché in quel caso il populismo è quello dei vincitori, coerente con il rigorismo europeo; è comunque importante, perché mostra che la CDU vince coniugando il rispetto delle istituzioni europee e gli umori più profondi, nazionalisti e ostili a una vera solidarietà europea, del popolo tedesco.

Ma gli esempi più illuminanti sono quelli di chi ha saputo vincere le elezioni, e bene, mescolando la sfida all’Unione Europea, e quindi la soddisfazione degli umori popolari, e, paradossalmente, il rispetto delle istituzioni europee e dell’euro. Già Hollande, il cui PS esprime al meglio la prima tendenza, e infatti è crollato miseramente nel 2014, aveva però vinto le presidenziali promettendo a gran voce di opporsi alla politica dell’austerità, e ottenendo così al secondo turno i voti di una forma francese e gauchiste di populismo europeista, cioè il Front de gauche di Mélenchon. Poi c’è stato Renzi, la miscela più sapiente, sul piano mediatico, dei due piani: mai rinnegare l’europeismo e l’adesione all’euro, e allo stesso tempo manifestare insofferenza verso la burocrazia e la tecnocrazia europea, verso le “regolette” del 3% ecc. Insomma, canalizzare l’umore malmostoso degli italiani contro l’Europa in una direzione che li tiene però ancorati a essa e agli impegni presi, per quanto ridiscussi. E infine Tsipras. Che sia europeista, e che quindi, come Hollande e Renzi, nonostante la sua base elettorale, debba scendere a patti almeno in parte con la politica dell’austerità, è evidente in questi giorni. Anche lui è riuscito nel mettere insieme il diavolo e l’acqua santa, e nel convogliare quindi in senso democratico, e in linea di principio di sinistra, il malumore di una popolazione e di classi sociali aggrediti violentemente dalla crisi del debito pubblico e dalle politiche di austerità. Allo stesso tempo, anche lui come Hollande e Renzi, non sembra spostare più di tanto i margini della politica europea.

L’UE e il populismo sono le due forze politiche oggettive che dominano la scena europea, et pour cause. La prima, per ragioni sistemiche. La struttura della moneta unica non può essere toccata senza catastrofi sociali. Se un paese uscisse dall’euro, da solo, rischierebbe contraccolpi economici ben più gravi delle politiche di austerità. Inoltre, la possibilità che qualche paese della zona euro ne esca apre scenari speculativi contro l’euro e le finanze pubbliche degli stati europei. Insomma, a causa dell’eccessiva autonomia dei mercati finanziari, da un lato, e dello squilibrio della struttura interna della moneta unica, dall’altro, ostacolare realmente, fino in fondo, le politiche europee di contenimento del debito è impossibile. Dall’altro lato, il populismo è la forza che si contrappone alla prima. E non solo per reazione. Cioè, non solo perché le politiche di austerità hanno provocato una chiusura delle identità nazionali l’una contro l’altra, e hanno quindi rafforzato i partiti che si alimentano di queste identità esasperate, e di una sorta di ruolo salvifico dei leader e delle politiche antieuropee. Anche perché il populismo è radicato negli squilibri della costruzione europea e li alimenta. L’unione monetaria è nata come un compromesso instabile tra un progetto economico liberista e delle identità nazionali gelose della loro autonomia. Gli stati non hanno ceduto della loro sovranità quanto serviva a garantire veramente stabilità al sistema, sostenendo così le identità nazionali dei loro popoli. Questa radice ha impedito l’approvazione di una vera costituzione europea nel 2004, e ha portato, con il Trattato di Lisbona, ad accentuare la tensione interna tra cessione della sovranità e politiche nazionali. Il populismo, così, alimenta dall’interno l’Unione Europea e l’unione monetaria.

In Italia, quelle tre tendenze politiche fondamentali si sono viste perfettamente, come in provetta, nelle elezioni del 2013. Ognuna si è presa il suo terzo. Bersani ha portato il centrosinistra in campagna elettorale nella versione più classica di europeismo antipopulista: fedeltà agli impegni europei, ricerca faticosa dei minimi margini di una politica europea non troppo rigorista, attacco costante al populismo. Ne è uscito male: una non vittoria che si è rivelata, come era evidente, un azzoppamento e la fine politica di Bersani stesso (sul Bersani di questi giorni, dopo). Grillo ha trovato la formula magica e potente del populismo antieuropeista che disintegra il potere delle classi politiche tradizionali, e porta una forza politica alla soglia del governo, ma non al governo. E coerentemente lui e i suoi hanno fatto di tutto per mantenere questa posizione esterna, non negoziabile. Berlusconi ha giocato maldestramente la carta del populismo europeista, perché non poteva mettersi totalmente contro l’Europa, avendo sostenuto il governo precedente, e avendo una base elettorale anche moderata, ma in parte ha cercato di farlo. Pur in questo modo maldestro, e pur con tutte le sue difficoltà, ha preso la carta vincente, perché è andato molto oltre le aspettative.

