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di Sandra Burchi

[Pochi mesi fa è uscito Ripartire da casa. Lavori e reti dallo spazio domestico, di Sandra Burchi, pubblicato da Franco Angeli. Si tratta di un saggio sulle nuove forme di lavoro femminile in spazi domestici che somma alcuni spunti teorici a una sezione di interviste a dieci lavoratrici ‘precarie’. Pubblichiamo alcune pagine tratte dall’Introduzione al volume, ringraziando l’autrice e l’editore].

Il posizionamento dentro-fuori mercato del lavoro in cui molte donne si riconoscono richiama l’elasticità e la duttilità con cui le donne hanno risposto alle rigidità dell’ordine economico, sperimentando una partecipazione sempre difforme al modello proposto. Inutile ricordare che la storia del lavoro femminile è una storia poco lineare. Le storiche non esitano a parlare di una precarietà lunga secoli (Bellavitis, 2008) congiunta a una straordinaria abilità di adattamento, documentata dalle ricerche come capacità di “accaparrarsi” occasioni di lavoro all’interno di situazioni mutevoli negli spiragli che si sono aperti nelle diverse epoche per sviluppare un ruolo attivo e produttivo. Il dentro-fuori dunque è rintracciabile come elemento ricorrente della storia del lavoro femminile, motivato da fenomeni di lungo corso ben intrecciati con le norme culturali, i rapporti fra i generi e la loro costruzione nel tempo. Sullo sfondo di un sistema economico regolato dall’ordine simbolico del lavoro strutturato e organizzato, fonte di diritti e privilegi che mediavano e modellavano le regole della cittadinanza, le donne hanno sempre dovuto affrontare il problema di conciliare ritmi lavorativi e cicli biologici, spesso riuscendoci e altrettanto spesso scivolando in una condizione di irregolarità che non ha voluto dire non-lavorare. Questo lo sappiamo bene almeno dagli anni Settanta, quando grazie al contributo della critica femminista agli studi sul lavoro non solo si è cessato di negare la partecipazione femminile al mercato, ma si è smesso di considerare come unica l’idea di lavoro disegnata, pensata, analizzata e concettualizzata sull’esperienza e sul corpo maschili. Rimanendo al caso italiano sappiamo che le donne attive nei movimenti politici del dopoguerra si sono mosse rivendicando il “diritto al lavoro”, cioè il diritto di “poter lavorare” o di essere riconosciute nei luoghi di lavoro come “pari” (Gissi, 2013). Gli anni Settanta del Novecento sono gli anni in cui si fa un passo avanti o “a lato”: sulla spinta dei movimenti femministi il modello maschile di partecipazione al mondo del lavoro cessa di essere il riferimento unico. Questo divenne evidente anche nelle analisi sul lavoro: la crisi dei paradigmi classici della sociologia del lavoro (e della famiglia) portarono a mettere al centro della riflessione la specificità del lavoro femminile, aprendo così ad un processo di ridefinizione dell’idea stessa di lavoro.
Gli studi realizzati a partire da questa nuova ottica fecero emergere, in contrasto con l’immagine fortemente negativa dominante, un’immagine del lavoro femminile più ricca e complessa, nella quale trovarono spazio categorie descrittive e concettuali in grado di cogliere la partecipazione attiva delle donne al funzionamento della società, anche nei suoi risvolti conflittuali. Si passò così dal considerare le donne soggetti doppiamente esclusi dalla sfera sociale – perché immerse nella famiglia (in un lavoro tutto “privato”, considerato poco o per niente produttivo e sprovvisto di storicità), e perché collocate nei settori meno dinamici del mercato – a soggetti capaci di mettere in discussione le tradizionali dicotomie fra pubblico e privato, lavoro e non lavoro, segnalando i nessi e le interrelazioni operanti. Una serie di figure e categorie che fanno ormai parte quasi di un “gergo” sul lavoro delle donne, le dobbiamo a una stagione che nei vari passaggi fra movimento, ricerca, sapere, politica, ha prodotto e articolato un lessico capace di raccontare la stratificazione dei lavori necessari e di cui le donne sanno essere autrici. Negli anni Settanta, va ricordato, si è sviluppato un enorme dibattito internazionale sul “lavoro domestico” che ha interessato studiose e donne attive nel movimento e nei collettivi e che è servito, pur se da prospettive diverse, a mettere in luce il valore economico, il potenziale sovversivo e la complessità di quel lavoro utile alla produzione della vita quotidiana. È sulla base di questo che si è arrivati all’invenzione di coppie oppositive come “lavoro di produzione” e “lavoro di riproduzione” e di categorie come “lavoro di cura”, “lavoro di servizio”, “lavoro familiare”, tutte invenzioni lessicali che hanno avuto il ruolo di de-naturalizzare il fare femminile e di metterlo in rapporto con la società nel suo complicato avventurarsi nella modernità più recente. La critica femminista al lavoro è stata capace, seguendo una spinta rivendicativa, di mettere in crisi l’idea classica di lavoro, di mostrarne la parzialità e l’astrattezza, proprio ponendo in rilievo i contenuti di “lavoro” iscritti nell’esperienza e nelle biografie delle donne (per una ricostruzione rimando a Simone, 2013)). Alcune categorie che usiamo oggi per raccontare le attuali mutazioni e trasformazioni del lavoro hanno una radice rintracciabile nel progetto femminista di espandere l’idea di lavoro in modo da includere anche l’esperienza delle donne. Categorie oggi molto in uso, come quelle di “lavoro immateriale” e “lavoro affettivo”, hanno il loro punto di partenza nel contributo dato dalla critica femminista all’idea classica di lavoro (Weeks, 2007), ed è per questo che non si tratta di categorie puramente descrittive ma con un forte portato politico e conflittuale che andrebbe recuperato.
In Italia questo lavoro di rinominazione e concettualizzazione – cui proprio il GRIFF ha contribuito in maniera determinante – ha coinciso storicamente con un periodo di imponente crescita di partecipazione femminile al mercato del lavoro. Se è vero che la discussione sul lavoro indagava il valore del lavoro extra-mercato, è anche vero che molte donne – grazie alla riforma della scuola pubblica e di altri apparati della pubblica amministrazione – sono entrate a far parte stabilmente nel mondo del lavoro. Le categorie elaborate in quel periodo rispondono all’esigenza di comprendere cosa comportasse in termini di percorsi di vita e di organizzazione sociale il fatto che per la prima volta in Italia (così come in altri paesi occidentali) la maggioranza delle donne vivesse come condizione “normale” quella di essere presente stabilmente nel mercato del lavoro e nella famiglia. L’istituzionalizzazione di quella che fu chiamata “doppia presenza” femminile, e dunque una nuova divisione sessuale del lavoro, era in quella fase storica la caratteristica più saliente della società capitalistica, una trasformazione profonda della società di cui erano protagoniste proprio le donne.
[…]

