di Massimo Gezzi

 

[Nel 2004, grazie alla disponibilità e alla gentilezza di Ada De Alessandri Cattafi, uscivano su «Poesia» di Crocetti dodici poesie inedite di Bartolo Cattafi, scelte da me e avallate da Giovanni Raboni. Ripropongo qui l’articolo introduttivo a quei testi (ora confluito in Tra le pagine e il mondo, Italic Pequod 2015) e, di seguito, le dodici poesie di Cattafi, parzialmente accolte poi in B. Cattafi, Simùn, a cura di S. Ramat, Edizioni San Marco dei Giustiniani, 2004. Rinnovo il mio più sincero ringraziamento ad Ada ed Elisabetta Cattafi (mg)].

 

«L’osso, l’anima è uno dei libri più belli, più ‘pesanti’ di questi anni. Per conto mio (…) è la testimonianza più alta e organica (…) resa in questi anni (…) da uno scrittore della cosiddetta quarta generazione». Sono passati quarant’anni esatti da quando Giovanni Raboni, dalle colonne di aut aut, arrischiava questo giudizio audace ed apodittico, ancor più audace se si considera il contesto letterario cui esso fa riferimento (è la stagione del Gruppo 63, di Nel magma di Luzi, delle Poesie in forma di rosa di Pasolini…). Da allora Bartolo Cattafi ha pubblicato altre sette raccolte poetiche (oltre a qualche plaquettes); è deceduto ad appena cinquantasette anni nel ‘79; ha patito l’esclusione dalle più autorevoli antologie della poesia italiana del Novecento (Sanguineti e Mengaldo); è finito in una dimenticanza pressoché generale. Sino a che, da qualche anno, l’attenzione che merita sembra finalmente rinascere, il suo nome spuntare più di frequente nelle pagine di pubblicazioni di vario genere o sulla bocca dei lettori.

 

Merito dell’Oscar curato da Raboni e Vincenzo Leotta (2001), in primo luogo; ma merito anche di scrittori e studiosi che stanno comprendendo e dichiarando ciò che Luigi Baldacci, fra gli altri, aveva compreso decenni fa, e cioè che Cattafi è probabilmente uno dei massimi poeti del Novecento italiano: Laura Barile elegge un suo verso per il titolo di un romanzo (Il resto manca, Aragno 2003); un giovane poeta, Pierre Lepori, estrae da un suo testo un esergo per una sezione del proprio libro d’esordio (Qualunque sia il nome, Casagrande 2003); valenti studiosi (da ultimo Andrea Cortellessa) si occupano di lui; gli vengono dedicate tesi e ricerche con più frequenza. Proprio da una tesi di laurea nasce l’ultimo contributo a questa Cattafi-renaissance: si tratta della pregevole monografia di Paolo Maccari (Spalle al muro. La poesia di Bartolo Cattafi, Sefedit 2003), allievo di Baldacci all’Ateneo Fiorentino ed erede della stima nutrita dal maestro per il poeta siciliano-lombardo. Maccari ha saputo abilmente incanalare la sua passione per Cattafi, dichiarata e militante, negli argini di una indagine condotta con strumenti aggiornati, fornendo tra l’altro la possibilità di leggere in Appendice un discreto numero di testi inediti, appartenenti al periodo giovanile o coevi alle poesie finite ne L’osso, l’anima.

