di Riccardo Castellana
[Dal 25 dicembre al 6 gennaio LPLC sospende la sua programmazione normale. Per non lasciare soli i nostri lettori, abbiamo deciso di riproporre alcuni testi e interventi apparsi nel 2011, quando i visitatori del nostro sito erano circa un quinto o un sesto di quelli che abbiamo adesso. È probabile che molti dei nostri lettori attuali non conoscano questi post. L’articolo che segue è uscito il 7 novembre 2011].
1. Il segreto di Facebook
Nel film di David Fincher The Social Network (2010) Mark Zuckerberg, l’inventore di Facebook, è presentato in modo impietoso e probabilmente non troppo lontano dal reale: adolescente di talento, ma incapace di allacciare legami sentimentali; un comportamento che rasenta l’autismo; un solo amico che finirà col trascinarlo in tribunale per averlo estromesso senza troppi complimenti dall’affare del secolo (Facebook, appunto). Eppure l’eroe del film non è un cinico, e non sembra nemmeno troppo interessato al denaro, anzi in fondo può persino suscitare un po’ di pietà in chi guarda. Il volto prestatogli dall’attore Jesse Eisenberg non potrebbe essere più indovinato: lo sguardo assente e inespressivo scivola sugli interlocutori; una dialettica inattaccabile e una prossemica raggelante li tengono ad adeguata distanza. Se Zuckerberg fosse davvero così, sarebbe l’emblema migliore dei tempi in cui viviamo: un perfetto asociale (come si sarebbe detto una volta) che crea uno strumento per socializzare usato da cinquecento milioni di persone in tutto il mondo. Se Facebook fosse una nazione, sarebbe la terza per numero di abitanti dopo Cina e India.
Il film, però, non spiega affatto il perché di tanta popolarità. Ripiega invece (ed è questo il suo limite maggiore) sul topos collaudato del nerd, del genietto informatico un po’ imbranato, che a dispetto della sua incapacità di relazionarsi con il mondo esterno (o forse proprio per questo, chissà) inventa qualcosa che prima non c’era ricavandone in breve tempo profitti milionari (il valore di Facebook si aggirerebbe, oggi, intorno ai 50 miliardi di dollari). In realtà l’idea di Zuckerberg non era affatto nuova, ma serpeggiava già, come si accenna di sfuggita anche nel film, nei college americani all’inizio degli anni zero, e «reti sociali» informatiche come MySpace esistevano sin dal 2003. No, il successo di Facebook non sta affatto né nell’originalità dell’idea, né nella perfezione tecnologica con cui è stata realizzata, ma nel nuovo modello di comunicazione pubblicitaria che il sito ha creato e grazie al quale trae i profitti necessari al proprio funzionamento. Il segreto di questo modello è rivelato da una frase di Sheryl Sandberg (la direttrice generale della società che gestisce il sito) riportata nell’articolo con cui la rivista «Time» ha designato Zuckerberg uomo dell’anno 2010. La frase è questa:
Non importa se a 100.000 persone piace x. Se alle tre persone a te più vicine piace y, allora tu desidererai y.
Per spiegarla, e per spiegare perché si tratta di qualcosa di rilevante anche per chi si occupa di storia della cultura e non di marketing, bisogna però partire da lontano.
2. Verità romanzesche
Bisogna partire da uno dei libri più intelligenti della critica letteraria del Novecento: Menzogna romantica e verità romanzesca, di René Girard. Per Girard la struttura del desiderio è sempre di tipo triangolare, e quando crediamo che esso funzioni in modo lineare siamo, in realtà, vittime di un pregiudizio romantico. Semplificando un po’ il ragionamento complesso e affascinante dell’autore, l’appeal di qualcuno o di qualcosa molto spesso non dipende, come si potrebbe ritenere ingenuamente, dalle sue caratteristiche oggettive, ma dal fatto che (ce ne rendiamo conto o meno) c’è qualcuno che si fa mediatore del desiderio per quell’oggetto, che cioè desidera o detiene prima di noi quell’oggetto, o qualcosa di categorialmente simile. Questa legge non scritta e ignorata dal senso comune è rivelata dai romanzi, che in ciò hanno sempre, per Girard, una componente lato sensu “realista”. Don Chisciotte, osserva ad esempio Girard, va a caccia di giganti per conformarsi al suo modello di vita dichiarato (Amadigi di Gaula) e al solo scopo di immedesimarsi in quell’eroe inarrivabile e leggendario, di assumere insomma un’identità ai suoi occhi prestigiosa e ricca di valore. Il fatto che i giganti siano solo dei mulini a vento non significa semplicemente che Chisciotte è un pazzo, ma rivela la reale gerarchia del desiderio e mostra che l’oggetto desiderato (l’avventura) è desiderabile perché “creato” dal mediatore stesso: i giganti non esistono, ma la volontà di immedesimazione nell’eroe sì, ed è molto più forte del principio di realtà.
