cropped-rawImage.jpgdi Raffaele Alberto Ventura

Beni culturali e violenza politica

La distruzione scientifica del patrimonio archeologico dell’antica civiltà mesopotamica segnala, se mai ce ne fosse ancora bisogno, la strategia di guerra totale portata avanti dall’autoproclamato Stato Islamico. Ma a chi sono rivolte queste spaventose immagini che mostrano la distruzione di altre immagini, trasformando in icona lo stesso gesto iconoclasta? Qual è il loro pubblico designato? È sempre azzardato ricondurre la motivazione di quello che accade in territori lontani all’effetto che produce sugli spettatori in Europa o negli Stati Uniti, quando invece più spesso si tratta di motivazioni locali con effetti locali. Eppure quelle immagini sembrano prodotte a tavolino per orrificare le platee occidentali, evidentemente più sensibili alla distruzione di una statua che al massacro di migliaia di musulmani o di cristiani. Che siano o meno rivolte a noi, le immagini del museo di Ninive hanno il potere di rivelare due opposte ideologie: la prima è quella di chi milita per la conservazione del patrimonio per via del suo valore universale, e a questo fine promuove strumenti giuridici ambiziosi ma talvolta impossibili da applicare; la seconda è quella di chi individua nel cosiddetto “bene culturale” un segno legato a una specifica identità politica, e finisce talvolta per assorbire quel bene nel conflitto, mettendone a rischio l’integrità o distruggendolo deliberatamente.

Nell’ingombrante eredità che i nostri antenati ci hanno trasmesso, e che conserviamo con dedizione, non ci sono soltanto pentole, monili e nature morte, ma soprattutto castelli, fortezze, muraglie, e ancora lance acuminate, scudi, armature, balestre, strategie militari e ricette per torture viziose. Nei musei e nelle città riposano le spoglie di antiche armi, logorate nella materia e nel significato: monumenti in onore di sovrani e ritratti di capitalisti; templi e icone sacre; palazzi delle amministrazioni e delle banche; biblioteche, boulevards, cimiteri.

Gran parte del patrimonio artistico e culturale dell’umanità – così detto dai legislatori internazionali – non è altro che il solco scavato da secoli di esercizio del potere tra diversi gruppi di uomini, la testimonianza di un ordine e la cicatrice di una violenza di cui è fatta la Storia. La Storia tuttavia non è finita e spesso, lungi dall’essere la semplice traccia di un conflitto ormai risolto, il patrimonio artistico e culturale è il segno efficace dell’esercizio del potere hic et nunc: non un delizioso ornamento, non un bene inoffensivo, non un’esperienza con cui intrattenersi nel tempo libero.

Oggi un visitatore può esplorare le sale del Palazzo d’Inverno di San Pietroburgo e ammirare la straordinaria collezione di opere d’arte, le fastose decorazioni e gli emblemi di un potere trapassato; nel 1917, i bolscevichi, comandati da Vladimir Antonov-Ovseenko, lo sfiguravano a cannonate. Chi, tra il turista e il rivoluzionario, è più prossimo a comprenderne il significato, il valore, la bellezza? Chi, tra chi conserva e chi distrugge, conosce meglio il segreto del patrimonio artistico e culturale dell’umanità? La domanda è senz’altro oziosa, come dicono per modestia i filosofi, per cui ci accontenteremo di enunciare un dato di fatto: le guerre hanno sempre comportato la distruzione o la predazione di beni culturali. E questo non soltanto perché un edificio o un manufatto possono coincidere con un obiettivo economico o militare, ma anche e più profondamente perché i beni artistici e culturali, che oggi fruiamo esclusivamente nella loro dimensione estetica, sono degli oggetti intrinsecamente politici. Essi sono, propriamente, la materia di cui è fatto il potere. Le fortezze, gli scudi e le strategie; ma anche i monumenti, i templi e le biblioteche.

Nel tentativo di sottrarre questi beni alla violenza, alla quale pure sembrano destinati, è stata conclusa all’Aia nel 1954 la convenzione sulla Protezione dei beni culturali in caso di conflitto armato, ratificata nel corso degli anni dai diversi stati. Aderendo alla convenzione, le parti s’impegnano

a proibire, a prevenire e, occorrendo, a far cessare qualsiasi atto di furto, saccheggio o di sottrazione di beni culturali, comunque sia praticato, e qualsiasi atto di vandalismo verso gli stessi. (art. 4)

La questione del rapporto tra patrimonio culturale e violenza politica, che pareva finalmente risolta, è però ri-emersa con forza durante gli anni Novanta e ha costituito una sfida per chi si occupa di diritto internazionale. Come sottolinea un testo recente, la “deflagrazione degli Stati multietnici e multiconfessionali” dopo la caduta dell’Unione Sovietica ha provocato “drammatici quanto inattesi problemi relativi al trattamento dei beni culturali nei conflitti armati” (Zagato 2007, p. 199). In effetti, scrive ancora Zagato, “risalta come uno tra i tratti qualificanti dei nuovi conflitti risieda precisamente in ciò, che la distruzione del patrimonio culturale della Parte avversa diviene un obiettivo militare prioritario” (p. 203). Sono stati soprattutto i conflitti etnici sorti dalla dissoluzione della Iugoslavia a manifestare il problema di “conflitti aventi come obiettivo specifico la distruzione dei beni culturali” (p. 242).

Il danneggiamento nel 1991 dell’antica città croata di Dubrovnik assediata dall’Esercito Iugoslavo (JNA) e il bombardamento del ponte Stari Most di Mostar nel 1993 sono i simboli di una forma di violenza politica che gli strumenti pattizi internazionali non sono stati in grado di prevenire. Proprio in seguito a questi tragici eventi il curatore e museologo canadese Martin Segger ha sviluppato l’idea di una museologia della riconciliazione, che prende le mosse dalla constatazione dell’essenziale politicità del bene culturale e dello spazio museale. Anche da questo punto di vista, e non solo da quello umano, la guerra dei Balcani ha presentato un pesante bilancio:

What differentiates today’s tribal and ethnic conflicts from those previously of nation states, is the extent to which erasing not only ethnic identity but also ethnic memory has been raised to the status of a legitimate goal. This is quite different from the 1000 years of systematic looting which was part and parcel of the military system. Museums, historic sites, libraries, archives, places of worship and community gathering have become prime targets. (Segger 1998)

C’è da chiedersi se questo sia semplicemente un “incidente di percorso”, o se piuttosto – come crediamo – non si debba fare i conti con un limite intrinseco degli strumenti legali di tutela del patrimonio culturale. È corretto ritenere che l’assorbimento del bene artistico entro il teatro di guerra, come obiettivo intenzionale, sia un fenomeno nuovo? Senza dubbio, la tecnologia militare permette oggi di produrre una quantità di danni dapprima impensabile, ma questo dato quantitativo davvero non è sufficiente, ci pare, per parlare di un salto di qualità nella natura dei conflitti. Lo stesso Segger, ripercorrendo sommariamente la storia del rapporto tra guerra e beni artistici, ne evidenziava l’ineluttabile legame:

Gold and silver art works, war trophies of the conquering armies of Alexander, were proudly displayed in Greek Temples, ancestors of the modern museum. The armies of Napoleon looted Europe to found the modern Louvre; and likewise British generals and colonial administrators scoured an Empire to develop the British Museum. (Segger 1998)

E se i “nuovi conflitti” segnassero piuttosto la fine di una breve parentesi, caratterizzata dal diritto di guerra novecentesco e dalle sue illusioni? Questa parentesi, ci pare, ha coinciso con il disconoscimento della stretta interdipendenza tra la produzione artistica e la storicità dell’esistenza umana. Che l’arte e la cultura siano politicamente neutre – e che possano essere considerate militarmente neutrali – è il principio da cui muovono i numerosi trattati internazionali che, nel corso del Novecento, ne fissano lo statuto; per non parlare dell’idea di un patrimonio universale talmente neutro da appartenere all’umanità intera, sviluppatasi dopo la Seconda Guerra Mondiale.

In effetti, una certa concezione dell’arte e della cultura si nasconde tra le righe delle convezioni. Questa concezione è contestabile sul piano dei presupposti teoretici, ma soprattutto su quello dell’efficacia normativa, come vorremmo dimostrare esaminando il modo in cui gli strumenti internazionali riconducono il patrimonio culturale e artistico entro la categoria della neutralità politico-militare. Alcuni concetti del linguaggio giuridico e militare, alcune parole cui si ricorre con troppa distrazione, attirano la nostra attenzione: superfluo, neutrale, universale. Esaminandole vorremmo formulare una critica, talvolta provocatoria, dell’ideologia della tutela dei beni artistici e culturali, in guerra ma anche in pace.