Le carte cattafiane nascondono tuttora materiali inediti di prima qualità. Se ne accorse Marco Forti, quando nel 1999 commentò su «Antologia Vieusseux» (14, 1999) 24 inediti «degli anni 1971-73», senza per altro riprodurli; dallo stesso faldone cui ha attinto Forti abbiamo tratto le poesie presentate qui per la prima volta, tutte verosimilmente contemporanee a quelle confluite ne La discesa al trono (1975) e in Marzo e le sue idi (1977), e perciò risalenti agli anni 1972-73. Si tratta di dodici testi accuratamente scritti a mano da Cattafi su fogli sparsi, privi di correzioni e dunque apparentemente apprestati per un’eventuale pubblicazione e poi invece esclusi da tutte le raccolte. Non è possibile decidere con sicurezza il motivo del ripudio di tali testi; si può però ipotizzare, anche sulla base della testimonianza di Raboni, che l’editore imponesse qualche limite di spazio all’esuberanza del Cattafi degli anni Settanta: basti osservare che alcune delle sue ultime raccolte (L’aria secca del fuoco e Marzo e le sue idi) presentano i testi uno di seguito all’altro, non rispettando cioè l’usuale rispondenza biunivoca tra poesia e pagina. Sia come sia, questi testi ci paiono pienamente risolti e del tutto meritevoli di essere affiancati a quelli editi nelle raccolte citate, e offrirli in queste pagine costituirà, se non altro, un ulteriore contributo alla rilettura di questo notevole poeta.

 

Si tratta di testi del tutto coerenti con la produzione cattafiana degli anni Sessanta e Settanta: vi si riconoscono immagini, allegoriche o allusive, che si configurano come tenacissime stelle fisse all’interno del cosmo ideografico di Cattafi: si vedano i «metalli veloci» di Mani avanti, proiettili che schizzano su un binario e che possono richiamare alla memoria la macchina metallica di Qualcosa di preciso, con un di più di allarme, però, lo stesso che comunicano i testi più claustrofobici de L’osso, quelli in cui l’io si assottiglia sino a coincidere con la propria Sagoma – titolo di testo e di sezione – stampata contro un muro ed esposta alla mira di un nemico imprecisato; o si consideri la dicotomia implicata in Sfatare, dove le «calde luci taglienti» annullano l’umido e l’ombra della foresta, in una pulsione all’ordine che in molte poesie degli anni Settanta (specie de L’allodola ottobrina) confligge con la fobia opposta della immobilizzazione, della neutralizzazione di una Dismisura che in un testo omonimo e memorabile dell’Allodola è allegorizzata per mezzo dell’immagine di una rabbiosa quaglia in gabbia. Una bipolarità simile dimostra anche Alfiere, in cui il paradosso nasce dall’improvviso gap che interrompe e inverte la consequenzialità logica degli eventi: così un «impettito / alfiere» diventa unica possibilità di salvezza, a patto però – e l’immagine è straordinaria – che getti la bandiera e vada a gridare «Scacco» in faccia al proprio re. In Un discorso un interlocutore, che forse non è altri che l’io, siede nervosamente in una stanza, situazione che attraversa tutta l’opera di Cattafi, da Una stanza in rue de Seine del 1954 – semplificando – sino al lampo di Non si evade dell’Allodola («Non si evade da questa stanza / da quanto qui dentro non accade») e ben oltre. Alle «foglie unanimi / girate verso il nulla» con cui questo inedito si chiude risponde la pienezza dei due brevi testi successivi: la freschissima e sorprendente metafora dell’»atlantico del letto» della splendida Al mattino, e l’altra del «mare spalancato della rosa» di Come le cose. L’io può pure mascherarsi da silenzioso Stilita, ridotto a «uno sgorbio ondeggiante nel vento», che ignora quel che accade alla base della sua colonna; oppure può identificarsi, come nella bella e problematica Per strada, con un volto che etimologicamente diventa persona, maschera pirandellianamente non più rispondente al nome che la porta (tema anche questo più volte frequentato dal Cattafi maturo: basti leggere l’incipit della coeva Proposta, tratta da La discesa al trono: «Ora che siamo seduti tutti in giro / la mia proposta è di toglierci la faccia / e tagliarla a strisce /…»).

