di Daniela Brogi

 

Firenze 1348, al tempo della peste. La macchina da presa avvicina fino al piano medio un giovane guardato di spalle: è fermo, è solo, e la sua figura si staglia contro un cielo primaverile striato da qualche scia di bianco puro; c’è una cura pittorica dell’inquadratura: i colori sono primari, le linee pulite, tutto presuppone la nitida armonia di un mondo fermato nella sua essenza. Se non fosse che quella testa ripresa da dietro ha un movimento nervoso, sembra sporgersi su qualcosa che sta molto più al di sotto della base d’appoggio del corpo. Intanto la telecamera continua a seguire quel profilo, spostandosi di centottanta gradi; adesso ci troviamo di fronte all’uomo, e siamo interpellati a decifrarlo lavorando unicamente sui dati fisici e visibili della realtà – un po’ come fanno Dante e le anime dei dannati nell’Inferno. Osservando i suoi occhi stralunati e le vesciche infette che ha sul petto capiamo che quel giovane è terrorizzato e malato. Spavento e malattia, cioè, non sono due circostanze che stanno assieme in sequenza, ma ci appaiono ed esistono in compresenza, l’una dentro l’altra. È il caos.

 

Adesso l’uomo per la paura si copre gli occhi con un braccio, e attraverso l’apertura veloce di campo registriamo un senso fisico di vertigine che ci fa capire meglio le ragioni di quel panico: il giovane è in cima a una torre – quella campanaria di Giotto; sta per buttarsi e noi lo abbiamo incontrato giusto nell’istante che precede il salto nel vuoto, quello in cui il suicida implora l’aria circostante di farlo resistere. Ma non c’è più modo di dare spazio e senso alla vita, dunque assistiamo a quel volo, osserviamo quel corpo a testa in giù che, precipitando, sovrappone, con un paradossale effetto di cortocircuito della percezione, due memorie iconografiche lontanissime nel tempo ma che adesso si fondono: l’immagine medievale dell’appeso, nelle carte dei tarocchi, e una delle immagini più traumatiche dell’Undici Settembre 2001: quella dell’uomo che precipita dalle Twin Towers – la stessa usata anche sulla copertina della traduzione italiana dell’Uomo che cade, di Don De Lillo.

Tutto questo accade nella prima scena di Maraviglioso Boccaccio: appartiene alla sequenza più bella del film, quella in cui si narra lo sfondo della peste da cui prende avvio il Decameron. Ma, soprattutto, è la sequenza che, finalmente, restituisce a uno dei più grandi capolavori della letteratura occidentale ciò che davvero lo fonda e gli dà forma e senso: l’«orrido cominciamento». Vale a dire lo scenario della malattia, del marasma, della «mortifera pestilenza», l’orizzonte straordinario (questo è per lo più il significato con cui Boccaccio usa “maraviglioso”), il caos dentro il quale prende vita l’avventura del racconto. L’andata in villa, per raccontarsi novelle e festevolmente viver, non è un’evasione, non è una fuga, non è invenzione di un microcosmo alternativo e definitivamente separato, bensì una risposta dinamica al senso diffuso di un mondo che precipita a testa in giù. Novellando, intanto che si sta insieme, ci si reimpossessa del tempo e della vita contro l’assedio materiale e metaforico dell’epidemia. È questa dialettica vita versus morte, racconto versus caos, che Maraviglioso Boccaccio ci restituisce, suggerendo, in attacco, di osservare e consumare non solo il mondo narrato, ma soprattutto la situazione che lo configura. Ecco che la cornice del Decameron, cioè la situazione narrativa che lo origina, non è più vuoto dispositivo strutturale, una categoria da mandare a memoria – con perfidie formalistiche annesse come la supercornice, il supernarratore e formule simili. La cornice narrativa, lungi dal ridursi a dettaglio retorico, è la forma simbolica del Decameron, perché le cose che non hanno forma non durano, come dice la regina della brigata, Pampinea; e la forma ristabilisce continuità, equilibrio, salva la vita che si sporge sul precipizio, impedisce al dolore di portarci via con sé. Di questa prossimità con il vuoto che rischia sempre di sbilanciarsi, di questo campo magnetico in cui la morte, attraverso la malattia e il contagio, vorrebbe attrarre e ingoiare tutti, parlano infatti anche le altre tre scene che incorniciano il racconto di Maraviglioso Boccaccio: quella della giovane ormai respinta dal resto della famiglia perché ha baciato la sorella morta di peste; quella del marito che si butta nella fossa comune per comporre il cadavere della moglie; quella della giovane abbracciata a tradimento dall’appestato.