Non ci stiamo qui interrogando su che cosa sia una bene culturale, su quali criteri lo definiscano, su cosa dobbiamo conservare e su cosa possiamo sacrificare. Se così fosse, il problema non riguarderebbe la natura delle prescrizioni, ma l’estensione del concetto di bene culturale cui le prescrizioni si applicano. In verità, la domanda da porsi è tutt’altra, ed è questa: l’immunizzazione del bene culturale – come definita dalle convenzioni – non implica necessariamente (nel suo tentativo di neutralizzarlo e universalizzarlo) una definizione del bene riduttiva, che non corrisponde alla realtà dei rapporti che gli uomini intrattengono con esso? In questo caso, la prescrizione rischia di essere semplicemente inattuabile, oltre che tragicamente ingenua: proprio come fu ingenuo credere, a Versailles nel 1919 e a Ginevra nel 1924, che la “criminalizzazione della guerra” avrebbe reso impossibile il conflitto armato. Lo avrebbe invece reso più atroce.

E ugualmente atroce è il destino del bene artistico, ostaggio di custodi tanto severi quanto incapaci di proteggerlo. Ma se la sola alternativa fosse tra il museo e il campo di battaglia dobbiamo davvero preferire il primo?

Il significato dell’oggetto culturale

Prima di esaminare criticamente alcune fonti pattizie, vorremmo esibire quelli che sono i presupposti ‘estetici’ da cui muoviamo per la nostra critica. Più precisamente, alla radice sta una questione semantica – che cosa o come significa un segno? – che costituisce il luogo centrale della disciplina semiotica, come sviluppata da Umberto Eco a partire dagli anni Settanta (Eco 1975). Merito di Eco è di avere compiuto una sintesi tra due correnti, la linguistica strutturale di Ferdinand de Saussure e il pragmatismo di Charles S. Peirce, ognuna delle quali fornisce un importante contribuito al problema della definizione del segno e, nel nostro caso, di quel particolare tipo di segno che è l’opera d’arte. C’è da una parte l’idea che il segno abbia senso non in quanto tale, bensì all’interno di una certa struttura; e dall’altra l’idea che il significato non sia il riferimento ad una certa entità o immagine, ma sia semplicemente l’uso (potenziale o effettivo) che viene fatto del segno stesso. Entrambe queste caratteristiche del segno, che Eco non considera esclusive, ci possono servire per decostruire una certa ideologia della salvaguardia dei beni culturali.

a) Significato e sistema

Con la prima suggestione vorremmo scuotere in qualche modo il concetto, spesso dato per scontato, di patrimonio dell’umanità. Questo viene formulato per la prima volta nella Convenzione dell’Aia del 1954 per la Protezione dei beni culturali in caso di conflitto armato, la quale definisce la categoria di “bene culturale dell’umanità intera” come il contributo di un popolo alla “cultura mondiale”. Ma il fatto che esista una cultura mondiale non va da sé. Perché cosa intendiamo con cultura? Vediamone una definizione dell’antropologa americana Margaret Mead, pubblicata per i tipi dell’UNESCO un anno prima della convenzione:

Con ‘cultura’ intendiamo l’insieme delle forme acquisite di comportamento che un gruppo d’individui, uniti da una tradizione comune, trasmettono ai loro figli […]. Questa parola designa dunque non soltanto le tradizioni artistiche, scientifiche, religiose e filosofiche di una società, ma anche le sue tecnologie proprie, i suoi costumi politici e i mille usi che caratterizzano la sua vita quotidiana: modi di preparazione e di consumo degli alimenti, modi di mettere a letto i bambini, modi di designazione del presidente del consiglio, procedura di revisione della costituzione. (Mead 1953, p.13)

Una cultura mondiale presupporrebbe dunque un unico gruppo e una sola tradizione; una umanità che condivide non più soltanto i medesimi valori etici – i diritti umani – ma persino i medesimi valori estetici. Per questo, sarebbe tuttavia necessario che tutti gli uomini condividessero un medesimo ‘codice’ per interpretare i segni e dare loro il medesimo valore. In effetti, come per primo notò Saussure all’inizio del Novecento, “la lingua è un sistema di segni esprimenti delle idee” e il segno ha valore soltanto all’interno di un certo sistema (Saussure 1916). A sua volta il segno è un’entità a due facce, composta da significato e significante, tenuti in relazione da un sistema di regole, la lingua appunto. I singoli rapporti tra significante e significato (relazione verticale), tra un significato e gli altri significati, e tra un significante e gli altri significanti (relazioni orizzontali), sono in sé del tutto arbitrari e dipendono da una delimitazione reciproca. Un segno, dunque, sarebbe universale ad una sola condizione: che tutti possedessero il medesimo codice entro cui decodificarlo.

Lo storico dell’arte Erwin Panofsky (strutturalista malgré lui e avant la lettre) ha ampiamente indagato il tema della lettura e della leggibilità dell’arte. Ricorrendo al concetto di ‘forma simbolica’, Panofsky ha sottolineato che l’interpretazione del significato artistico avviene senz’altro all’interno di un certo sistema di segni. Più generalmente, è ovvio che per comprendere un testo – e un’opera d’arte è un particolare tipo di testo – è necessario conoscere la lingua. Senza ciò, una Risurrezione verrà interpretata, nella migliore delle ipotesi, come

la rappresentazione di un tipo con le braccia spalancate che scappa da una scatola, nel mezzo di un fenomeno luminoso, mentre altri uomini vestiti con armature sono riversi come inebetiti, oppure abbagliati si agitano o cadono in terra con gesti di timore. (Panofsky 1975, p. 239)

È possibile difendere l’idea di un codice semiotico universale e condiviso nel quale trovano senso i vari beni culturali prodotti da popoli differenti, per ragioni differenti? Probabilmente si, ma la questione è: cosa rimane? Ciò che per eufemismo si chiama ‘fruizione estetica’, e che solitamente si riduce al tempo medio di tre secondi davanti a un dipinto, alla profanazione di un luogo sacro o a una passeggiata sul ponte di Rialto. Il rischio è di trovarsi a fare i conti con un codice straordinariamente povero, che perde in pertinenza ciò che guadagna in universalità. Ed è ciò che accade già nella distanza tra il patrimonio del passato e i suoi custodi contemporanei, tra pantagruelici consumi museali e imbarazzanti dati statistici. Un solo emblematico fatto, enunciato in una recente indagine del CNR: dei quattro milioni di visitatori ai Musei Vaticani, 30% non ricordano se hanno visitato le sale di Raffaello (CNR 2007). Non è una colpa ignorare Raffaello, o non riconoscere una Risurrezione, se si coltivano altre divinità, più esotiche o più moderne: ma si può parlare allora sensatamente di una cultura e di un patrimonio mondiale? Inoltre, come si farà ad evitare che lo stesso segno sia oggetto di un conflitto interpretativo tra i latori di codici differenti? In fin dei conti, come scrive ancora Panofsky,

Nessuno può negare che sia molto importate sapere, al fine di comprendere gli affreschi della Cappella Sistina, che Michelangelo vi ha rappresentato la Caduta e non un “déjeuner sur l’herbe”. (Panofsky 1975, p. 239)

L’idea dell’arte come ‘linguaggio universale’, che talora qualcuno evoca, di certo non è mai stata sostenuta in sede scientifica. Gran parte degli operatori nell’ambito della conservazione e salvaguardia dei beni culturali sanno bene che a dovere essere conservati e trasmessi non sono soltanto i beni materiali, ma anche e soprattutto i codici interpretativi. In questo caso però, il ‘patrimonio universale’ non è un dato di fatto, quanto piuttosto un esito, una costruzione arbitraria. Ma la costruzione di una comunità culturale implica necessariamente un processo di esclusione: che delimita in negativo un’altra comunità, alla quale non potendosi più riconoscere l’appartenenza ad un’altra cultura, si attribuirà necessariamente una universale incultura, una inumanità estetica da condannare assolutamente.

b) Significato come uso

Il secondo termine della questione riguarda la forma o la natura del significato, e ci muoviamo verso un ambito senz’altro meno ovvio. Abbiamo citato sopra il nome del filosofo americano Charles S. Peirce; avremmo anche potuto evocare Ludwig Wittgenstein o lo storico inglese Quentin Skinner. Tutti e tre hanno sviluppato l’idea che il significato di un segno, di una proposizione o di un testo sia l’uso che se ne può fare, che se ne fa o che se ne intende fare. Questa definizione è convincente a maggior ragione per il bene artistico, che prima di finire in un museo è stato parte dell’arredo del mondo, e raramente era considerato come una materia inerte o inoffensiva. Era piuttosto uno strumento. Nel saggio Come rendere chiare le nostre idee, del 1878, Peirce enunciava la cosiddetta ‘massima pragmatica’:

Per sviluppare il significato di qualsiasi cosa, dobbiamo semplicemente determinare quali abiti produce, perché ciò che una cosa significa è semplicemente l’abito che comporta. Ora, l’identità di un abito dipende da come può indurci ad agire, non solamente nelle circostanze che probabilmente si daranno, ma anche in quelle che potrebbero darsi, a prescindere dalla loro improbabilità (Peirce 1931, CP 5400)