 

Il pronome di prima persona poi, come in molte poesie de L’osso, l’anima, può tornare ad essere declinato al plurale: succede nell’inquietante favola kafkiana Allo scoperto, dove l’io diventa un «noi» composto di uomini ridotti ad «ombre», che attendono la fatale caduta di «altri» all’interno del loro stesso allucinato circolo metafisico; mentre in Non credo l’io riprende decisamente la parola, sconfessando ciò che auspica in Sfatare, ovvero le «croste opprimenti / che negano il volo», le sbarre posticce che impongono un ordine percepito come falso e innaturale, se il poeta è in grado di vedere l’albero ritornare «a colpi regressivi di moviola / a chiudersi nel seme» (salvo poi scoprirsi incapace di invertire la marcia alla propria «morte a dismisura»). In mano il fuoco è un componimento che, nella distinzione proposta da Raboni tra un registro «descrittivo e narrativo» e uno «astratto-speculativo» che caratterizzerebbero pendolarmente l’intera opera di Cattafi, andrebbe annoverato tra i testi in cui agisce questa seconda modalità: il fuoco, da scrittura che s’imprime «su cose sconosciute» (eco delle montaliane «lettere di fuoco»?), scappa di mano, sembra voler acquisire una forma capace di consegnare un significato allegorico che poi invece non si coagula, resta allusivo e frammentario, risonante di vaghi echi biblici. Echi che diventano eliotiani in Come un capello, in cui una Waste Land («questa brulla terra di nessuno») è turbata da un’epifania minima, introdotta dalla similitudine monca – perché non conchiusa da un secondo termine – suggerita dal titolo. Proprio da quest’ultimo testo si sarebbe tentati di estrarre una sorta di cifra dell’intera poesia cattafiana: quell’ossimorico, paradossale «indelebile nonnulla» – che per sineddoche potrà essere anche l’uomo – di cui Cattafi tentò strenuamente di desumere il senso attraverso una poesia radicalmente intesa, con parole sue, come «tentata decifrazione del mondo».

 

* * *

 

Bartolo Cattafi, Dodici poesie

 

Mani avanti

 

Prevenire il colpo
mettere le mani avanti
crearsi un po’ di spazio
contro metalli veloci
che spesso passano
nel binario accanto
imprecando
avendo sbagliato mira.

 

*

 

Sfatare

 

Bisognava sfatare la foresta
dare lo sfratto
a umido e ombra
con calde luci taglienti
metterla a soqquadro
fare fracasso e dire
che i suoi abitanti sono chiari
leggibili da sinistri a destra
dall’alto verso il basso.

 

*

 

Alfiere

 

Sul piano inclinato
delle nostre azioni
all’ultimo bivacco
giunti a pochi metri dalla morte
col dito sul grilletto
chi può ancora salvarci è l’impettito
alfiere
se si sgonfia
se la bandiera butta alle ortiche
se al nostro re va a dirgli Scacco
e rompile per sempre
non mettere in ordine le righe.

 

*

 

Un discorso

 

Seduto in una stanza
dipinta a strisce discordi
di colore e di direzione
(alcune s’avventano su altre)
le unghie ti mordi
gli occhi assorti
come di chi porta
fuori di lì un discorso
entrando nel biancore abbacinante
d’un bosco di betulle dislocato
in un qualsiasi punto della vita
seguendo foglie unanimi
girate verso il nulla.

 

*

 

Al mattino

 

Addosso mi drappeggio
un manto imperiale
passeggio lungo l’orlo
di lucide follie
accarezzo i fianchi
di delizie perfette
fra i lenzuoli al mattino
nuotando nell’atlantico del letto.

 

*

 

Come le cose

 

Come le cose che vengono dal nulla
come la neve i passeri la pioggia
il polline emerso
dal mare spalancato della rosa.

 

*

 

Stilita

 

Parlavo prima
ai tempi verdi del muschio
con la voce del marmo
o del bronzo
sorretto da fibre salde
immobile come un occhio
nella ruota dei venti
non mi curo oramai
se le nere onde degli inferi
sbattono non sbattono
alla base della colonna
fossi una foglia d’acanto
stampato nella pietra
ma attenta
incollata al suo fusto
e non un cencio
uno sgorbio ondeggiante nel vento.