L’avanzamento concettuale che dobbiamo a quella stagione, sintetizza Leccardi «mentre ha contribuito a gettare un fascio di luce sul legame fra costruzione delle soggettività femminili e processi di mutamento sociale, ha stimolato un ripensamento del “lavoro femminile”, imponendo di andare oltre sia la contrapposizione fra “lavoro domestico” e “extradomestico” sia la loro semplice somma» (Leccardi, 2005, p.108). Il percorso che si è aperto è piuttosto quello di una ridefinizione unitaria del senso di quel lavoro, una ridefinizione che si riverbera anche sugli strumenti interpretativi con cui accostarsi alla costruzione biografica e all’identità delle donne. La rottura con uno schema di pensiero, portato avanti dagli studi sul lavoro è anche da un certo schema emancipatorio, che vedeva le donne in corsa verso una cittadinanza da raggiungere portandosi in condizione di parità con gli uomini attraverso il lavoro come principale canale di acquisizione, una volta trovate le soluzioni al problema delle “incombenze domestiche”. In quello scenario la legittimità di un’azione femminile derivava principalmente dal fatto di pensarsi come subalterna e di cercare un riscatto attraverso una serie di strumenti che avrebbero prodotto un’uguaglianza di vita con gli uomini. L’idea di base era quella di supportare la presenza femminile nei contesti di vita – attraverso i servizi – per favorire un accesso pieno al mercato del lavoro, senza riconoscere la centralità già acquisita dalle donne nei percorsi del quotidiano, in un lavoro inteso come produzione e riproduzione sociale e senza capire che nell’esperienza femminile si stava producendo una soggettività dotata di autoriflessività, intelligenza, costruzione della qualità della vita di tutti.
Il rovesciamento di sguardo, che si produsse in vari paesi, pur con stili e orientamenti teorici e politici diversi è servito a inaugurare un modo diverso di leggere i rapporti fra le varie sfere dell’agire sociale, guardando alle donne come attrici intelligenti e consapevoli, capaci di un atteggiamento strategico sulla propria vita.
Quello che si è riusciti a fare in quel periodo vale la pena di essere ricordato ancora oggi, soprattutto se «assumiamo al presente la temporalità lunga della cesura femminista», (Giardini, 2012) e guardiamo al tentativo – riuscito – di risignificare dall’interno quel movimento dentro-fuori che ha caratterizzato l’esperienza storica del lavoro femminile. Un’operazione teorica – e fortemente politica – di rovesciamento, che è servita a pensare oltre le opzioni allestite dai rapporti di forza che hanno visto e concettualizzato le donne come soggetti da tutelare o rafforzare in vista del raggiungimento dell’adesione a un modello dato (maschile). È questa cesura, avvenuta in un tempo tanto lontano che le stesse protagoniste non esitano a definire “il medioevo” (Piazza, 2013) del tempo presente (se pensiamo alle profonde trasformazioni avvenute in ogni angolo del vivere sociale), che ci ha consegnato la possibilità di guardare diversamente l’agire femminile nel mondo, non più esclusivamente come il “non ancora” (Simone, 2013) di qualcosa da realizzare, ma come un diverso posizionamento radicato nell’esperienza di un corpo e di una storia differenti.