Le intuizioni di Peirce e Wittgenstein hanno permesso di sviluppare, nella seconda metà del Ventesimo secolo, una specifica branca della filosofia del linguaggio nota come pragmatica linguistica. La disciplina, cui hanno contribuito filosofi americani come John L. Austin e John R. Searle, può riassumersi nell’idea che si possano “fare cose con le parole” (Austin 1975). Ad esempio, con poche parole si condanna a morte un uomo, si promette, si sposa, si inaugura. In generale, possiamo estendere il concetto è sostenere che si possono fare cose con i segni: ad esempio, si da valore a un pezzo di metallo imprimendovi il sigillo regale, e si esercita il potere pastorale ricorrendo a debite liturgie e adeguati paramenti, attraverso segni efficaci. La storia dell’arte è per gran parte la produzione di oggetti dotati di simile potere sociale, che sono a pieno titolo attori nella storia politica e perciò non escludibili dalle vicende umane e dai conflitti. Come scriveva un grande antropologo del Novecento,

L’art a non seulement une nature sociale, mais encore des effets sociaux. Il est le produit de la fantaisie collective, mais il est aussi ce sur quoi on s’accorde et dont les effets sentimentaux sont relativement les mêmes chez tous à un moment donné, dans une société donnée. (Mauss 1974, p. 206)

Da parte sua, il filosofo tedesco Hans-Georg Gadamer criticherà negli anni Sessanta la “differenziazione estetica” (ästhetische Unterscheidung), ovvero il processo storico – tipico della modernità – con cui l’oggetto artistico, ridotto a “pura opera d’arte” (reine Kunstwerk) è stato neutralizzato ed estromesso dallo spazio sociale per essere relegato alla biblioteca universale, al museo, al teatro, alla sala da concerto (GADAMER 2000, p. 193-199).

L’ermeneutica giunge perciò alla stessa conclusione della pragmatica e dell’antropologia, conclusione del tutto diversa da quella da cui muovono i custodi internazionali del patrimo-nio culturale, specialisti nello “slegare l’opera d’arte dalla sua appartenenza al mondo” (Ibi-dem). Per approfondire l’idea di una semantica dell’uso, proveremo a fornire una piccola tassonomia delle varie forme di danneggiamento di opere d’arte, includendole nella categoria pragmatica dell’uso come interpretazione, e distinguendo tra fruizione e offesa.

Il patrimonio culturale tra interpretazione e distruzione

La storia della produzione artistica umana è una storia di usi, e spesso questi usi furono tutt’altro che rispettosi del bene. In seguito affronteremo il problema della necessità strategica del danneggiamento dei beni culturali nemici durante i conflitti armati; qui accenniamo brevemente all’idea generale dell’uso come danneggiamento. Va da sé che l’uso o il consumo di un bene materiale ne alterano lo stato e talvolta ne compromettono l’incolumità. Tuttavia questo danneggiamento è previsto tra le modalità di fruizione del bene: vale la pena di ricordare che prima del Novecento – che ha visto la nascita di una massa di consumatori culturali – l’arte non veniva prodotta per i musei. In generale, ci pare di potere ravvisare tre tipi di offesa al bene artistico i quali fanno parte della stessa sua dinamica di fruizione, tre tipi ideali che spesso tra loro si confondono: usura, reimpiego, danneggiamento o distruzione. Questi tre tipi si declinano inoltre in altrettante varianti legate al saccheggio, ovvero tre tipi di offesa degli oggetti considerati nemici.

a) Usura

L’arte sacra è un esempio lampante del fenomeno dell’usura: basti pensare alle icone ortodosse, destinate ad essere baciate e toccate, corrose dalla saliva e unte col sudore dei polpastrelli, e quindi guastate dalla devozione. In generale, ricorda André Grabar, “tutte le figurazioni cristiane sono investite di una funzione religiosa” (Grabar 1999, p. 17) e dunque appartengono al tempo. Le suppellettili ecclesiastiche sono oggetti d’uso che naturalmente si deteriorano; le statue sopportano la pioggia e le intemperie; i mosaici pavimentali ci parlano anche delle loro zone sbiadite. Il discorso vale tanto per l’architettura quanto per le cosiddette ‘arti minori’ e decorative, e ovviamente non soltanto per il mondo cristiano. Pensiamo anche agli splendidi scudi decorati di cui disponevano i guerrieri antichi o medievali, assegnati al gravoso compito di raccogliere urti e trafitture. A tal proposito, è leggendario lo scudo di Achille, il cui ricordo è custodito in un’ekfrasis, celebre e lunghissima, in Iliade, XVIII.

b) Reimpiego

Il reimpiego è un procedimento creativo che soltanto in tempi recenti è stato pienamente riconosciuto sul piano estetico, col nome di ‘détournement’ nel situazionismo e di ‘sample’ nella musica pop, gettando nel panico i custodi del diritto d’autore. In verità nel Novecento si potrebbero già evocare gli esperimenti dada del ready-made e del collage, nonché la scrittura di Walter Benjamin. Ma la tradizione del reimpiego ha una storia assai più lunga, e molti ‘testi’ del passato sono l’esito di sovrapposizioni e interferenze (si veda ad esempio CISAM 1999). L’arco detto di Costantino, a Roma, è in realtà una struttura rielaborata dall’imperatore cristiano, dalla quale emergono frammenti di monumenti precedenti, rilievi di epoca adrianea, fregi traianei; arco che nel Medioevo era stato pesantemente rimaneggiato e incorporato in una fortificazione (Zeri 2005). La storia del reimpiego è la storia delle grandi e piccole rotture culturali. Si pensi soltanto all’appropriazione della letteratura giudaica da parte dei cittadini romani di cultura ellenistica, nel periodo imperiale, un riuso originalissimo che prenderà il nome di cristianesimo. L’iconologia è precisamente lo studio di queste ‘continuità discontinue’ nelle arti visive, tra un Endimione addormentato trasformato in Giona o un Cristo con gli attributi della sovranità. Ma il reimpiego è anche il processo violento con cui un civiltà si appropria di un’altra civiltà, la soggioga, la assorbe. La sostituzione, nel 1587 da parte di papa Sisto V, della statua di Traiano in cima alla sua colonna con una di san Pietro, è in questo senso eloquente. E ancora più lo è la trasformazione della chiesa di Santa Sofia a Costantinopoli in moschea da parte degli invasori turchi nel 1543.

Una forma particolare di reimpiego consiste nella decontestualizzazione del bene, caratteristica del saccheggio. In questo modo si sono costituite importanti collezioni e sono state assemblate nuove opere d’arte. Nessuno potrebbe immaginare Piazza San Marco a Venezia senza il gruppo dei Tetrarchi trafugato a Costantinopoli durante la quarta crociata – a dirla tutta, nessuno potrebbe immaginare Venezia senza possedere il concetto di furto. La translatio di un certo oggetto in questo caso simboleggia la translatio del potere: è il furto di un principio di legittimità teologico-politica, incarnato da un oggetto artistico. Va da sé che il furto, esibendo il riconoscimento del significato e del valore dell’oggetto, va considerato a pieno titolo come interpretante del bene in questione.

c) Danneggiamento

Infine, il rapporto interpretativo con l’opera d’arte può consistere nel suo deliberato danneggiamento o addirittura nella sua distruzione. Filostrato racconta di maghi che danneggiavano gli idoli per torturare gli dei (Vita Apollonii V, 12) e possiamo immaginare che la rappresentazione in legno o in pietra delle divinità avesse appunto la funzione di permettere un’interazione ‘magica’ con esse, un contatto materiale. Ovviamente però il danneggiamento caratterizza il saccheggio in caso di conflitto armato: ad essere danneggiati intenzionalmente sono spesso i beni che appartengono al nemico e che lo rappresentano. I casi di danneggiamento in caso di conflitto sono innumerevoli, ma bisogna isolare le diverse componenti che motivano il danneggiamento: militare, economica, simbolica.

La motivazione militare del danneggiamento, di cui parleremo in seguito, si presenta nel caso di coincidenza tra un obiettivo militare e un bene artistico. La motivazione economica si presenta invece nel caso di coincidenza tra una materia prima di valore (oro, argento, o pietra) e una forma giudicata di valore inferiore. Può capitare che si fonda qualche straordinario capolavoro dell’oreficeria per farne lingotti. Diverse statue cristiane hanno fatto questa fine, in seguito alle soppressioni napoleoniche di chiese e ordini religiosi. In questo caso, alla motivazione economica si può sovrapporre una meno evidente motivazione simbolica: non soltanto si disconosce il valore economico dell’oggetto lavorato, ma inoltre si rivendica questo disconoscimento. È la materia prima, ad esempio l’oro di cui è fatta l’opera, l’unico valore condiviso dai belligeranti: non lo stile e l’ingegno che vi è impresso, il cui valore è relativo ad un determinato codice.

Un’altra forma di motivazione economica si ravvisa in certa urbanistica, che per ottenere la propria materia prima (lo spazio) cancella monumenti ed edifici di grande valore storico: si pensi ai cosiddetti ‘sventramenti fascisti’, tra le cui molteplici vittime ci fu una fontana del Bernini. D’altra parte non è sempre possibile eludere le sfide urbanistiche che le città, se vive, propongono a chi le custodisce. È una fortuna per i berlinesi che il muro che ha diviso la città dal 1961 al 1989 fosse così sordido, malgrado l’innegabile valore storico-culturale e i pregevoli graffiti: in caso contrario, avrebbero forse dovuto tenerselo, per non fare un dispiacere all’umanità.