 

*

 

Per strada

 

Vai
ad occhi aperti cammina
ne vedrai di belle
per strada
un paralume
una scarpa
un orecchio
la copertina d’un libro forse
fatti con la tua pelle
e la tua faccia triste
a uno specchio
sotto un altro nome.

 

*

 

Allo scoperto

 

Usciti allo scoperto
corremmo a scatti
ci acquattammo
tornammo a correre
di colpo diventammo ombre
nell’ombra più fonda
da dove con occhi scintillanti
guardiamo gli altri uscire allo scoperto
correre a scatti
acquattarsi
rialzarsi a correre
a diventare ombre.

 

*

 

Non credo

 

Non credo alle croste opprimenti
che negano il volo
alla cinta dei muri
alle finte sbarre
l’albero può tornare indietro
a colpi regressivi di moviola
a chiudersi nel seme
ma quale raggio non scrive
la mia crescita e morte
morte a dismisura?

 

*

 

In mano il fuoco

 

Prendere in mano il fuoco
e scrivere su cose sconosciute
come un pazzo che stampa
caratteri d’un fuoco
che gli scappa di mano
e si erge a grande criniera
grande dorso
su cui alla cieca
alla luce abbagliante cavalcare.

 

*

 

Come un capello

 

Come un capello curvo
una mezzaluna
un esile arco
finemente inciso
indelebile nonnulla
infilabile in una cruna
una piccola unghiata come un segno
di monito e ricordo
in questa brulla terra dei nessuno.

 

[Poesia», XVII, 184, giugno 2004].

 

[Le poesie Al mattino, Come le cose, Un discorso, Come un capello, Allo scoperto, Stilita, Non credo, In mano il fuoco, Alfiere sono state poi ripubblicate da Silvio Ramat in B. Cattafi, Simùn, a cura di S. Ramat, Edizioni San Marco dei Giustiniani, Genova 2004].

 

2 thoughts on “L’«indelebile nonnulla» di Bartolo Cattafi. Dodici poesie

  1. Nel 1958 la casa editrice pubblica ‘The Penguin Book of Italian Verse’, un’antologia tascabile, parte di una serie dedicate alle varie poesie nazionali ed ai periodi della poesia inglese.
    Si tratta di un agile paperback che in 438 pagine ci porta da San Francesco d’Assisi ai nostri giorni, cioè all’immediato dopoguerra. Le traduzioni in inglese sono parafrasi in prosa.
    Le scelte, come in tutte le antologie, sono discutibili, specie quando lo spazio impone esclusioni radicali. Per limitarci agli ultimi secoli, non c’è Alfieri e, dopo il Foscolo, c’è una poesia di Berchet. Manzoni, Leopardi, Giusti – niente Porta o Belli in quanto dialettali. Canonicamente, si prosegue con Leopardi, Carducci, Pascoli e D’Annunzio. Niente Gozzano, in compenso Dino Campana.
    Segue l’altra triade canonica: Ungaretti, Montale e Quasimodo (che aveva appena vinto il Nobel). Niente Saba.
    A questo punto, com’era d’uso in quella serie di antologie, bisogna correre un rischio, scegliere per concludere uno o due poeti giovani non ancora del tutto consacrati. Il curatore, George R. Kay, punta su Bartolo Cataffi che, lo confesso, non avevo mai sentito nominare prima di quell’antologia.
    “The poet whose voice is coming to be recognized as the first of the newer poesia”. Nient’altro, a parte l’elenco dei libri pubblicati fino ad allora e 12 brevi poesie che mi colpirono molto, anche per l’accidente di un nome per me sconosciuto in fondo a tanti ampiamente stabiliti. Inoltre mi ricordò il mio preferito, Saba.

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