cropped-PabloZuletaZahr042.jpgdi Massimo Gezzi

[Esce oggi per Donzelli Il numero dei vivi, terzo libro di versi di Massimo Gezzi. Presentiamo una scelta di testi].

E poi? Pareti, porte chiuse, fumi che si disperdono,
d’accordo, ma dopo? Cos’hai detto
di tanto grosso? Che si muore?
Va bene, lo sanno tutti questo, però dopo?
Non dopo la vita: sono chiacchiere
da poco, quelle. Dopo-adesso, voglio dire,
dopo-prima, anzi meglio: durante.

Mentre sei qui che respiri e guardi i boschi che si inerpicano
sulle montagne di un nuovo orizzonte, oppure i picchi
di sempre, quelli azzurri e sibillini,

e gli uomini e le donne dei tuoi luoghi
li contemplano, anche quelli di un tempo
che non respirano più, ma percorrono senza requie
le strade del paese, balbettando come
balbettavano da vivi, o raschiando il catarro
quando ridono e tossiscono.

Tutte inutili, quelle voci?
Inutili come te, che scrivi per nessuno, o come le dita
di tua figlia che si allungano nel buio?

Non hai torto, non hai ragione.
Le foglie che il vento getta a terra qualcuno
le conserva. Qualcun altro le ritrova
dopo anni, e le colora.

Difendi questa luce, se sei un nulla
come tutti. Difendi questo nulla
che non smette di essere. Smetti tu di tirare
righe scure, di cancellare. Tocca il tavolo, la carta.
Impara un’altra volta a far di conto:
non sottrarre allo zero, aggiungi uno.

*

Un congedo

Si fermò ad osservare gli ultimi bagliori
di luce che affondavano dietro i monti.
«Non mentono di niente, i bambini,
quando fanno il sole rosso o le nuvole
rosa su uno sfondo blu cobalto. Forse sono
gli unici che guardano ancora qualcosa».
Posò il bicchiere sul tavolo,
soffiò il fumo contro il vetro e quello
si allargò come un lago di aria grigia.
«Ho pensato che la mia vita fosse mia.
Anche tu lo stai pensando, adesso,
che tu sei ciò che scegli, ciò che vuoi,
quello che dici». Gli rispondevano i libri,
le cornici, le piante tese al tuffo nel buio,
non io. «Anche quello che non dici»,
sorrise, mentre il rantolo di catarro
gli si faceva più scuro. «Invece adesso
tu, su quella sedia, che mi guardi le spalle
e vorresti annodarti le mani o essere muto,
tu adesso sei importante, e non lo credi, e non lo sai».
La nuvola più lontana sbiadì all’improvviso.
Nel giro di pochi minuti perse il rosa, poi il viola.
Era ormai un ammasso grigio quando lui,
picchiettando due dita al ritmo contro i vetri,
diede un colpo di tosse e intonò Yesterday,
poi smise.

*

Nove cose che capitano

Uno guarda attraverso le bancarelle di un mercato, vede il flusso delle persone, vede lo sfondo cobalto chiaro del cielo, vede l’erba che spacca i grossi cubi di cemento davanti all’ufficio delle Poste.

Uno si muove, sente il bruciore dei succhi gastrici che risalgono l’esofago, scambia questo fatto per il sintomo di un infarto, si ferma, teme il peggio, non muore. Ricomincia a camminare, vede la luce di una mattina di marzo riflessa da tutte le superfici specchianti del pianeta.

Uno capisce di occupare una minima porzione dello spazio. Vede gli uomini che sbagliano quotidianamente, vorrebbe ucciderli, vorrebbe obbligarli a sentire la sofferenza che infliggono agli invisibili, poi rinuncia, scende a patti, non uccide, torna a casa sperando che il bene sia più ubiquo del male, vede un anziano che conta il resto con lo sguardo concentrato e fa sì sì con la testa quando ha finito di contare.

Uno esce perché vuole passeggiare, perché il mare sta scoccando la sua immagine dallo sfondo, uno vede questa scena e prova il bene delle cose che esistono.

Uno sente un altro ingiuriare la donna accovacciata davanti alle Poste a chiedere soldi. Le dice zingara, levati dai coglioni, puzzi di merda e sei più ricca di noi. Gli altri in coda lo guardano e sorridono, anche l’anziano che ha finito di contare i suoi soldi guarda la donna e dice vai a lavorare come tutti, brutta zozza.

Uno esce perché vuole rivedere le cose che ha già visto.

Uno arriva dal paese, un altro lo vede, erano compagni di classe alle elementari. L’altro pensa questa voce non avrei mai creduto di risentirla invece eccola, la voce che il mio corpo ha già sentito, con la stessa frequenza, lo stesso timbro che risveglia sensazioni che non avrei mai immaginato di rivivere, e all’improvviso quello che pensa ricorda una scena dimenticata, sprofondata nella memoria, che non sapeva di ricordare.