Come sappiamo, questa divisione in tre del quadro politico lo ha paralizzato, con tutte le conseguenze che conosciamo. Ha impedito l’azione di governo e ha reso possibile l’ascesa di Renzi, il maestro del populismo europeista. Questo infatti si gioca su questo tipo di relazione: non rompere il quadro istituzionale, non assumere atteggiamenti eversivi verso le istituzioni europee, però parlare sempre direttamente all’opinione pubblica, alla potenziale base elettorale (al “popolo”), scavalcando le istituzioni rappresentative e le bizantine liturgie dell’Unione Europea. Renzi sa che ha di fronte un’opinione pubblica ostile alle politiche di austerità, ma allo stesso tempo timorosa di avventure antieuro che possono scassare l’economia, e insofferente dell’inconcludenza della classe politica tradizionale; a questa opinione pubblica promette soluzioni rapide, forti, rassicuranti perché non pericolose per la moneta unica, ma popolari perché semplici, dirette e rivolte contro (a volte presunte) sacche di privilegio e disfunzioni. Vince finché riesce a preservare questa speranza. Ecco perché ha fretta e presenta i suoi inverosimili (se confrontati con la realtà) scadenziari. Eppure per niente assurdi, perché hanno un significato politico preciso: quelle scadenze dicono “io queste cose le faccio, costi quel che costi”. Ecco perché, nonostante i ritardi la popolarità di Renzi ha continuato a restare alta: perché “la gente” pensa che è l’unico che si sta dando da fare.

E quindi, alla fine, dopo un anno di governo, anche se non ha rispettato le scadenze, e se ha fatto solo una parte di quello che ha promesso, ha fatto molto, ha smosso le acque, in modo anche brutale, e può ancora capitalizzare elettoralmente il frutto di questo attivismo. Allo stesso tempo, dopo un anno di governo, Renzi è in affanno, perché sta rischiando di perdere il controllo del quadro politico, e di farlo precipitare di nuovo nella tripartizione letale del 2013. La svolta è stata determinata, paradossalmente, da un successo politico: l’elezione di Mattarella alla Presidenza della Repubblica. Qui Renzi ha saputo mostrare la sua autonomia nei confronti dei ricatti di Berlusconi, e ha saputo proporre una soluzione che tenesse insieme il Pd e il centrosinistra. Questo però, dopo, ha fatto scattare una sorta di “liberi tutti”: la parte oltranzista di Forza Italia è passata dal sostegno cieco alle riforme alla denuncia della “deriva autoritaria”; le sinistre nel Pd e fuori dal Pd si sono accodate per rifiutarsi di approvare la riforma, senza avere paura di tenere compagnia a Brunetta e sodali; i grillini, invece di sfruttare questo spazio per cambiare gli equilibri delle alleanze, hanno alzato l’asticella per far capire che non avrebbero fatto passare niente. E qui Renzi ha fatto il primo passo falso: per paura che si aprissero degli spazi capaci di bloccare o rallentare gravemente le riforme, ha imposto un colpo di mano. Ha pensato, come al solito, all’opinione pubblica esterna al Parlamento, al suo bacino elettorale: ha pensato che frenare, mostrare timidezza nelle riforme avrebbe significato perdere consenso. E quindi ha imposto la votazione degli emendamenti finali alla legge di riforma costituzionale in modo rigidissimo, senza accettare di rinegoziare scadenze e contenuti. Facendo così votare la riforma costituzionale da una Camera semivuota.

È una scommessa sul filo del rasoio, perché per il momento ha creato solo tensioni nel quadro politico, e Renzi non sa ancora quanto potrebbe rendere elettoralmente. Il quadro politico in effetti ha iniziato a frammentarsi; o meglio: a diventare incontrollabile. L’opposizione interna al Pd ha iniziato a puntare i piedi davvero, in un momento in cui Renzi non può più contare nel “soccorso azzurro” di Berlusconi. E così è nato il secondo errore: la forzatura sui licenziamenti collettivi nel Jobs Act. In fondo, Renzi poteva realizzare tutti gli obbiettivi che si era posto con questa riforma senza imporre di estenderla anche ai licenziamenti collettivi, come ha invece fatto, scavalcando il parere del Parlamento e dell’intero Pd. Anche qui deve aver giocato la solita ansia di non perdere la sintonia con il “consenso popolare”, e forse il bisogno di tenere buoni Alfano e Sacconi una volta perso Berlusconi. Un pasticcio, insomma, perché le riforme ne escono fortemente delegittimate e le opposizioni interne al Pd si inaspriscono, e gli oppositori cercano di allargare il loro spazio di manovra. Le vicende di questi giorni lo mostrano: lo strappo di Bersani è grave, e all’origine ci sono quei due errori politici. Allo stesso tempo, questo quadro apre la possibilità di un regolamento di conti dentro il Pd: la vecchie classe dirigente e la minoranza vedono l’occasione per frenare l’ascesa di Renzi e riprendere il controllo del partito.