 

Il film non è una filologica trasposizione del Decameron, tant’è vero che spariglia subito le carte, cominciando con una novella tratta dalla decima giornata (Dec. X, IV), di cui per giunta si cambia il finale; ma il lavoro di regia, pur tradendo – e per fortuna – la lettera del testo, restituisce a Boccaccio, e a chi ama la sua opera, qualcosa di più importante. Non si tratta soltanto della cornice narrativa, di cui già si parlava; Maraviglioso Boccaccio, anche con soluzioni di composizione o d’interpretazione che talvolta possono lasciar perplessi, ci rende un Medio Evo come alterità, vale a dire come situazione e campo di esperienza e di percezione molto diversi dalla maniera in cui le narrazioni degli ultimi decenni hanno trattato e usurato questo mondo, trasformandolo in uno dei luoghi privilegiati del genere fantasy. Consideriamo tre esempi. La reinvenzione di un paesaggio toscano – tra l’altro proprio quello più falsificato dal vedutismo – come posto arcaico. Lo stesso racconto di scene sessuali così goffe, per le quali, se proprio si vogliono fare paragoni, non fermiamoci a Pasolini, che nel 1971 poteva raccontare la vita e la gioia di vivere attraverso la liberazione dei corpi; pensiamo piuttosto al cinema cosiddetto “decamerotico” degli anni successivi: dopo quella stagione sarebbe stato possibile raccontare con serietà mimetica il sesso del Decameron? E infine: la scelta di non raccontare mai le storie in soggettiva, facendo sì che gli spettatori non smettano di identificarsi nella telecamera anziché nei personaggi. Già questi tre motivi ricompongono un’immagine del Medio Evo certo più fredda, più difficile da avvicinare, più esposta anche alle critiche, ma che raggiunge talvolta momenti di espressione perfetta: perfetta, creativamente parlando, proprio perché così lontana da noi, così inattuale – come per esempio nel modo in cui i primi piani raccontano la bellezza impenetrabile e altera di Catalina (Vittoria Puccini), raffigurata come Madonna, proprio nel senso di domina, quasi fosse la dama ritratta di una tavola rinascimentale.

 

Il Decameron è un’opera straordinaria, maravigliosa, perché continua a raccontarci, senza smettere di essere attuale, che l’emergenza di una situazione minacciosa può aiutarci a sprigionare l’essenziale, a fare comunità, a costruire un’arca in cui mettere i valori più importanti; perché ci dice, come insistono fino alla ripetizione anche i Taviani, che dove c’è pericolo, cresce anche ciò che salva, come ha scritto Hölderlin.

3 thoughts on “Il Decameron non deve morire. Maraviglioso Boccaccio

  1. Bellissima analisi. Il film è davvero molto bello.
    A proposito del paesaggio toscano che tende al fantasy, credo che sia significativo questo video. Vedere come la maravigliosa cinta muraria di Monteriggioni sembri un castello da Trono di spade. Nulla di male, ma in effetti il paesaggio toscano è già così bello che ha bisogno di essere riportato alla sua essenzialità, ogni tanto.

  2. La recensione di Daniela è ,come sempre, molto precisa,ricca di approfondimenti cinematografici e letterari. Interessante anche il confronto di civiltà e con il nostro tempo, in cui molto si dovrebbe salvare, ma non sappiamo se e quando, vista il tono tiepido, timido, e conformistico della nostra società occidentale. Viviamo nel pericolo di perdere tutte le conquiste fatte precedentemente, nell’incertezza assoluta, nell’assenza di com-passione e solidarietà, peggiore della peste( Noi,comunità, siamo tutto il mondo, anche i paesi dell’Africa).
    Nella Firenze del M.E. i giovani che si ritirano per sfuggire alla peste e novellare, comprendono che solo nella comunità, nella solidarietà si può ricominciare a vivere.
    Mi piacerebbe qui ricordare anche il Decamerone di Pasolini, che affronta i temi principali dello scontro tra le classi sociali e della liberazione sessuale.

    Pasolini sceglie di raffigurare una realtà contadina ingenua e innocente, nella quale l’istinto domina i rapporti interpersonali, senza preconcetti bigotti o conservatori. L’interrelazione sociale riproduce però i giochi di forza che contrappongono la borghesia alle classi subalterne e si traduce in una condanna dello sfruttamento dei deboli.

    Come al solito la cifra di Pasolini è più sanguigna, erotica e attratta dal naif, ma meno fluente e pittorica, sensibile di quella Taviani

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