È dunque il modello cui ci ispiriamo che suscita il nostro desiderio, non l’oggetto. E il soggetto desiderante, nel momento stesso in cui desidera, non fa che tradire il proprio bisogno profondo di essere un altro, cioè di avere un’esistenza che gli appare piena e ricca di significato così com’è quella incarnata dal suo modello. Questa “verità romanzesca”, secondo Girard, è svelata anche dalla grande narrativa dell’Ottocento, che anzi ne ha fatto il suo tema centrale: desiderano allo stesso modo dell’hidalgo di Spagna – senza lasciarsi irretire dalle mistificazioni romantiche – tanto il protagonista de Il rosso e il nero, Julien Sorel, figlio di un carpentiere di provincia che nella Francia restaurata dopo il trattato di Vienna sogna di essere Napoleone e nasconde le Memorie di sant’Elena sotto il cuscino, quanto Emma Bovary, moglie insoddisfatta di un medico di campagna che riempie la noia dei suoi pomeriggi identificandosi nelle eroine dei romanzetti stipati nella sua biblioteca per signore.
Ora, Amadigi, Napoleone e le eroine di carta di Emma sono tutti mediatori, come scrive Girard, esterni: personaggi letterari oppure eroi in carne ed ossa, che però hanno in comune tra loro il fatto di agire su un piano di realtà (o di irrealtà) diverso da quello dell’eroe desiderante. Julien Sorel non avrà mai la possibilità di incontrare Napoleone per le strade di Verrières, né di vedersi contendere dal suo mediatore ideale quelle stesse cose che il suo eroe implicitamente gli suggerisce di desiderare: la fama, la scalata sociale, la gloria militare. I romanzi di Dostoevskij, invece, sempre secondo Girard, mettono in scena un tipo diverso di mediazione, non più esterna ma interna. La mediazione interna viene esercitata da qualcuno che agisce sullo stesso piano del soggetto, e con il quale quest’ultimo può intrattenere un rapporto di amicizia e, nello stesso tempo, fatalmente, anche di rivalità. La letteratura contemporanea pullula di mediatori interni. Tutti gli inetti del romanzo primonovecentesco hanno disperatamente bisogno di piccoli idoli quotidiani da adorare al posto dei grandi dèi decaduti. Nei due capolavori di Svevo, Senilità e La coscienza di Zeno, le coppie Emilio Brentani / Stefano Balli e Zeno Cosini / Guido Speier sono caratterizzate da rapporti rivalitari riconducibili in entrambi i casi al meccanismo di base della mediazione interna. Nei confronti dello scultore Balli, il grigio impiegato Brentani si pone nella posizione del discepolo che guarda ammirato al maestro e tenta di «copiarne» (sono parole sue) tratti e comportamenti per poter sognare di uscire dallo stato di inettitudine e di senilità anticipata che lo paralizza, impedendogli di vivere come vorrebbe. La stessa desiderabilità di Angelina si delinea chiaramente, se si legge con attenzione il romanzo, man mano che Emilio ne scopre gli amanti veri o presunti: ogni volta che se ne aggiunge uno il suo desiderio si accresce. Così, quella che era iniziata come una relazione superficiale e tutt’altro che «seria» diventa nel corso del libro una vera e propria catastrofe, che sconvolgerà la vita del tranquillo impiegato triestino. Anche nella Coscienza di Zeno, al di là degli elementi psicanalitici da manuale disseminati un po’ in tutto il libro, la relazione chiave che permette di capire il romanzo è in realtà quella rivalitaria che coinvolge il protagonista e il cognato Guido Speier, con il quale Zeno instaura, come ciascun lettore ricorda, un rapporto di amicizia e di sfida che si conclude con la morte di Guido e con il trionfo di Zeno, ormai ben avviato verso la “guarigione” finale.