Vi è infine il caso in cui la motivazione del danneggiamento sia esclusivamente simbolica, ovvero non rechi alcun beneficio in termini militari o economici, come nel caso delle leggendarie distruzioni del Tempio israelita a Gerusalemme (la prima nel 586 a.C. e la seconda nel 70). Possiamo anche citare la distruzione delle icone a Bisanzio prescritta da Leone III Isaurico, che suscitò la furia iconoclasta al fine di prevalere sul clero monacale: qui è chiarissimo che la motivazione simbolica coincide con una strategia politica, e che si tratta di operare sui segni per produrre un effetto nella realtà. Più recentemente, ricordiamo la distruzione dei monumentali Buddha di Bamiyan da parte dei talebani in Afghanistan, ordinata nel 2001 dal mullah Muhammad Omar con l’intenzione di eliminare ogni traccia d’idolatria pre-islamica. Un fatto che ha attirato l’attenzione degli operatori del diritto internazionale (Francioni e Lenzerini 2003), e stimolato l’UNESCO ad adottare, nel 2003, la Dichiarazione sulla Distruzione Intenzionale del Patrimonio Culturale (Lenzerini 2005). Ma si trattava davvero di “unprecedented features”? La Dichiarazione, tuttavia, ribadisce inesausta il concetto enunciato nel 1954:

Gli Stati dovrebbero prendere tutte le misure appropriate per prevenire, evitare, far cessare e reprimere gli atti di distruzione intenzionale del patrimonio culturale, ovunque questo patrimonio sia situato. (art. 3)

La storia intera dell’arte, come si è visto, è fatta di furti, danneggiamenti e reimpieghi; è fatta cioè di colloqui irrispettosi con tesori inestimabili, di conflitti radicali che hanno prodotto nuovi tesori o grandiose leggende su quello che fu. Ciò malgrado, la moderna ideologia dell’autore – elaborata tra il Rinascimento e la Rivoluzione – ha prodotto una ideologia contemporanea della tutela, che non può concepire l’usabilità del bene come suo peculiare processo di significazione.

Una critica radicale di questa concezione viene proprio dal mondo dell’arte, con le provocazioni ‘vandaliche’ di una coppia di fratelli inglesi, Jake e Dinos Chapman, i quali hanno pensato bene di acquistare una serie completa di stampe originali di Francisco Goya e alterarle una per una. Illustre precedente, negli anni Cinquanta, Robert Rauschenberg aveva cancellato un disegno di Willem de Kooning (Erased De Kooning Drawing, 1953), venerato maestro che aveva il solo torto di appartenere alla generazione precedente. Ma con The rape of creativity (2003) i fratelli Chapman hanno portato all’estremo il principio di usabilità dell’opera d’arte, suscitando qualche moto di riprovazione. In effetti, scriveva allora il Guardian,

In terms of print connoisseurship, in terms of art history, in any terms, this is a treasure – and they have vandalised it. (…) After all, Goya’s Disasters of War is not some dry old relic no one cares about – it is a work that has never lost its power to shock. (…) Defacing a work of art is, perhaps, the last taboo of the liberal, Britart-loving, Tate Modern-going public. (Jones 2003)

Non stupisce dunque che Jake Chapman abbia avuto il coraggio di dichiarare, a proposito della distruzione dei Buddha di Bamiyan, che si è trattato di una “live, vital religious opposition to something that has a direct and local meaning to them” (Hari 2007). Come abbiamo tentato di suggerire con alcuni esempi, il danneggiamento del significante pare talvolta il solo modo di conservare il significato. Dai tempi di Lorenzaccio de’ Medici, che nel 1530 decapitò i re barbari sui rilievi dell’Arco di Costantino, e venne perciò esiliato, le cose non sono cambiate poi molto: il bene artistico e culturale è una forma viva, tenuta in vita da un dialogo incessante che ne incide la materia.

Il necessario e il superfluo

Le prime convenzioni in materia di diritto bellico dei beni culturali, firmate all’Aia nel 1899 e nel 1907, proibiscono il saccheggio e la distruzione delle proprietà nemiche (con particolare attenzione ai beni culturali) se non in caso di necessità militare. In particolare, la seconda conferenza di Pace dell’Aia affronta il tema dei beni culturali in due delle tredici convenzioni promosse: la quarta su Leggi e consuetudini della guerra terrestre e la nona sul Bombardamento di forze navali in tempo di guerra. Nelle convenzioni si prescrive di evitare “as far as possible” il danneggiamento o il bombardamento di

sacred edifices, buildings used for artistic, scientific, or charitable purposes, historic monuments, hospitals, and places where the sick or wounded are collected, on the understanding that they are not used at the same time for military purposes. (art. 27)

Il senso della prescrizione sta tutto nella clausola di possibilità. La discrezionalità sottesa al principio di necessità militare implica il riconoscimento dell’eventualità che un bene culturale possa coincidere – come nel caso precedentemente evocato di castelli e fortezze – con un obiettivo militare, nel quale caso la prescrizione non risulta vincolante. Nessun belligerante, per quanto disponga di buona volontà e amore per l’arte, potrebbe rispettare una norma che lo paralizzi militarmente. Nessun belligerante, in effetti, lo fece. Malgrado la convenzione del 1907 e il sorgere di una nuova sensibilità conservativa, il bilancio dello stato del patrimonio artistico e culturale europeo al termine delle due guerre mondiali non fu certo incoraggiante: bisognava fare i conti con il bombardamento della Cattedrale di Reims e della Biblioteca di Lovanio, e poi con i bombardamenti di siti a Colonia, Dresda, Varsavia, Montecassino.

Bisognava cioè fare i conti con la guerra, una convulsa successione di fischi urla detonazioni rovine e morti ammazzati che continuava a sfuggire agli azzardi normativi del diritto internazionale. Perlomeno si trattava ancora di ‘guerra’, ovvero di un conflitto simmetrico tra stati riconosciuti, che formalmente avevano aderito alle convenzioni, e che si limitavano a rispettarle “as far as possibile”. I bombardamenti aerei erano necessari, e i danni superflui potevano essere considerati dei tragici errori militari. Prendiamo, ad esempio, il caso dell’abbazia di Montecassino:

Beginning on 18 January of [1944], the Allies launched a series of offensives in order to force their way through, but they met with fierce resistance by the Wehrmacht. Erroneously believing that the Germans had occupied and fortified the monastery, the Allies bombed and destroyed it on 15 February. The Germans then occupied and fortified the ruins. It was not until 18 May 1944 that the Allies finally broke through German lines. Within a few days, they were able to capture Rome. (Bugnion 2004)

La necessità militare è un concetto centrale nel diritto umanitario internazionale (IHL), perché determina – a partire da diversi criteri – la condizione di obiettivo militare legittimo e dunque il verificarsi o meno di un crimine di guerra (obiettivo militare illegittimo). La definizione fornita nel secondo protocollo aggiuntivo del 1999 alla Convenzione dell’Aia del 1954 è la seguente:

“Obiettivo militare” significa un obiettivo che per la sua natura, ubicazione, scopo od utilizzo fornisce un’efficace contributo all’azione militare e la cui totale o parziale distruzione, cattura o neutralizzazione, nelle circostanze correnti del momento, offre un definito vantaggio militare. (art. 1, § f)

È criminale, in poche parole, ogni danno intenzionale che non sia militarmente necessario. La criminalità dell’atto di guerra si presenta dunque nella forma di un’offesa, arrecata nel corso di un conflitto armato, che esula dalla logica militare. Come s’immagina, questo principio non mette al riparo l’intero patrimonio storico di una nazione, che si trova spesso intrecciato alla sua vita sociale, politica e persino militare: il Palazzo d’Inverno, oltre ad essere un edificio di straordinario valore artistico e culturale, era nel 1917 un obiettivo militare legittimo in quanto sede del Governo Provvisorio Russo, e prima ancora residenza degli Zar. E che dire della statua di Atena Pallade, che proteggeva la città di Troia, sottratta con l’inganno da Ulisse e Diomede: poiché la vittoria dei greci dipendeva da questa, si trattava di un obiettivo militare legittimo?

Il fatto è che la logica militare, che determina la necessità militare, non è una scienza esatta. Ci sono forme di offesa, in un conflitto armato o in un’occupazione, che non manifestano – o che eccedono – una chiara logica militare, come ad esempio (da una parte) il furto e il saccheggio e (dall’altra) l’offesa contro i civili o contro i beni. Questo non significa che non vi sia una logica in questi comportamenti, ma semplicemente che non si tratta di una logica strettamente militare. E pur tuttavia, strategie apparentemente illogiche, perché sbilanciate verso una concezione politica e non bellica del conflitto, sono spesso risultate vittoriose; e questo è tanto più vero nei conflitti asimmetrici, nella guerriglia insurrezionale e nel terrorismo, che sul piano militare non hanno alcuna possibilità di vittoria.