Ma tutto questo è un disastro. Il Pd rischia di dare di nuovo l’immagine di una partito preso solo dalle sue beghe interne, mentre le circostanze politiche ed economiche esterne sono positive, e potrebbero essere sfruttate per concludere le riforme. In teoria, questo potrebbe avvantaggiare Renzi, ma per fare le riforme ci vogliono anche le maggioranze parlamentari, e Renzi quindi deve anche calarsi dentro queste dinamiche politiche tutte interne “al palazzo”. A meno che non voglia rompere scaricando la responsabilità sugli oppositori e cercando di trarne un vantaggio elettorale. Ma per il momento non sembra questa l’intenzione: per ora sembra che voglia portare avanti le riforme e la legislatura, il che vuol dire trovare anche dei terreni di trattativa. Si rischia un impantanamento, nel momento più assurdo per farlo.

Di chi la responsabilità di questa situazione? Certo, le spinte autoritarie di Renzi, che si sono manifestate in quei due errori politici, hanno una parte di colpa. Ma la sinistra Pd, e in parte anche quella esterna, deve smetterla di lavarsi le mani delle sue responsabilità politiche. Il muro contro muro che è sempre stato opposto al governo su ogni terreno di riforma ha fatto sempre il gioco di Renzi e ha sempre rafforzato la sua alleanza a destra: ha favorito Renzi nelle sue derive populiste, perché l’opposizione frontale a tutte le riforme è servita ad alimentare la retorica dei “frenatori”, “gufi” ecc.; ha rafforzato l’alleanza con Berlusconi perché ha impedito altre alleanze, anche temporanee. Il muro contro muro è stata un’opposizione pregiudiziale, che non ha capito alcune cose: che certe riforme vanno fatto, non si può più rimandare; che buona parte dell’opinione pubblica le vuole; che se il centrosinistra non le fa, le farà qualche altra forza politica, molto peggio. È stato un grave errore attaccare in blocco la riforma costituzionale, definendola una svolta autoritaria, una minaccia della democrazia ecc. La Francia ha un Senato con elezione di secondo grado, e la sua democrazia non è minacciata. È un errore continuare a bloccare la riforma della legge elettorale, che è stata migliorata in molti punti. È un errore continuare a denunciare il Jobs Act come uno smantellamento dei diritti dei lavoratori tout court, senza vedere in che cosa risponde a esigenze reali, in che cosa migliora le condizioni e quanto è insostenibile la situazione attuale. È un errore attaccare in blocco la riforma della scuola assimilandola alla politica della Gelmini. Tutto questo non vuol dire che queste riforme sono giuste, in tutto e per tutto, e vanno mandate giù e basta. L’errore della “sinistra sinistra”, della “sinistra nobile”, è sempre il solito: demonizzare l’avversario, denunciare il pericolo autoritario, e così arroccarsi nella difesa del passato, alleandosi senza volerlo (ma a volte volendolo) con le forze davvero conservatrici e di destra del paese, che difendono solo posizioni di potere. Alcuni effetti mediatici paradossali di queste settimane – un esponente di Sel al tavolo di una conferenza stampa con Brunetta, Brunetta che twitta “Forza Bersani” – sono la manifestazione di questo problema reale, di sostanza. Se rifiuti in blocco le riforme è perché non vedi la gravità dei problemi, e la insostenibilità delle vecchie soluzioni, e in questo modo fai il gioco degli interessi costituiti. E rimarrai nella tua nicchia.