L’altro grande (e misconosciuto) narratore del desiderio e della mediazione interna nell’Italia del primo Novecento è il senese Federigo Tozzi. Anche nel suo caso la critica psicoanalitica, da Debenedetti in poi, ha enfatizzato il rapporto con la figura paterna. Ma il suo capolavoro, Con gli occhi chiusi, è a guardar bene imperniato intorno a un nucleo psicologico estraneo al tema edipico. All’origine della storia d’amore tra Pietro e Ghisola stanno infatti ben due mediatori interni. Il primo è Agostino, l’adolescente bello e sicuro di sé, dalla personalità dominante, che subito diventa un modello per Pietro, fragile, malaticcio e afflitto da sensi di colpa:
Perché non aveva i polsi eguali a lui, le ciglia, gli orecchi, la camicia? E perché quando si provava a fare come lui, con la stessa aria di noncuranza, si trovava perso d’animo, senza fiato, con la paura di provocare la sua collera che lo faceva tremare?
Essere è essere un altro, provare i suoi stessi desideri, entrare nella sua pelle. Guardando ora l’insignificante e scialba Ghisola con gli occhi di Agostino, Pietro prova per lei «sentimenti inaspettati ai quali da solo non avrebbe mai sognato». Da solo: Pietro è incapace di desiderare «secondo sé» (direbbe Girard) e può farlo solo «secondo l’altro», ed è necessario che a desiderare per suo conto sia qualcuno che ammira e che sa, ipocritamente, nascondere il proprio desiderio. Ma al tempo stesso, una volta che l’altro ha innescato il desiderio, Pietro non può fare a meno di odiarlo e di considerarlo un nemico perché minaccia di sottrargli proprio quell’oggetto di cui gli ha rivelato la preziosità e il valore. È un doppio vincolo terribile ma inaggirabile.
Il secondo mediatore è Antonio, forte e spavaldo, e compare in una scena esemplare: Pietro ha inaspettatamente ricevuto da Ghisola la conferma che lei lo ama; Antonio, deluso, se ne va, ma contro ogni logica Pietro rinuncia all’intimità con l’oggetto del desiderio per seguire in città il mediatore-rivale, come a voler dichiarare apertamente le sue priorità e a tentare di ripristinare il rapporto di dipendenza che lo lega all’altro. I grandi romanzi italiani del secolo scorso raccontano dunque l’importanza crescente della mediazione interna e ciò che ne consegue: il vincolo inestricabile di ammirazione e rivalità che ci lega al prossimo, l’invidia, il rancore, il contagio mimetico.
3. Facebook, la scomparsa dell’oggetto e il mediatore interno
A chi avesse più familiarità con i libri e la letteratura che con Internet, basti sapere che ogni volta che apriamo la pagina di un amico su Facebook un elenco bene in vista accanto alla sua foto ci informa che a lui piacciono un certo tipo di scarpe da ginnastica, una certa bibita gassata o un certo modello di automobile. Nulla di invasivo (a differenza dello spot televisivo), ma un elenco apparentemente innocuo di cose preferite o di desiderata. Se però grandi compagnie, dalla Coca-Cola alla Adidas, hanno investito milioni di dollari su Facebook questo nuovo modo di fare pubblicità deve essere efficace e redditizio. Ma perché?
Per almeno tre motivi. Il primo (ma non il più importante) è che l’emittente del messaggio pubblicitario (cioè il nostro amico di Facebook) dice presumibilmente la verità. Nello spot per la Nespresso George Clooney è bravissimo nel recitare la parte di chi farebbe di tutto, persino tentare di ingannare il mefistofelico San Pietro di John Malkovitch, pur di non rinunciare alle sue capsule di caffè preferite. Il nostro amico, invece, lo sappiamo, non recita una parte e non finge di apprezzare un oggetto, perché nessuno lo ha pagato per farlo. Facebook si limita a ricordarci, senza darlo troppo a vedere, che a lui piacciono alcune cose, e chiunque lo conosca sa che quelle cose gli piacciono davvero, perché è stato proprio lui, al momento di aprire il suo profilo o di aggiornarlo, a compilare la propria lista dei desideri.