Dentro l’oggi

È con questo atteggiamento sorgivo di fiducia e valorizzazione che guardo oggi al “dentro-fuori” delle donne che svolgono parte della loro attività professionale in uno spazio costruito ad hoc fra le mura di casa, provando a non ricadere indietro, verso quel modo di guardare alla società come un territorio rigidamente frazionato in sfere di vita contrapposte. Quello che osservo è un continuum costruito consapevolmente e faticosamente, un modo di mettere in fila opportunità e bisogni, investendo su risorse praticabili in un contesto in cui le vie di accesso al mercato del lavoro sono diventate difficili per uomini e per donne e il confine fra produzione e riproduzione, fra privato e pubblico si è sgretolato – anche – per effetto della ristrutturazione economica. Consapevole dello scenario completamente cambiato, cerco di non disperdere il guadagno di conoscenza che abbiamo acquisito sulle vite femminili, sul loro orientamento strategico, sulla loro “distanza” rispetto a un modello che non le hai mai viste veramente integrate fino in fondo. Rotto “lo specchietto per le allodole” (Falquet, 2013) di un sistema economico in grado di estendere a tutti i rapporti di lavoro retribuito e di saldare la cittadinanza a quel tipo di rapporti, viviamo da più di vent’anni in una sorta di “interregno” (Simone, 2013) caratterizzato da un “lutto collettivo” a cui si cerca di rispondere con la politica della “difesa” o, per quello che riguarda le donne, con il proliferare di discorsi che vanno in direzioni diverse, da quelli che individuano nel lavoro femminile il “Fattore D” dell’economia, a quelli che si muovono nella faticosa ricerca di dispositivi di inclusione o di azioni mirate all’empowerment. Tutti discorsi che hanno per “oggetto” le donne e non mancano di un certo paternalismo.
È rischiosa anche la via che a me sembra più promettente – e che mi guida in questo lavoro – quella cioè di leggere con attenzione dentro le vite femminili, considerando le risposte “agite” come laboratorio di strategie praticabili per rispondere alla crisi e all’incapacità del mercato di rigenerare se stesso. Non solo può apparire consolatorio, ma può essere pericolosamente in linea con l’erosione di un sistema che sa lavorare solo di piccoli aggiustamenti o, come è stato detto con forza, riesce a “mettere a valore” le “attitudini femminili” piuttosto che riconoscerne il loro portato critico o innovativo.
Negli ultimi anni si è parlato molto di «femminilizzazione del lavoro e della società» (Morini, 2010) connotando l’ingresso sempre più ampio delle donne nel mercato come uno degli aspetti della femminilizzazione stessa dei sistemi di produzione attraverso l’economia del care, la flessibilità, il lavoro cognitivo, il lavoro gratuito, ecc. In questa lettura si insiste nel dire che la stessa riproduzione sociale è messa a valore, tanto che la rivendicazione di un modo di essere differenti nel lavoro e nell’organizzazione del tempo e della vita, è completamente “sussunta dal capitale” che genera implacabilmente fenomeni di auto-sfruttamento. L’immissione forte di soggettività portata dalle donne nei vari ambiti dell’esistenza, e anche nel lavoro, si traduce in una “perdita”, in una forma inedita di depotenziamento del femminile ottenuto non per esclusione ma per assimilazione:

Stiamo sperimentando una situazione completamente inedita alle generazioni di donne che ci hanno preceduto. Il passaggio di sussunzione totale del lavoro sotto il capitale oggi non ha bisogno di brutali imposizioni, né di cesure, dicotomie, esclusioni. Il depotenziamento del femminile non avviene – come è successo in passato – attraverso la sua esclusione dallo spazio pubblico, ma viceversa attraverso una progressiva femminilizzazione della società, che si traduce nell’assorbimento del potenziale sovversivo della differenza. Questa è la straordinaria invenzione del bio-capitalismo: l’alterità viene assimilata ottenendo con ciò la sua integrazione, dunque la sua scomparsa. Sul fronte opposto si gioca anche la femminilizzazione del maschile, istituita anche dai processi produttivi presenti. Essa viene stimolata dagli stessi elementi prototipici (culturali) richiamati, messi in campo dal processo di femminilizzazione: precarietà, affettività, corpo, cura. (Morini, 2010, p.16)