(Torino, 28 febbraio 2015)

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14 thoughts on “Renzi un anno dopo

  1. Caro Piras, lei assume la visione mainstream dell’Europa, e poi pretende di svolgere il ruolo dell’analista. Questo è davvero troppo, come si può dare per scontato uno specifico quadro generale dei problemi dell’Europa e delle cose da fare, e pretendere che tale quadro non meglio argomentato costituisca la premessa su cui imbastire la discussione?
    L’Europa non soffre di problemi strutturali pregressi, subisce semplicemente un attacco delle proprie condizioni di convivenza sociale e politica da parte delle elites finanziarie, tutto qui.
    La cosa è gravissima perchè tali elites non lo fanno da una posizione di forza, ma in qualche misura sono costrette a farlo dai propri errori strategici, è proprio il fatto che per costoro è un problema di sopravvivenza che rende la situazione drammatica. Oggi direi che assistiamo a una crisi epocale del capitalismo, che io insisto nel considerare terminale, anche se vedo che non è una posizione condivisa, con un’argomentazione alquanto stravagante, che il capitalismo è sempre riuscito ad uscire dalle sue crisi, trasformato e più forte che pria. Mi pare che il fatto che in passato ci sia riuscito, non ci dice che ci riuscirà ancora una volta, crederlo è in queste condizioni una pura affermazione di fede.
    Così, le riforme che ci vogliono propinare non risolvono alcun problema, ma al contrario portano ad ulteriori aggravamenti. E’ come se un paziente segue una certa terapia che si rivela con tutta evidenza sbagliata, visto che i sintomi si aggravano sempre più, e però egli continua a fidarsi ciecamente del medico che lo porterà alla fine alla morte.
    Il vero problema dell’Europa è quindi solo la paura, la paura che nel suo piccolo anche lei contribuisce ad incrementare, ad esempio quando dice senza argomentazione alcuna (significativamente, non spende una singola parola in proposito) che l’uscita dalla moneta unica porterebbe a catastrofi sociali. Questo terrorismo verbale è parte fondamentale del discorso delle elites finanziarie, e così chi come lei scrive in questi termini, si autoqualifica in modo inequivocabile come un alleato più o meno consapevole delle elites finanziarie che hanno causato questa distruttiva crisi che ci attanaglia già da sette lunghi anni.
    In queste condizioni, purtroppo la catastrofe ci attende dietro l’angolo, ma non perchè non seguiamo le ricette che le grandi banche ci propinano, ma proprio perchè invece ci sottomettiamo ad un trattamento che ha finora inequivocabilmente dimostrato di portare solo danni senza risolvere alcunchè.
    La soluzione è quella di distruggere la enorme ricchezza di carta di tali elites, è una soluzione chiara ed in tutta evidenza di fronte al nostro sguardo, ma non siamo in grado di attuarla. Ci sveglieremo da questa situazione quando scoppierà una bolla finanziaria gigantesca, dovuta alla impossibilità di salvare questa cartaccia con ulteriori interventi di liquidità da parte delle banche centrali, e purtroppo trascinerà con sè anche la stessa moneta. E’ una via d’uscita ineludibile, quando la ricchezza di carta ha assunto le dimensioni di quasi dieci volte il PIL mondiale, essa è nei fatti cartaccia, e quindi o la distruggiamo in modo controllato, uscendo dalle secche in cui ci troviamo, o invece la distruzione avverrà di colpo in modo incontrollato e il day after sarà come se avessimo combattuto una terza guerra mondiale.

  2. Se questa realtà è l’unica realtà e la si vuole far passare pure per razionale, io riscopro l’aldilà e la terra d’Utopia, Mauro.
    E’ pragmatismo pure il mio: non posso lasciare quel bisogno così umano in mano ai Salvini e ai Grillo. Loro farebbero molto peggio.

  3. Ai cittadini che sentono di non avere più tutele sociali( e ce ne sono tanti), non importano le ragioni del colpo autoritario di Renzi, nè i paragoni con le repubbliche presidenziali. Interessa la giustizia sociale, il rispetto della buona costituzione che avevamo, i diritti dei lavoratori, distrutti con l’eliminazione dell’art.18. Interessa la mancanza di una sinistra, che si creerà,spero, Che crei un vero welfare, e ridistribuisca la ricchezza senza creare fasce di nuovi poveri, e di un precariato assoluto. Il lavoro a tempo determinato, con licenza di licenziare anche collettivamente, non è lavoro e non permette,con l’insicurezza del lavoro, di crearsi una vita dignitosa. Non stiamo qui a piatire, a farci commiserare, ma tutto quello che ci rendeva tranquilli di un futuro per i nostri figli e per il nostro, è finito. L’asl concede una TAc all’anno. E addio prevenzione. Un paese miserabile che non si rende conto che si sta creando un’emergenza umanitaria. Anche agli invalidi non si erogano da tempo la pensione, e sono a rischio sopravvivenza, si vuole fare la ‘buona scuola, e le scuole sono fatiscenti. E ,in questo panorama avvilente, dovremo dar ragione a un bulletto fiorentino, che si preoccupa del suo potere? O ai ricchi ologarchi e confindustriali che l’appoggiano? Not in my name