Il secondo motivo dell’efficacia di questo nuovo modello pubblicitario sta nel fatto che il suo destinatario non è anonimo ma mirato. Se cioè lo spot della Nestlè ha un carattere generalista e si rivolge a un destinatario indistinto, privo di caratterizzazione sociale, culturale o anagrafica, i suggerimenti promozionali di Facebook appartengono ad un contesto sociale di cui sia l’emittente del messaggio sia il suo gruppo di amici (presumibilmente tutti della stessa età, con interessi simili, approssimativamente dello stesso livello socio-culturale) sono membri. È perché è incorniciato in questo nuovo contesto che il messaggio diventa efficace e può conferire valore aggiunto al prodotto. E sottraendolo all’anonimato dello spot televisivo, il messaggio così personalizzato lo inserisce in un circuito ristretto ma qualificato di possibili consumatori che, verosimilmente, ne potranno apprezzare le qualità meglio di altri: la gittata sarà più limitata, ma il tiro molto più preciso. Ancora con le parole (terribilmente vere) della Sandberg: «Ciò che un venditore ha sempre cercato è tentare di farti vendere qualcosa ai tuoi amici. E questo è esattamente ciò che fai su Facebook».
Ma queste due risposte (verità o sincerità dell’enunciato e uscita dall’anonimato della merce) non sono ancora sufficienti a spiegare il successo di Facebook. Ce ne vuole una terza, ed è qui che il riferimento a Girard torna utile. Facebook funziona molto meglio di altri social network (che si affidano a sistemi pubblicitari più tradizionali) perché crea una rete virtualmente infinita di “mediatori interni”, cioè di individui capaci di suscitare il desiderio agendo sulle sue strutture elementari. Queste strutture, come ci insegna il romanzo degli ultimi centocinquanta anni, da molto tempo ormai non si basano più sull’imitazione di grandi modelli, ma in misura sempre più crescente sull’adozione di piccoli maestri ai quali riconosciamo una autorità forse più limitata ma nei quali ci immedesimiamo più facilmente perché sono vicinissimi a noi e con i quali, di conseguenza, siamo portati a competere e a rivaleggiare apertamente. Non un Amadigi o un Napoleone, insomma, ma tanti Guido Speier o Agostino.
La scomparsa dell’oggetto del desiderio in quanto oggetto dotato di caratteristiche fisiche apprezzabili e distinte da altri oggetti qualifica, è inutile ripeterlo, la forma di produzione contemporanea. Più che la qualità di un prodotto, nel marketing del nostro tempo conta cioè la sua desiderabilità, il suo appeal. Ebbene, la pubblicità di tipo tradizionale continua a suscitare il desiderio attingendo a quelle stesse strutture elementari che il romanzo dell’Ottocento si era incaricato di demistificare: si affida al prestigio di un mediatore esterno, cioè al grande attore, alla modella di grido o al campione sportivo che ciascuno di noi vorrebbe essere (ma non è). Ma anche quando lo fa con ironia e intelligenza usa uno schema ormai logoro, destinato a divenire minoritario e adatto solo a promuovere categorie merceologiche di larghissimo consumo e che di solito non creano status. Lo schema vincente è invece quello su cui ha puntato Facebook, che in parte (ma solo in parte) può essere assimilato alla trasformazione dell’offerta televisiva negli ultimi quindici anni, che alla vecchia TV generalista ha affiancato i nuovi canali tematici e ipersettoriali. Salvo che su Facebook non c’è più alcun bisogno di testimonial e di mediatori esterni. Al loro posto è subentrata una miriade di mediatori interni, perfettamente anonimi ai più, ma noti a noi perché si tratta dei nostri amici e conoscenti, di persone comuni con le quali siamo però in contatto costante e con cui condividiamo gusti e desideri, cioè (virtualmente) prodotti e merce. «Non importa se a 100.000 persone piace x. Se alle tre persone a te più vicine piace y, allora tu desidererai y».