Lo spostamento del baricentro strategico da una prospettiva militare ad una estesamente politica è chiaramente evocato dalla letteratura (oltre che dalla pratica) di guerriglieri, partigiani e terroristi del Novecento; ma in verità questa dimensione si ravvisa tranquillamente anche nei conflitti simmetrici (prima e secondo guerra mondiale). Questo ci riporta ad una concezione della guerra pre-giuridica, e perciò totale, che contraddistingue un secolo che pure è stato costellato d’ingenti sforzi normativi nella direzione opposta.

Il primo e più influente teorico dell’insurrezione è Mao Zedong, che fonde l’eredità di Sun Tzu e la dialettica di Hegel al fine di ripensare il concetto clausewitziano di strategia, indissolubilmente legato ai canoni della simmetria, in un contesto di asimmetria come quello della “guerra partigiana antigiapponese”. Nell’opinione di Mao, “il compito principale è di mobilitare e organizzare le masse popolari e di addestrare le unità partigiane e le forze armate locali” (Mao Zedong 1938). Parlando di mobilitazione, Mao si pone al di fuori dalla stretta logica militare, definita dal “principio generale della guerra”, ovvero “conservare le nostre forze e annientare quelle del nemico” (ibidem). La mobilitazione consiste, potremmo dire, in una deliberata strategia di estensione del conflitto al fine di alterare gli equilibri coinvolti, e portare a manifestarsi le forze latenti. Ernesto “Che” Guevara, in un testo che sarà la Bibbia dell’eversione europea durante gli anni di piombo, afferma chiaramente che la prima fase dell’insurrezione consiste nel creare le condizioni rivoluzionarie fornendo un impulso alle “forze popolari” (Guevara 1968, p. 265). In questo senso la violenza non ha una logica militare (annientare il nemico) bensì politica, la mobilitazione della società, perché si svolge nella fase in cui è diffusa l’opinione che “contro un esercito regolare non si può fare nulla” (ibidem).

Nei conflitti asimmetrici, dunque, non si può ragionare secondo la logica militare ma esclusivamente in termini di strategia politica. E questa strategia prevede un comportamento militarmente illogico, come ad esempio la definizione di obiettivi non necessari militarmente ma necessari in una strategia più estesa, con cui lo stesso spazio del conflitto si estende indefinitamente, fino a lambire una situazione di guerra totale. E proprio in questo contesto il bene culturale viene assorbito dalla violenza: “the deliberate destruction of monuments, places of worship and works of art is a sign of degeneration into total war” (Bugnon 2004).

D’altronde la presenza della prescrizione nel diritto internazionale di alcuni principi di economia dell’offesa (necessità, proporzionalità, ecc.) lascia intendere che esistano effettivamente situazioni in cui un bene culturale viene danneggiato pur non essendo un obiettivo militare: in questo caso si tratta alternativamente di un saccheggio, la cui motivazione è economica e/o politica, o di un deliberato danneggiamento, che ha esclusivamente ragioni politiche. Questo è esattamente ciò che è accaduto in Iugoslavia, dove la guerra ha assorbito ambiti che si presumevano separati, come la lapidaria cimiteriale o il culto religioso (Claverie 2003). Figura paradigmatica della funzione strategica del bene culturale è dunque effettivamente la scena dell’Eneide già evocata, che narra come soltanto sottraendo il Palladio custodito a Troia i greci possono vincere la guerra; i conflitti contemporanei sembrano dipendere da simboli altrettanti potenti.

Le due condotte del saccheggio e del danneggiamento, che non presentano alcuna stretta necessità militare, ma che in verità possono fare parte di una strategia più ampia riconducibile al conflitto, sono considerate crimini nel diritto internazionale bellico, che in generale sanziona il male “superfluo” o “inutile”. I due termini, che saranno citati assieme nel I Protocollo di Ginevra del 1977 (art. 35), possono in particolare essere impiegati per definire il modo in cui viene considerato il danneggiamento dei beni culturali dagli strumenti pattizi internazionali: superfluo e inutile. Ma si noti: se è superfluo e inutile il danneggiamento, sotto un certo aspetto, per forza deve essere superfluo e inutile il ruolo del bene in questione, sotto quello stesso aspetto. Se l’aspetto in questione è quello strettamente militare, si può talvolta convenire: è inutile e superfluo impiegare delle risorse militari per danneggiare un oggetto (ad esempio, un idolo di pietra) che non rappresenta una risorsa militare per l’avversario. Se l’aspetto è invece politico, la posizione è indifendibile: il bene culturale è lungi dall’essere superfluo e inutile, e dunque non lo è il suo danneggiamento. È superflua la statua di un dio o di una sovrano? Con ciò, si noti, si è contestata semplicemente l’idea che il danneggiamento di un bene sia inutile nel contesto di un conflitto, e non si è in alcun modo affermato – e d’altronde, rispetto a quale ordinamento positivo? – che si tratti di un’azione legittima.

Il problema è che la concezione ‘superflua’ del bene culturale è diffusa nella gran parte degli accordi internazionali siglati nel Novecento, oltre che nella legislazione di molti stati occidentali. In un documento rivolto all’area pan-americana, il cosiddetto patto Roerich, si stabiliva testualmente la “neutralità” del patrimonio culturale, il che coincide perfettamente con l’idea che questo patrimonio sia strategicamente superfluo e inutile. Il patto sulla Protezione delle Istituzioni artistiche e scientifiche e dei monumenti storici, firmato a Washington il 15 Aprile 1935, al primo articolo sanciva esplicitamente la neutralità di beni ed istituzioni culturali:

I monumenti storici, i musei, le istituzioni scientifiche, artistiche, educative e culturali saranno considerate neutrali e come tali rispettate e protette dai belligeranti. Lo stesso rispetto e protezione sarà dovuta al personale delle istituzioni sopra menzionate. Lo stesso rispetto e protezione sarà accordato ai monumenti storici, ai musei, alle istituzioni scientifiche, artistiche, educative e culturali tanto in tempo di pace quanto in guerra.

L’articolo non dice alcunché sull’eventualità, non del tutto astratta, in cui s’intersecassero l’insieme degli obiettivi militari, politici ed economici e l’insieme dei monumenti e delle istituzioni scientifiche e culturali. Il bene culturale viene semplicemente considerato come una proprietà inerte, priva di contenuto politico, scientifico, economico, e in generale strategico. Questa è appunto la concezione del patrimonio artistico e culturale dell’umanità che verrà sviluppato dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale. Testo fondatore di questa concezione, che abroga ed emenda le precedenti convenzioni firmate nella stessa città, è la già citata Convenzione dell’Aia del 1954 per la Protezione dei beni culturali in caso di conflitto armato che sancisce, all’articolo 4, il Rispetto dei beni culturali. In origine, i beni protetti erano in numero limitato ed erano contraddistinti da un simbolo, lo “scudo blu”. Dal 1999, con il secondo protocollo aggiuntivo alla convenzione, vale il modello (detto di protezione rinforzata) del silenzio-assenso, per cui il bene è protetto in quanto tale. Sebbene il principio di neutralità non venga effettivamente invocato, esso è implicitamente evocato fin dal testo del 1954, nell’idea che i bene culturali non siano obiettivi militari legittimi:

Le Alte Parti contraenti si obbligano a rispettare i beni culturali, situati sul proprio territorio o su quello delle altre Alte Parti contraenti, astenendosi dall’impiego di tali beni, dei loro dispositivi di protezione e delle loro immediate vicinanze, per scopi che potrebbero esporli a distruzione o a deterioramento in caso di conflitto armato, e astenendosi da ogni atto di ostilità verso gli stessi.

Questi strumenti intendono regolamentare i rapporti di soggetti tra loro omogenei, ovvero gli Stati nazionali, che dispongono di una forza comparabile, perlomeno in termini qualitativi. Si tratta perciò di patti che possono essere rispettati in un contesto di relazioni simmetriche, e dunque di conflitti strettamente militari, regolati e circoscritti dal diritto bellico. Ma quando la guerra torna ad essere la manifestazione dell’inimicizia assoluta (Schmitt 2005), quando cioè si presenta come totale, nulla e nessuno le si può sottrarre.

Chi dice il patrimonio dell’umanità

Nella Convenzione sul Miglioramento delle condizioni dei feriti nelle armate sul campo di battaglia, adottata a Ginevra il 22 Agosto 1864 (abrogata), veniva introdotta una serie di norme per regolare il trattamento delle parti non belligeranti nei conflitti tra stati europei. In particolare, erano definiti dei soggetti riconosciuti come neutrali: ambulanze, ospedali militari (art.1) e personale dei suddetti (art. 2). Per manifestare questa condizione, i soggetti sono tenuti ad esibire “una croce rossa su sfondo bianco” (art. 7), che evoca ad un tempo i colori della bandiera svizzera – stato neutrale per antonomasia e promotore della convenzione – e il simbolo “universale” della religione cristiana (successivamente sostituito, nelle aree a popolazione islamica, da una mezzaluna rossa). Nello stesso nome della comune religione cristiana, nel Medioevo era naturale rispettare chiese e monasteri in tempo di guerra (Coursier 1951): ma questa forma primitiva di diritto interstatale, il codice cavalleresco, aveva evidentemente dei limiti, quelli dell’Europa cristiana. Tutto avveniva entro uno sfondo condiviso nel quale i nemici erano “giusti nemici”, ben diverso dall’inimicizia totale che intrattengono nemici animati da “giuste cause” etniche o religiose. In altri termini

these ancient rules, generally based on religion, were respected by peoples who shared the same culture and honoured the same gods. Where wars involved peoples of different cultures, such rules were often ignored. We all know what destruction took place during the Crusades and the wars of religion. (Bugnion 2004)

Nello stesso modo, la croce rossa – e ciò che rappresenta – poteva esistere soltanto fintanto che fosse sopravvissuto uno sfondo comune e comuni consuetudini. All’interno dei confini della politica europea ottocentesca, la croce evocava un canone di valori condiviso, al di sopra degli interessi nazionali, non polarizzato e quindi neutrale, nel quale il rispetto per la vita umana fosse garantito in nome di un bene più alto, a tutti comune. Così prendeva le mosse la storia di un concetto politico e giuridico che sarebbe stato ampiamente lavorato nel corso del Novecento, ma anche la storia di un’ideologia viepiù invadente; così prendeva le mosse la storia della neutralità.