  4. Più nel dettaglio. Sulla scuola: di buona c’è l’assunzione di molti precari. Sul resto vedremo, la Buona scuola era un pessimo programma, ma in linea con una retorica che più renziana non si può, tra meritocrazia e innovazione usate come parole mantra. Se si è fatta marcia indietro su certe scempiaggini come il sistema di scatti stipendiali “meritocratici” non è certo merito di Renzi. Che si possa e debba discutere con lui, che si debba tentare compromessi, che non si possa dire di no a prescindere è politica. Che gli si debba dire bravo è un’altra cosa, è una scelta di campo.

    Sulla riforma del lavoro: il contratto a tutele crescenti contiene comunque non solo il licenziamento collettivo, ma il demansionamento, e di fatto il licenziamento con giusta o ingiusta causa. Se i disincentivi al licenziamento funzioneranno lo vedremo. O se finirà come con Treu, che aveva promesso la flessibilità coi nuovi contratti e ci ha dato una generazione di precari. Poi a furia di battage propagandistico ci siamo anche convinti che la colpa del precariato era che c’erano i padri che avevano troppi diritti.

  5. “che si debbano tentare compromessi”

    “che la colpa del precariato era dei padri che avevano troppi diritti”

  6. Ancora una volta un’interessante analisi del panorama politico attuale, Mauro. È raro in questi tempi trovare commentatori politici che criticano in un modo non indifferenziato le attuali azioni del governo e che allo stesso tempo propongono azioni costruttive alternative.

    Qualche curiosità: tu pensi che questi ultimi errori di Renzi possano portare a breve al voto anticipato? Io ho l’impressione che non si andrà a votare fino a che sarà ancora in vigore il Consultellum, in quanto quest’ultimo sistema porta a sicure nuove larghe intese, non avvantaggiando nessuno.

    Un’altra cosa che ti chiedo è come mai secondo te persiste questa visione della “sinistra sinistra” interna ed esterna al Pd il cui errore è sempre quello di “demonizzare l’avversario, denunciare il pericolo autoritario, e così arroccarsi nella difesa del passato”. In particolare mi chiedo perché sia presente una “sinistra sinistra” all’interno del Pd che sembra non ricordarsi più che il Pd non è nato solo da post-comunisti ma anche da forze politiche diverse da quella tradizione, e che se Renzi avesse posizioni centriste c’è da chiedersi come mai ha portato il Pd nel Pse dopo anni di incertezze su decidere la collocazione europea e come mai non abbia idee totalmente uguali a quelle di Scelta Civica o di Alfano. Forse perché ritiene che con lo scenario europeo attuale, con il crescere dei conservatorismi, dei movimento di destra estrema e dei qualunquisti, ritiene che “due sinistre” con una sinistra istituzionale e una radicale che influenza solo indirettamente lo scenario politico siano troppo deboli?

    Un’ultima curiosità è qual è la tua valutazione sul job’s act oltre all’errore di Renzi di pretendere di estenderla ai licenziamenti collettivi. Perché secondo te non sarebbe affatto uno “smantellamento dei diritti dei lavoratori tout court”? Ma questo in effetti potrebbe essere oggetto di una discussione lunga a parte.

  7. Dico solo una cosa, tra le molte moltissime che vi sarebbero da dire sull’attuale premier non-eletto (che, con orgoglio, dichiara di voler restare premier – e non-eletto – sino al 2018)…

    Vorrei solo portare all’attenzione, al di là di ogni fenomenologia o ermeneutica (talora mera retorica sofistica) sul tema , una a mio avviso ben più importante struttura logica rispetto a categorie quali “destra”, “sinistra” e soprattutto “sinistra classica” (che Piras, con sarcasmo renzianamente nuovista e sprezzante, denomina “nobile”) e “sinistra riformista” (quella che piace un po’ a tutti, che probabilmente verrebbe apprezzata anche dal principe di Salina).

    Ebbene, il riformismo di sinistra – oggi trionfante – che non nasce certo con Renzi ma che con lui raggiunge l’apice ideologico e pragmatico insieme, non è affatto l’alternativa “morbida” alle spinte conservatrici o reazionarie di destra, ma rappresenta piuttosto il nonplusultra della conservazione (sotto mentite spoglie, ovviamente… il che politicamente lo rende molto più efficace, secondo la logica del “potere” che è di nascondere la propria vera natura, idealmente di nascondere il proprio stesso “essere potere”).