Uno torna a casa meditando su quella scena incomprensibile.

Uno mentre vive le scene quotidiane che fino a poco prima gli sembravano banali si accorge che quelle scene saranno uniche. Uno si preoccupa di capire se questo pensiero debba condurre alla fine o all’amore, e mentre pensa questo vede un altro crollare a terra, come se un fulmine l’avesse centrato, solo che è una bella mattina di marzo, il cielo è limpido, il mare di lontano continua a risplendere azzurro.

*

L’intagliatore di lattine

Seduto sulla base
di un pilastro che regge i portici,
avrà dodici, tredici anni.
Cappellino, due piercing
sopra il labbro superiore,
con estrema concentrazione ritaglia
lattine di Redbull, Coca Cola,
birra da quattro soldi.
Le maneggia attentamente,
stringe le forbici con calma
seguendo linee immaginarie
ma chiarissime ai suoi occhi.
Si dev’essere accorto
del mio sguardo perché,
sollevando la testa indispettito
e prima di arrendersi a un sorriso, fa:
«Non lo vedi che faccio?
Trasformo questa merda in tante stelle.
La birra però prima me la bevo».
E riprende.

*

Unisci i puntini

Da un cancello socchiuso ognuno vede
la propria vicenda sotto forma
di rogge, campi di colza,
profili impettiti contro i colori
variabili delle albe. Cos’è rimasto, si chiede,
di quelle tracce, che disegno ho fatto emergere
dai puntini da unire collegando le cifre
che ne indicavano la successione? Fuori dalla finestra
un vento acerbo maltratta un oleandro,
una palma, una magnolia dai fiori sfatti.
Attraverso questi rami si compone
il disegno di una casa dai serramenti
verde scuro – o non erano arancioni?
e si affacciavano sul mare? –,
una delle tante case perse di cui si tiene in mente
ogni particolare.
……………………….Ecco, se alza lo sguardo,
una mattina di metà maggio mentre
perde del tempo, riflette, osserva il gesto
grazioso di una ciocca di capelli sistemata
dietro l’orecchio, ognuno può comporre
i punti di luce che un mattino di un altro secolo
gli ha impresso nella memoria: trova le differenze,
sembra dire quest’altro gioco
che il vento si ostina a suggerire.
Vedo solo ciò che è uguale, risponde,
mentre il verde della porta trasuda
arancione e un campo di colza
si tinge di marea.

 

Copertina

[Immagine: Foto di Pablo Zuleta Zahr (gm)]

 

 

 

6 thoughts on “Il numero dei vivi

  1. Il miracolo è che il cielo
    non scivola di un dito, che il mare
    non trabocca nella conca
    su cui pende – questi colori,
    che in un piano segreto della mente
    sono cose, legano il nostro corso
    a uno stupore che continua:
    perciò dovete accorgervi
    che è tardi, che c’è da condividere
    il pane del linguaggio, la forza,
    la fatica – stiamo nel minimo
    tempo di un’eclisse: bisogna
    partire una volta per sempre.

    Grandezza del poeta marchigiano…

  2. Leggo e rileggo questi testi da una mezz’ora e penso che siano poesie bellissime.

  3. Niente. leggo e rileggo questi testi da mezz’ora e non riesco a trovarci niente. Mi dispiace ma davvero mi sembra l’ennesimo esercizio di stile (e un po’ scopiazzato male) con lo sforzo, non riuscito, di inserirci qualche elemento personalizzato, qualcosa di nuovo… Però niente. Davvero niente di nuovo. Sono cose già dette, già sentite. Non cambiano nemmeno le scenografie. Almeno secondo il mio punto di vista.

  4. D’accordo, scrivere di pensare che questi testi siano bellissimi non chiarisce. Lo penso per lo sguardo dell’autore sulle cose. Pensieri e sentimenti che esprimono, nella mia percezione, lo smarrimento all’interno del quotidiano. L’ombra. Lo penso perché mi sembra che affrontino, senza retorica, grandi temi (il male, l’incomprensibilità dell’esperienza del mondo, la perdita). E perché la sonorità, la musica delle parole nella loro dimensione ‘narrativa’, m’è sembrata particolarmente efficace. Per la mia, certo modesta, conoscenza della poesia contemporanea una voce sicura.

  5. Magari bellissime è eccessivo (secondo alcuni di voi). Però, dobbiamo ammettere, che Massimo si incammina sulla strada di uno stile analitico, molto chiaro, comunicativo, lontano dalle tendenze orfiche, metafisiche, misteriche, di certi “autori” settantenni o ottantenni, di età e di spirito, che nascondono, dietro a strutture elaboratissime e frasi ambigue, la noia assoluta, il vuoto, il bluff artistico. Lo stile analitico, in ogni campo del sapere, è indice di comunicabilità, di mano tesa verso il lettore (esisterà, ancora, un lettore?).

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