Il testo del 1864 è il prototipo della convenzione del 27 Luglio 1929 sul Rilascio dei feriti e dei malati nelle forze armate sui campi di battaglia (abrogata) e della più celebre convenzione del 12 Agosto 1949, nota come Prima Convenzione di Ginevra, sul Miglioramento della sorte dei feriti e malati negli eserciti in campagna. Assieme a questa sono state firmate tre ulteriori convenzioni: la Seconda, sul Miglioramento delle condizioni dei feriti, dei malati e dei naufraghi delle Forze armate sul mare (revisione della decima Convenzione dell’Aia del 1907 coerentemente ai principi della Convenzione di Ginevra del 1906, abrogata); la Terza, sul Trattamento dei prigionieri di guerra (revisione della già citata Convenzione di Ginevra del 1929, abrogata); la Quarta, sulla Protezione dei civili in tempo di guerra, che comprende alcune norme di protezione della proprietà privata applicabili al patrimonio artistico e culturale. Nella capitale svizzera, custode del principio della neutralità, si definiscono con precisione le situazioni rette dal diritto soprannazionale di Ginevra, cui devono sottomettersi i belligeranti. Le quattro convenzioni sono ancora oggi il pilastro dello ius in bello, ma è importante precisare che sempre più numerosi sono in conflitti armati che si svolgono al di fuori del diritto internazionale bellico. Sono sempre più numerosi, dunque, conflitti nei quali non vi sono soggetti considerati neutrali perché il conflitto non ha confini.

Ciò malgrado, l’attività legislativa internazionale è quanto mai vivace. Dai tempi di quella prima croce rossa su sfondo bianco, il fondamento del sistema della neutralità non è sostanzialmente cambiato. La neutralità rimanda ancora a un canone di valori posto come universale, soprannazionale ed eterno: non più il cristianesimo, ma un prodotto della tradizione illuminista e giusnaturalista che taluni chiamano umanitarismo, ben rappresentato dalle istituzioni internazionali facenti capo all’ONU. I principi che animano la tutela dei beni culturali possono essere considerati come una particolare declinazione di questa posizione filosofica. In effetti, anche al patrimonio culturale e artistico è stata riconosciuta una sorta di natura e ‘funzione umanitaria’. È interessante notare come, nel processo (15 maggio 2004) a Miodrag Jokic per il bombardamento di Dubrovnik, il Tribunale dell’Aja per i crimini nella ex-Jugoslavia abbia tenuto a definire il danneggiamento dei beni culturali entro la fattispecie dicrimine contro l’umanità, asserendo che

the shelling attack on the Old Town was an attack not only against the history and heritage of the region, but also against the cultural heritage of humankind (§ 51)

Nel 2003, questo concetto viene ribadito nel preambolo della Dichiarazione sulla Distruzione Intenzionale del Patrimonio Culturale:

Il patrimonio culturale è una componente importante dell’identità culturale delle comunità, gruppi ed individui, e della coesione sociale, dal momento che la sua distruzione intenzionale può avere delle conseguenze che possono essere pregiudizievoli sulla dignità umana e sui diritti dell’uomo.

Tuttavia, il canone umanitarista sembra oggi fronteggiare una crisi, che riguarda i concetti stessi di umanità, universalità e neutralità di fronte all’accusa di colonialismo culturale, politico ed economico (si vedano Zolo 1999, Zizek 2005, Wallerstein 2008). Esempi paradigmatici di questa crisi sono le varie forme di “guerra umanitaria”, i recenti casi di rapimento di operatori internazionali e l’abuso dei simboli della Croce Rossa da parte dell’esercito colombiano per liberare Ingrid Betancourt dalle FARC (Hours 2008). Parallelamente a questa crisi, il catalogo dei soggetti e degli oggetti neutrali stilato dalle organizzazioni internazionali paradossalmente si arricchisce, fino a volere forse includere ogni cosa: beni patrimoniali, tradizioni, saperi (Convenzione UNESCO per la salvaguardia del patrimonio culturale intangibile, 2003). Proclamando la neutralità del bene culturale, il diritto internazionale sembra mimare l’incorruttibilità della carne, con il medesimo fine metafisico: la sotéria, ovvero la conservazione.

Ma cosa intendiamo con neutralità? Nella tradizione politica occidentale, neutrale è un soggetto che non partecipando a un conflitto rivendica una condizione di estraneità, e dunque il privilegio di non essere aggredito. La quinta convenzione dell’Aia del 1907 su Diritti e doveri delle forze e delle persone neutrali in caso di conflitto armato definiva già approfonditamente l’estensione della condizione di neutralità. La progressiva instaurazione di un ordine politico internazionale, nel corso dell’Ottocento e del Novecento, ha in effetti reso necessaria una regolamentazione della neutralità: essa riguarda dei soggetti che, pur formalmente estranei al conflitto, si trovano sul teatro di guerra, ad interagire in qualche modo con i belligeranti senza però avvantaggiarne alcuno. Questi soggetti possono svolgere quella che oggi chiameremmo una funzione umanitaria. Per questo motivo, il primo articolo della convenzione del 1864 precisa che i soggetti neutrali – infrastrutture e personale medico – dovranno essere “protetti e rispettati dai belligeranti”. Un secolo più tardi, con la guerra del Biafra del 1967, operatori internazionale come Medecins sans frontières invocano il principio del “corridoio umanitario”, con il medesimo scopo di “migliorare le condizioni dei feriti nelle armate sul campo di battaglia”, ma con l’effetto paradossale di porre le basi per la crisi del concetto di neutralità cui oggi assistiamo.

Gli ultimi due secoli hanno visto un’intensa attività legislativa in ciò che riguarda lo ius in bello, che non è altro – in una certa misura, e in negativo – che una regolamentazione della neutralità. Le convenzioni e i trattati sulla guerra, in effetti, definiscono i limiti dell’attività militare, i soggetti e le situazioni esclusi dal conflitto, insomma tutto ciò che la guerra non può essere. Mimando all’incontrario la strategia insurrezionale tipica dei conflitti asimmetrici, il diritto internazionale di guerra nell’ultimo secolo ha allargato indefinitamente, e continua ad allargare, lo spazio della neutralità, restringendo lo spazio della guerra. Tuttavia, invece di ottenere l’effetto di un progressivo smantellamento di tutte le conseguenze nefaste del conflitto militare, tra cui il danneggiamento dei beni culturali, questa formalizzazione ha coinciso con la sostituzione del conflitto aperto e regolato con varie forme di conflitto sporco (terrorismo, rapimento e detenzione illegale). In altri termini, alla neutralità formale di un numero sempre maggiore di soggetti (istituzioni, persone, beni) si accompagna una mobilitazione totale, nella quale in sostanza a nulla e nessuno è riconosciuta la condizione di neutralità: né al civile, né all’operatore umanitario, né alla dignità umana, né al patrimonio culturale. Malgrado l’ampiezza dello sconfinato “emporio celeste” dei beni protetti (sulla carta) dall’UNESCO.

Parafrasando la nota massima di Pierre-Joseph Proudhon, “Chi dice umanità vuole fregarvi”, citata da Carl Schmitt e poi da Danilo Zolo, vorremmo dire: “Chi dice patrimonio dell’umanità vuole fregarvi”. Vuole fregarvi perché associa al bene culturale proprietà che non gli appartengono, e che abbiamo cercato di contestare: superfluo, neutrale, universale. Vuole fregarvi perché se da una parte il prezzo che chiede per salvaguardare il ‘reperto’ artistico è un prezzo troppo alto, ovvero il suo significato pragmatico, dall’altra nemmeno questo prezzo è sufficiente a tutelare il bene. Questa ideologia, che già Hans-Georg Gadamer criticava, è stata ben sintetizzata in un saggio recente che la taccia di estetismo:

Unicamente perché l’arte è ormai spinta ai margini della nostra vita e non riveste più al-cun serio interesse morale o religioso, possiamo apprezzare le opere di tutti i tempi e di tutti i paesi raccolte nei musei, i quali diventano perciò la dimostrazione del fatto che non abbiamo più un rapporto sostanziale con le opere (D’ANGELO 2003, p. 25)

In fin dei conti, c’è un solo modo di essere neutrali in un mondo totalmente mobilitato: essere esclusi dal mondo, e rinchiusi in un museo. Ma per quanti sforzi si possano fare, anche i musei fanno parte del mondo, e prima o poi verranno sventrati e saccheggiati.