    Il motivo è semplicissimo e mi meraviglio che non lo si colga.
    Se la conservazione “classica” di destra intende dichiaratamente conservare lo status quo (l’esistente) opponendosi al cambiamento, il riformismo di sinistra fa ben di peggio:
    il riformismo di sinistra FA DIPENDERE lo stesso cambiamento dell’esistente dall’esistente! (ed in tal modo lo status quo viene ‘radicalmente’ conservato!).

    Il riformismo – per dirla con una battuta – non è farmaco rispetto ai problemi esistenti, ma è “pharmakon” (e come tale non potrà che aggravarli), è il problema di cui si crede la cura.
    Ed infatti le politiche neoliberiste renziane (ben più drastiche di quanto abbia mai osato Berlusconi, epperò accolte con ben diversa disposizione d’animo, a partire dall’informazione) sono esattamente interne alla strutturalità delle cause che hanno determinato i problemi socio-politico-economici che stiamo vivendo, cioè ne condividono la natura.
    A meno che la crisi sistemica attuale non sia un’onda lunga dei piani quinquennali sovietici…

  8. @Daniele Lo Vetere

    Circa realtà / utopia… a parte il fatto che il “messianismo” renziano è esso stesso una utopia per così dire immanetizzata (e non vi è, a mio modo di vedere, utopismo più astratto e fallace del cd. realismo politico),
    ma, per non apparire “anime belle”, basterebbe – e così entra in gioco pure l’altro elemento da Lei giustamente chiamato in causa, ossia il razionale – basterebbe chiedersi, con gergo hegeliano, se la Wirklichkeit (realtà effettuale, vera realtà) coincida con la Realität (mero esistente, realtà fattuale).
    E tutto apparirebbe molto più chiaro.

    Circa la riforma del lavoro:
    è preferibile un contratto a tempo determinato pre-riforma o un contratto a tempo indeterminato (a tutele crescenti, ma con libertà di licenziamento) come da riforma?
    Quale garantisce più “sicurezza”?

    La retorica: “Siete privi di diritti perché altri in passato ne hanno avuti troppo”, “Siamo vissuti al d sopra delle nostre possibilità” et simila è – evidentemente per chi si sforzi di pensare e non subisca passivamente la propaganda – una contrapposizione ed uno squilibrio creati ad hoc non per “dare” a tutti, ma per “togliere” a tutti.
    E’ funzionale a desacralizzare i “diritti” e rendere accettabile una loro compressione… peccato, però, che questa desacralizzazione si arresti di fronte alle disparità di cui la globalizzazione si giova e che funge da alibi per tale compressione dei diritti, cioè – detto chiaramente – si considerano “da riformare” i diritti acquisiti, ma “intoccabili” gli squilibri in materia di diritti tra regioni avanzate e regioni del mondo meno avanzate o in va di sviluppo.
    Eppure, quando e dove lo si vuole, si riesce ad esportare persino la democrazia… strano che non si possano (o non so vogliano?) esportare dei semplici e basilari diritti in materia di lavoro.

  9. Renzi e’ neoliberista coerente & conseguente. Come il suo partito ex stalinista. Lo psicodramma e la mutagenesi, ridicola e di pessimo gusto, della Sinistra italiana. Tutto ampiamente previsto e prevedibile fin dalla fine degli anni ’70. Se una tragedia non fosse, da ridere ci sarebbe soltanto.

  10. No, no, Sinistra bene, nè nobile, nè altro, semplicemente eguaglianza, grande utopia dell’umanità, solidarietà, diritti conquistitati in anni secoli. Un semplice ‘Sinistra’, senza farci intellettualismi vaganti e inconsistensi, aggettivazioni paradigmatiche… Delle riforme fatte dico che sono controriforme. Sarebbe bello un po’ di redistribuzione del reddito,scuola di prestigio per tutti, Case alloggio per disagio psichico e fisico vedi Grande Riforma Basaglia), lavoro e reddito sociale di cittadinanza.Non bolle speculative, banche, cartacce da buttare. Dietro non c’è niente.Ma oggi è troppo, la gente troppo spaventata, ansiosa e in apnea emotiva,Aspettiamo l’ondata lunga della storia, come dice Braudel, che ci sarà, ce lo garantisce il grande storico.