La capacità di far giocare elementi personali nel mondo del lavoro, si traduce in una possibilità che non produce vantaggio, e offre energia e intelligenza su un piatto d’argento a quel (bio)capitale che tutto vuole e tutto usa. È una lettura lucida che rispecchia la situazione di molte e di molti. Mi sembra però che in quel dare il “depotenziamento del femminile” come già avvenuto, ci sia una perdita ancora più grande degli svantaggi misurati sulle esistenze (i pochi diritti, i pochi soldi, la totale incertezza e precarietà), tutti svantaggi evidenti, misurabili, depressivi. Mi piacerebbe poter dire che la violenza di quello che abbiamo imparato a chiamare “biocapitalismo” si arresta proprio sulla capacità dei soggetti di decidere di sé, di trovare – pur nello svantaggio – forme di autogoverno, di autodeterminazione. Certo questo vale come ipotesi, come prospettiva, ma mi sembra che il margine di libertà – conquistato – vada difeso, che si tratti di radicalizzare questo posizionarsi differente delle donne nel lavoro, piuttosto che dichiararlo espropriato e messo a profitto solo da altri.
Quello dei lavori che ho incontrato fra le mura di casa è un esempio perfetto. Si tratta di situazioni estremamente fragili se guardate secondo i parametri delle equivalenze classiche (tempo-denaro per esempio), caratterizzate da un’enorme spesa di sé, da continui aggiustamenti e da molta “cura”. Ma la cura che ho osservato non è solo riparazione, gratuità, oblatività, è anche esigenza di senso, di giustizia. In questo assumersi tutto il peso del lavoro, inventandosi un’organizzazione completamente a partire da sé, non c’è solo un cedere a un’ideologia che vuole tutti “soggetti produttivi” (Macherey, 2013) c’è anche una prospettiva più strategica e negoziale, una voglia di sperimentare percorsi praticabili, per tutti.
Servono molte risorse perché sia un’operazione sostenibile: risorse personali – di sapere e di competenze –, risorse familiari – di supporto quotidiano – e risorse relazionali estese. Si tratta di risorse che molte donne hanno a disposizione nonostante il mercato del lavoro non sappia valorizzarle restituendo in cambio reddito, stabilità e garanzie, e nonostante la crisi dei modelli di welfare in corso. Su questo potenziale di risorse che rischiano lo spreco, si innesta una serie di adattamenti, imposti dal contesto, che giocano come elementi di una strategia più articolata. Lavorare da casa, costruendo un nuovo andirivieni casa-città, casa-mercato, è uno degli adattamenti praticati oggi, di cui mi pare interessante leggere i risvolti non solo individuali.

Bellavitis A. (2008), “Flessibili/precarie”in Genesis VII/1-2, pp 7-15
Barazzetti D. (2007), C’è posto per me? Lavoro e cura nella società del “non lavoro”, Guerini e Associati, Milano
Falquet J. (2013), “Lo specchio delle allodole. Analisi femministe sul capitalismo finanziario” in Burchi S., Di Martino T., a cura di, Come un paesaggio. Pensieri e pratiche tra lavoro e non lavoro, Iacobelli, Roma, pp. 99-108
Giardini F. (2012), Come un paesaggio. Un approccio filosofico al “lavoro”, in www.iaphitalia.org
Gissi A. (2013), “Il lavoro che non esiste. Cittadine/lavoratrici tra marginalità e diritti nell’Italia repubblicana”, in Burchi S., Di Martino T., a cura di, Come un paesaggio. Pensieri e pratiche tra lavoro e non lavoro, Iacobelli, Roma, pp. 79-90
Leccardi C. (2005), “La reinvenzione della vita quotidiana” in Bertilotti Teresa, Scattigno Anna, a cura di, Il femminismo degli anni Settanta, Viella, Roma
Macherey P. (2013), Il soggetto produttivo. Da Foucault a Marx, Ombrecorte, Verona
Morini C. (2010), Per amore o per forza. Femminilizzazione del lavoro e biopolitiche del corpo, Ombrecorte, Verona
Simone, A. (2013), “Nuovi universali. Cittadinanza senza lavoro/lavoro senza cittadinanza” in Burchi S., Di Martino T., a cura di, Come un paesaggio. Pensieri e pratiche tra lavoro e non lavoro, Iacobelli, Roma, pp. 91-97
Weeks K. (2007), “Life With and Against Work”, in Ephemera, 7 (1), pp.233-269

[Immagine: PJ Harvey decorata dalla Regina Elisabetta II, 2013 (gs)].

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