I tragici fatti della guerra dei Balcani hanno suscitato un diffuso scetticismo sull’efficacia dell’ordine mondiale in termini di protezione del patrimonio culturale. Nel frattempo, la questione è tornata sotto i riflettori con il saccheggio del Museo Nazionale di Baghdad nel 2003, che ha suscitato vive reazioni internazionali. Nel 2007, in seguito a diversi anni di abusi compiuti dall’esercito americano, partito con poca cognizione del territorio e del nemico verso una terribile sconfitta politica più che militare, è stato diffuso un mazzo di carte da gioco allo scopo di sensibilizzare i militari al rispetto dei beni culturali. Commentando il destino sfortunato dei beni artistici dell’antica Mesopotamia, James A. R. Nafziger, membro autorevole del Committee on Cultural Heritage Law della ILA, ha notato che

in a new millennium, the public has only limited confidence in the efficacy of either the jus ad bellum to avoid international terrorism and armed intervention or the jus in bello to protect persons and property. (Nafziger 2003)

Ciò che abbiamo tentato di mostrare è che l’incapacità di tutelare il patrimonio artistico e culturale da parte degli strumenti pattizi internazionali è anche dovuta a una definizione contestabile del proprio oggetto. Nello spazio dell’inimicizia assoluta tipico dei conflitti asimmetrici che costituiscono il mondo prima e dopo e altrove dallo Jus Publicum Europaeum, là dove la guerra torna ad essere totale, nulla c’è di neutrale; e men che meno lo è il bene artistico e culturale, che è sempre stato nell’occhio del ciclone della storia, per via delle sue caratteristiche intrinseche. In questo contesto, la prosecuzione dell’attività legislativa da parte degli organi internazionali va considerata come una cieca ostinazione a regolare un mondo che non esiste, a produrre tonnellate di carta e buoni propositi. Di questa foga, la legislazione sui beni culturali è senz’altro paradigmatica. In essa le nozioni di neutralità e di universalità si legano indissolubilmente, e non stupisce che proprio l’universalità del bene culturale, l’idea di una proprietà condivisa del bene da parte di tutta l’umanità, serva a implicarne la neutralità politica e militare. Se il bene non è un segno che ha valore all’interno di uno specifico sistema di segni, radicato in una certa cultura e in certe pratiche – come la logica dovrebbe invece suggerire – allora esso è effettivamente neutrale. Ma si tratta di un bene cavo, muto, privo di significato. Il museo del mondo è un lungo corridoio silenzioso.

Bibliografia

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[Immagine: L’Isis distrugge il museo di Ninive].

11 thoughts on “Magnifici bersagli. Sul destino dell’opera d’arte nel tempo della guerra totale

  1. lo stesso solito stupido errore della decostruzione critica affezionata di sè: criticare i concetti in quanto tali perchè non si riescono a dispiegare nel campo della materialità; ovvero dimenticare quanto il senso comune ci dice da tempo immemorabile: “tra il dire e il fare c’è di mezzo il mare”.

    non è il concetto della protezione dei beni culturali, o della limitazione della guerra, a essere errato; è la sua applicazione materiale ad essere difficile e non condivisa.

    è facile sparare sulle determinazioni ONU, che sembrano sempre uscire da un manicomio per ottimisti della volontà, peraltro resi orbi dalla impossibile pretesa di vedere il mondo come ente unico e indiviso. è come sparare sulla croce rossa, proprio.

    tuttavia, a furia di decostruire linguaggi e concetti, ci si finisce di dimenticare la razionalità che li ha posti in essere, e a legittimare un semplice quanto inutile pensiero reazionario del “così va il mondo, dunque così bisogna farlo andare”. pensiero anche più comodo quando non si è mai assistito a carneficine come la Battaglia di Solferino, che spinse il signor Dunant a fondare la croce rossa, o la Battaglia di Magenta, che ha dato il nome al colore omonimo, quello del sangue sotto il riflesso del sole.

    c’è, in questa furia decostruzionista, la malcelata soddisfazione del saperla più lunga, lo stigma dell’ingenuità altrui e l’esaltazione del realismo politico, ciò che è il marchio di fabbrica del pensiero reazionario nelle sue forme più mediaticamente appetibili per la contemporaneità, e infatti notevolmente pervasive.

    in generale, certo, si assiste dunque ad un’oscillazione del pendolo tra il mondo fatato del volontarismo universalista onusiano e il mondo terribile del realismo reazionario relativista, tra l’utopia di un mondo senza guerre e il sempiterno ” si vis pacem para bellum”, in cui la mancanza di realismo della prima e la sostanziale legittimazione della realtà vigente del secondo concorrono a produrre i medesimi effetti di accettazione dell’orrore: l’uno mediante esorcismo, l’altro mediante scrollata di spalle; ma questo non fa che ricordarci l’estrema sterilità di questi discorsi.

    alla fine di questo articolo, quel che resta è un colossale: “what the fuck?” e per l’arte, e per le opere, e per la guerra, e per i suoi attori, e per le sue vittime.
    si è però passato sopra con gran superficialità al fondamento del concetto di universalità della cultura e dei manufatti storici, che è quello di essere stati prova del passaggio di culture diverse e variegate nella storia umana, cioè: a) il motivo per cui vengono distrutti adesso dagli “iconoclasti”, b) il motivo per cui devono essere tutelati: in quanto fonti primarie di storia dell’umanità tout court. Fonti storiche e boh.

    Questo, con i discorsi sul significato della cultura e dell’arte, non ha nulla a che vedere Sarà un retaggio dell’ottocento, secolo storicista, questa visione, ma è piuttosto pertinente, e non è stato sviluppato, privilegiandogli la visuale sostanzialmente destoricizzante della cultura e della realtà che vige da una trentina d’anni a questa parte. Quella di un’arte viva solo se dibattuta, se entro dinamiche performative, happening, dibattito, attualizzazioni; ciò per cui si potrebbe dire che mai come ora si è parlato di Nimrud in occidente, peraltro, e che dunque la performance dell’ISIS ha rivivificato ciò che distruggeva nell’immagine della sua distruzione. Immagine che però a sua volta un dì andrà distrutta, molto più velocemente delle pietre di Nimrud.

    Mi preme soprattutto ricordare questo: preservazione dei beni culturali è preservazione della storia che racchiudono, non del valore artistico. La storiografia scientifica è un parto della cultura occidentale e universalista, e aggiungo: sticazzi, è un buon parto.
    Che questa preservazione sia difficile, o comunque che non possa esercitarsi facilmente sulla totalità dei manufatti lungo un arco di tempo indefinito è un’ovvietà. Ma ciò non sta significare che questa preservazione sia una “uccisione” del senso delle opere, rivivificato dalla loro distruzione, bensì che quel senso è cambiato, è quello di una testimonianza che trascende l’intento originario, di una prova di esistenza storica labile e precaria che va ben oltre la vitalità delle interpretazioni.

    La distruzione è propedeutica alla riscrittura della storia, ciò che è distrutto non è dotato di significato, è distrutto e boh.

  2. PS “A proposito di messaggi divini”

    oggidie per caso persi la corriera e mi ritrovai curiosamente in biblioteca ad Oristano, preda di un insano impulso bibliofilo cominciai a vagliare un qualsiasi titolo de “I massimi della fantascienza” Mondadori custodito nelle preziose scansie, titoli e nomi di autori a me perlopiù ignoti mi scorsero davanti (ammetto di avere profonde lacune per quel che riguarda la “golden age” della fantascienza tipicamente raccolta in quella collana), tra un Rusell, uno Sheckley, ecc., alla fine ho preso il libro intitolato a tal Walter M. Miller.
    Ed ecco cosa ho letto aprendo in quinta pagina l’introduzione: “Divenuta obiettivo militare perchè l’esercito tedesco si era asserragliato su quella collina e la usava come centrale di tiro, il 15 febbraio del 1944 l’antica abbazia di Montecassino, monumento nazionale fin dai tempi di Murat, venne distrutta da un massiccio bombardamento alleato. Non era la prima volta, anche se, naturalmente, era la prima che poteva vantarsi di esserlo per via aerea (…). Su una delle superfortezze volanti che effettuarono il bombardamento c’era un giovane diplomato in ingegneria elettrotecnica, originario della Florida, Walter M. Miller…”
    E poi via così si prosegue decantando il ruolo che questa distruzione ebbe nel direzionare la carriera scrittoria del tale in questione.

    Curioso.

    Le farò sapere poi se il buon Miller, da ex-manovale della distruzione artistica per scopi bellici, avrà qualche commento interessante per questo articolo, e se l’interscambio abbaziamedioevale/scritturadifantascienza sia stato vantaggioso (sempre che poi lei non abbia già letto lo scrittore in questione).