  11. Sono confuso!
    Che senso ha usare un termine, populismo, che – scrive lo storico Loris Zanatta – “è ora epiteto ora concetto, fenomeno politico o stile del discorso, tipo di leadership o trucco verbale per screditare l’avversario” ?
    Sì, ha ragione Cucinotta: è seguire la moda dell’imperante (dis) informazione.
    Già, la confusione, perché malamente si leggono vicende politiche che si cerca di accomunare c0me populiste e cioè non definibili né di destra né di sinistra.
    Il parallelo Renzi–Tsipras (se è questo che intende fare Piras, se ho bene inteso il suo incipit) non mi sembra che regga ad una riflessione non superficiale. Direi che se Renzi ha fatto leva sul malumore dei cittadini, promettendo impegno per un cambiamento dell’Europa e della sua politica di sacrifici per le classi e i ceti poveri o meno abbienti, ma poi governando nel plauso dei non poveri (devo ricordare: le lodi e la soddisfazione da Marchionne alla Confindustria?), Tsipras, viceversa, ha chiesto al suo popolo il mandato a battersi per il cambiamento: e questo sta facendo. Tanto per semplificare: c’è una bella differenza tra il memorandum e la lettera del 23 febbraio di Tsipras alle istituzioni europee è tutt’altra cosa e anche i primi provvedimenti legislativi del governo greco
    E in questo non vedo generico populismo contrapposto all’idea europea, ma la proposta di una politica diversa dove solidarietà ed equità non sono solo modi di dire.
    Per far ingoiare l’austerity si dice che toccare la struttura della moneta unica creerebbe catastrofi sociali.
    Ma non s’è accorto Piras che le catastrofi sociali sono già avvenute?
    E veniamo a Renzi, preso atto della sua capacità comunicativa. Qquesta non può assolverlo dalle sue imminenti o già realizzate riforme. Che niente o molto molto poco hanno a che fare con le sue stesse promesse elettorali , in occasione sia delle votazioni popolari in cui venne eletto segretario, sia delle elezioni europee, soprattutto in tema di equità sociale e di diritti (ricordiamo tutti il suo: l’art.18 non si tocca! Tanto per dirne una e forse neanche la più significativa e non bastano certo 80 euro in busta paga e non a tutti per esser soddisfatti).
    E ora cado ancor più in confusione quando si identifica la denuncia (ma di chi? di quali sinistre parla Piras? che significato ha chiamarle “sinistra sinistra”, “sinistra nobile”?) della politica renziana con un ingenuo arroccamento, addirittura confondendosi con le destre.
    Ma no, certo, il confuso non sono io.
    Forse Piras ignora il lavoro e la fatica che a sinistra (semplicemente sinistra) si cerca di fare per arrivare ad una proposta comune, certo con tutte le contraddizioni e anche le banalità e le rigidità e i settarismi ancora notevoli, ma altrettanto certamente non esprimendo una generica opposizione che addirittura convergerebbe con quella delle destre.
    A meno di non voler mettere e mescolare in un unico brodo tutto ciò che a Renzi si oppone.
    Bel modo di ragionare.
    No, il confuso (nella più benevola delle interpretazioni) non sono io.

  12. Caro Piras,
    la sua affermazione apodittica che “La struttura della moneta unica non può essere toccata senza catastrofi sociali. Se un paese uscisse dall’euro, da solo, rischierebbe contraccolpi economici ben più gravi delle politiche di austerità.” può dare luogo a diversi commenti.

    1) E’ falso. Come lei sa, esistono da anni diversi ed accurati studi sullo scioglimento dell’unione monetaria UE. Nessuno suggerisce che sia facile come bere un bicchier d’acqua, nessuno ammonisce che si apriranno tempi calamitosi paragonabili, ad esempio, all’implosione dell’URSS.

    2) E’ vero. Allora, chi ha voluto una unione monetaria la quale 1) non prevede procedure ordinate di uscita 2) se ne esci scateni l’inferno, è : a) se lo sapeva, un criminale b) se non lo sapeva, un irresponsabile c) in ogni caso, un avventurista che non merita la minima fiducia, un idiot savant capace, nella sua allegra e stupida sicumera, di precipitarci in disastri davvero apocalittici quali una guerra atomica con la Russia.

    3) Non è nè vero nè falso: è propaganda, e dunque mischia una dose di verità (non è facile sciogliere l’unione monetaria UE, perchè in realtà l’euro è principale strumento di governo politico UE, l’archetipo dei “piloti automatici” cari alle oligarchie UE, che non amano i processi elettorali, i populisti e i popoli in generale) con x dosi di menzogna (perchè in realtà si può uscire eccome, e presto diventerà inevitabile farlo per diversi paesi tra cui la Grecia, come sostengono autorevoli e presentabili commentatori stranieri quali Wolfgang Streeck; e il disastro in parte c’è già, in parte si aggrava rimanendo nell’euro).

    Concludo con una domanda: e se il Front National vince le presidenziali del 2017 che cosa propone di fare? Chiediamo l’intervento armato della NATO contro il pericolo fascista?