    PPS Se poi dovesse servire mi riservo di aggiungere qualcosa al mio personale punto, quello relativo alla storicità dei manufatti, ben distinta dalla “artisticità”: la non neutralità dei manufatti culturali deriva dalla non neutralità della Storia di cui sono portatori: la furia iconocolasta dell’islamista di turno è un fattore derivante da un doppio movimento di riscrittura della storia e cancellazione delle prove della riscrittura stessa.
    la Storia scientificamente intesa è eversiva nei confronti di qualsiasi discorso legittimante poteri o istituzioni, in quanto a) insegna che non esiste un punto d’inizio dal quale fare discendere alcunchè, b) offre materiale per pressochè qualsiasi tipo di esemplificazione a giustificazione di pressochè qualsiasi tesi.
    Qualsiasi discorso teso a delegittimare un potere o un’istituzione legittimati, tenderà esso stesso a farsi discorso storico, come per molte parti è quello qui proposto.
    Tuttavia non è da storico criticare i concetti, presupponendone una sostituzione, sulla base della loro ineffettività materiale, bensì da filosofo, una brutta razza tendenzialmente fautrice di una pessima storiografia. In questo caso, addirittura, capace di porre le ragioni dell’estetica di fronte a quelle della storiografia; ovvero le ragioni del “esistere in quanto fruito” davanti alle ragioni del “esistere in quanto prova dell’esistere stesso”. E d’altra parte non si comprende come quattro mura fortificate, sedici fondamenta di case e dodici cisterne dell’acqua, spianate dal vento e dalla pioggia dei secoli, possano essere considerate “arte”.

    Di fondo direi dunque che questo articolo manca completamente il punto, non arrivando a comprendere l’orizzonte dell’uso politico della storia, e della sua importanza, a scopo anche militare.

    Dunque tutto il discorso sulla neutralità (e la relativa “sterilità”) si potrebbe spostare dall’arte alla storia, non fosse per il piccolo particolare che la storiografia non ha scopo estetico, nè etico, nè di alcun altro tipo che non sia il puro e semplice attestato di ciò che è stato; e dunque per essere ben scritta necessita di essere “sterile”. “Sterile” in quanto inattuale e assolutamente priva di intenti accattivanti verso chicchessia, che non sia il raggiungimento della migliore approssimazione possibile, fattuale e concettuale, della verità. Verità di fatto, non interpretazione della stessa: filologica, non ermeneutica.

    La storiografia non neutrale, quella “feconda”, è la storia/mitopoiesi ad uso e consumo di comunità politiche in fieri, ha la caratteristica di essere molto più confacente i desideri di chi l’assume come vera, è storiografia docile, non necessariamente falsa, ma necessariamente menomata. Una volta istituita come storiografia ufficiale, i metodi di sterilizzazione della verità storica “non conforme” sono variegati, la distruzione delle fonti è peraltro solo quello più grezzo, testimonianza in genere di un potere ancora non abbastanza sicuro della propria saldezza, a livello simbolico, specialmente nella sostituzione di un potere precedente.

    Nel caso dell’Islam rientra in una strategia di ampia portata tesa a riscriverne completamente la storia stessa, e dunque a modificarne per sempre la concezione. Più precisamente l’entità iconoclasta più forte dell’Islam, lo stato dell’Arabia Saudita, mira a diventare il centro di una teocrazia islamica sunnita centralizzata su scala globale, di qui la vera e propria devastazione dei luoghi santi avvenuta (in relativo silenzio) nell’ultimo secolo, e i megaprogetti di stravolgimento urbanistico della stessa Kasbah (già peraltro notevolmente stravolta) de La Mecca. L’immane giro di soldi che si associa a molti di questi progetti non è che un incentivo in più a portarli avanti. L’IS per parte sua non fa che rendersi partecipe di questa in riscrittura/reinterpretazione dell’Islam dai connotati sorprendentemente postmoderni, aggiungendo in esibizionismo spettacolarizzante ciò che manca in solidità politica (rispetto ai sauditi). Teniamo conto del fatto che l’entità iconoclasta più forte dell’Islam (sunnita), l’Arabia Saudita, ha un peso politico/militare piuttosto basso, proporzionale alla capacità che avrà nel mantenere sconsigliabile l’opzione della distruzione totale nei suoi confronti da parte dei veri imperi globali, in una posizione che in questo Risiko del terzo millennio, stante la carta obiettivo “conquista di un quinto dell’umanità”, definire smisuratamente pericolosa è essere eufemistici.

    Ora, è evidente che tutto ciò poco ha a che vedere con l’orizzonte culturale dei trattati sulla “umanizzazione della guerra” criticati in questo scritto, ciò tuttavia non rende quell’orizzonte culturale un qualcosa di insensato o inutile. Non, quantomeno, finchè continuerà a convincere i responsabili militari delle vere potenze militari globali che una guerra totale, tra loro, è un’opzione impraticabile, preferendogli uno stillicidio di guerre per procura, perlopiù asimmetriche, normalmente terrificanti, ma mai paragonabili all’orrore che il dispiegamente dei reali potenziali bellici in campo potrebbe produrre.
    Per capire di cosa parliamo realmente possiamo paragonare il costo umano della Operazione Barbarossa con quello di qualsiasi altra guerra, più o meno asimmetrica, combattuta da allora, o ricordare come il 9 marzo del 1945, 70 anni fa esatti, in una notte furono uccisi circa 100.000 abitanti di Tokyo. In una notte. Senza scomodare l’atomica.

    Insomma, visto che si fa gli emeneuti distaccati e distanti, si capisca quantomeno la razionalità dietro l’essere Pangloss dei vari diplomatici ONU, penosa quanto si vuole, ma non più del compiaciuto realismo reazionario che l’attacca, nè necessariamente meno “pragmatica”. Anzi, il “mondo totalmente mobilitato” di cui si parla a proposito della diffusione dei conflitti asimmetrici oggi, è un mondo che non c’è. Giacchè un conto è il terrorismo, un conto è la guerra, e per capire la differenza inviterei l’autore dell’articolo a farsi un giro a Parigi, dove abita, e poi un giro ad Aleppo, dove non abita. La guerra guerreggiata è guerra totale, nei luoghi dove si combatte, non dichiarata e perlopiù tra milizie che non si riconoscono in quanto belligeranti, generalmente è infatti guerra civile, o guerra regionale mescolata a guerre civili; ma è anche guerra confinata entro ben delimitati “cordoni sanitari” dal concerto più o meno intonato e armonioso delle potenze imperialiste globali, che cibano le pedine locali e talora le spingono verso qualche direzione, ma in ogni caso stanno bene attente a non esagerare nel pestarsi i piedi (sebbene l’Ucraina suggerisca che anche la sterilizzazione mediante guerra per procura della concorrenza imperialista sia vicina ad un punto di non ritorno). Guerre totali, dunque, ma su scala locale, questa è la formula attuale. La guerra totale su scala globale, ecco cosa esorcizzano i Pangloss dell’ONU, e scusa tanto se non è una cosa che valga la pena comunque esorcizzare, anche con stupidi trattati sui beni culturali; ovvio poi che sarebbe meglio esorcizzarla sacrificando gente come Victoria Nuland al dio Marduk, ma chest’è.

  3. Mi è piaciuta molto questa risposta. Mi pare che siamo d’accordo sull’essenziale, poiché mi si accusa di “sparare sulla croce rossa”, e capisco che mi si rimprovera soprattutto un certo tono, dalla quale traspare ahimè la “malcelata soddisfazione del saperla più lunga”. È stata comunque l’occasione per raccontare qualcosa del modo in cui si cerca invano di neutralizzare le conseguenze della guerra… Quello che succede nei territori dell’antica Mesopotamia è orribile, ma sfortunatamente resta più una questione di “enforcement” che di diritto naturale, quindi le nostre chiacchiere restano piuttosto scolastiche. A meno che non servano a educare una nuova umanità realista e immune dal vizio di abbattere dittatori in nome di un mondo migliore, che poi però è sempre peggiore.

  4. Il problema evidentemente è che non basta abbatterli: poi bisogna costruire le condizioni per governare il territorio, esercitare il diritto, fare coesistere i gruppi sociali. Il diritto non è quello che resta quando togli il male: il male è quello che resta quando togli il diritto.

  5. Il vero nemico è l’egoismo umano, la subdola creatura, ENCICLOPEDIA DI TUTTI I DIFETTI , colpevole di tutte le nefandezze e vorace insaziabile. Contro questo nemico non serve sprecare inchiostro, perché è connaturato nell’uomo e finché esisterà l’uomo, regnerà a dispetto di tutti, dotti ed ignoranti. La vera guerra (già persa in partenza) è contro di lui…

  6. La ringrazio per questo articolo, che, fra l’altro, ha funto da volano perché potessi strutturare un saggio breve da destinare ai miei maturandi. In un’orizzonte di pensiero tendente all’appiattimento culturale e al politicamente corretto a tutti i costi il suo articolo ha il merito di sollevare questioni spinose, non scontate e fervide di posizioni critiche, che fanno collidere la norma, l’etica e la strutturazione dei significati, non sempre lineare come comunemente si crede.

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