  13. Caro Mauro, io invece sono francamente perplesso. Nel tuo articolo vi è un misto, permettimi, di livore verso chi non sa vedere il buono che c’è nelle riforme marcate Renzi, migliorabili certo, ma nel complesso buone – perché stolidamente (secondo te) “non [si] ved[e] la gravità dei problemi e la insostenibilità delle vecchie soluzioni” – e di insensibilità verso ciò che realmente sottende a tutte queste varie modulazioni di populismo – tutte comunque, a mio avviso, esiziali – che è la crisi della democrazia tout-court, di cui quei medesimi populismi sono nient’altro che l’epifenomeno.
    Su quest’ultimo punto, io penso che tutto sommato non ci sia da meravigliarsi: è un ulteriore trofeo che il turbocapitalismo vincente (io, a differenza di Vicenzo Cucinotta, non penso che si sia in presenza “di una crisi epocale del capitalismo”, crisi addirittura terminale) sta appendo al muro delle sue vittorie secolari. Sto parlando dell’idea di svuotare le istituzioni, lo Stato stesso, di tutti quelle procedure e del medesimo significato che rimanda al concetto di partecipazione, di decisione condivisa, frutto di tesi argomentate, e di riempire quel vuoto con la prassi dei provvedimenti cosiddetti tecnici, veloci e efficienti, volti alla realizzazione di tutte quelle azioni di governo presentate dalla propaganda come necessarie e financo naturali, fatte nel nome di un sempre più vago bene comune. Come ha fatto la cosiddetta Trioka. Come fa Renzi. La governace, non il governo frutto di meditate – e necessariamente lente – decisioni politiche. E’ abbastanza ovvio in favore di chi questo modo di procedere si svolga. E’ l’aziendalizzazione di tutta la società, della vita, biologica e spirituale (chiamiamola così) fatta nel nome della competitività (per cui non devono esistere più orari e regole condivise: sempre all’erta sulle trincee della produzione), questa parola magica che ha sostituito quella più consona a regimi militarizzati (anche democratici, come quello americano, almeno in certe fasi della sua storia recente) di Vittoria. L’azienda al posto della caserma – e in effetti le similitudini sono molte e sempre più inquietanti. E come in una caserma, la democrazia diventa assolutamente fuori luogo, i suoi processi inutili e votati al fallimento – anzi, alla sconfitta – e il correlato di diritti assolutamente risibile. Il populismo è la logica conseguenza di questa svolta ideologica, per lo meno negli aspetti inerenti alla gerarchizzazione della società, al culto del capo, all’idea dei comuni destini che legano un popolo o un’etnia. A questo punto anche nel momento in cui ci si trova nella necessità di opporsi a questo capitalismo affamatore. Per il semplice motivo che le alternative ideologiche non sono neanche più pensabili, dato l’enorme e approfondito lavoro di vera e propria diffamazione a cui sono state sottoposte da almeno trent’anni a questa parte, anche e soprattutto dalle parti della sinistra “non nobile”, o “sinistra-ma-non-troppo”.
    Su Renzi e sui suoi errori non dico perché non mi interessano. Dico però molto chiaramente che secondo me QUESTE riforme, per il contenuto e il modo, NON s’avevano da fare. E’ stato giusto opporsi alla loro approvazione, come è giusto, visto che adesso sono legge – e nei modo in cui sono passate, taccio -, provare a fermarne gli esiti, che si tratti di referendum o altro. Che poi succeda che “un esponente di Sel [sia al] tavolo di una conferenza stampa con Brunetta, Brunetta che twitta “Forza Bersani”” ci sta, sono “contingenze” politiche. Spero che tu non pensi seriamente a “convergenze” politiche: il PCI votava contro la DC così come faceva l’MSI, e lo scandalo era sempre e comunque sospetto.
    Non capisco poi tutta questa necessità di riforme istituzionali, dato che secondo me i poteri di controllo sul governo, in un paese come l’Italia, sono sempre troppo pochi, come capisco poco richiamarsi, su questi temi, a esperienze di altri paesi, che hanno avuto traiettorie storiche e politiche affatto diverse dalla nostra – e hanno anche altri problemi. Sulla (contro)riforma conosciuta come Jobs Act non ci vedo niente buono, e quei problemi legati alla precarietà che probabilmente costituiscono per te la parte positiva, si potevano anche risolvere – e in modo risoluto – senza per questo precarizzare tutti e tutto, arrivando persino a regalare (al di là di ogni più rosea speranza) al padronato le norme sui licenziamenti collettivi, il che la dice lunga sulla reale consistenza “di sinistra” di Renzi e compagni.

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