4. L’esibizione dell’intimità
Chi socializza attraverso Facebook accetta di esibire in pubblico la propria intimità (il proprio desiderio) prima ancora di confessare le proprie opinioni o narrare le proprie esperienze. Non la sacrifica in cambio di un bene superiore come se si trattasse di una rinuncia inevitabile e dolorosa, ma la offre volontariamente al voyeurismo dell’altro (di chiunque altro) nella convinzione che la vita privata sia significativa solo se esibita pubblicamente. Le cose funzionano più o meno così: quando un nuovo utente crea il proprio profilo su Facebook, accetta di rivelare al mondo i propri desideri compilando una lista virtualmente infinita e visibile a chiunque digiti il suo nome su un motore di ricerca. Non è il sistema informatico a costringerlo a farlo. Tuttavia, se il suo profilo contenesse una lista vuota la sua stessa identità ne risulterebbe impoverita e piuttosto deludente per gli altri; viceversa, la lista sarà tanto più interessante quanto più l’utente vi avrà elencato oggetti (l’ultimo brano musicale da scaricare da iTunes, un film, un paio di Adidas, un videogame o un libro) che gli altri potranno desiderare con lui, non necessariamente acquistandoli ma anche solo manifestando a loro volta il loro apprezzamento, cioè inserendo quegli stessi oggetti nelle loro liste. L’esibizione pubblica del desiderio e la propagazione del contagio mimetico sono i presupposti necessari perché l’obiettivo ultimo delle campagne di marketing prima o poi si realizzi, ma l’acquisto finale del bene diventa, alla fine, la cosa meno rilevante rispetto al mutamento epocale determinato dal sistema.
Certo, alla base di tutto c’è un istinto antropologico antico e profondo che non va ignorato, soprattutto perché il mutamento epocale è anche e soprattutto un mutamento generazionale (Facebook è popolato soprattutto da adolescenti) e ciò comporta per noi qualche responsabilità in più. L’istinto è quello di far parte di un gruppo, di tessere relazioni con altri esseri umani, di condividere con altri idee e valori. Ma al gruppo virtuale di Facebook si accede esibendo in pubblico la propria interiorità, rinunciando alla segretezza dell’io. È così che si crea quella rete di mediazioni interne che il social network, in realtà, è: una rete virtualmente infinita e discontinua di piccoli leader che si imitano a vicenda, che entrano in competizione tra loro, che si contendono, nelle rispettive cerchie, il ruolo di fomentatori del desiderio. Facebook alimenta questa lotta senza vittime e da cui tutti possono uscire vincitori incoraggiando i propri utenti ad ampliare il numero dei rispettivi conoscenti. La competizione si gioca così non di rado sull’ostentazione delle cifre, sul vanto di avere acquisito centinaia di nuovi “amici” e sulla convinzione di trovarsi al centro di una comunità virtuale fittizia, creata da noi stessi.
Quest’ultima, estrema trasformazione del mediatore interno i romanzi di cui abbiamo parlato, naturalmente, non la raccontano se non in minima parte. Il personaggio romanzesco tradizionale non metteva in piazza i propri desideri, ma li custodiva gelosamente nel timore che altri potessero contendergli l’oggetto anelato. Ed è naturale che fosse così, perché gli eroi del romanzo primonovecentesco vivevano ancora l’interiorità come un valore, erano pur sempre surrogati artistici di una società che non aveva abolito il confine tra pubblico e privato. La rottura di questo argine è invece materia di alcuni romanzi dei nostri anni, o almeno di quelli più capaci di mostrare la sovrapposizione dell’interiorità all’esteriorità, la trasformazione del desiderio da tesoro da nascondere o magari far fruttare in segreto a gioiello (o bigiotteria) da esibire senza pudore.
Uno di questi romanzi si intitola Troppi paradisi e il suo autore è Walter Siti. È l’autobiografia fittizia di Walter, un professore di letteratura sulla sessantina, omosessuale e ossessionato dai giovani escort delle borgate romane. Siti non racconta il mondo virtuale di Internet, ma dedica molte pagine alla post-realtà televisiva e più ancora alla realtà densa e compatta di quel mondo “reale” che in parte resiste all’omologazione mediatica e in parte vi si è completamente assuefatto. Eppure anche qui, come nello spazio virtuale del social network, l’imitazione del desiderio, il contagio, l’esibizione di sé sono temi centrali e ossessivi: lo stesso protagonista non si presume diverso dagli altri (è solo più consapevole degli altri) quando confessa la sua dipendenza dalle proprie ossessioni personali, la propria schiavitù nei confronti della sua carta di credito. La vita di Walter, come quella di chiunque altro, risponde a leggi universali. Raccontare di sé è raccontare il mondo:
Arbasino esclude che io sia uno scrittore perché non faccio altro che parlare della mia vita piccina picciò, e la mia inferiorità sociale, e le mie scopate, e adesso anche la vecchia mamma. Quanto di più cheap, di piccolo-borghese: la negazione del volo fantastico, del coraggio di chi i propri dolorini se li risolve da solo («never explain, never complain») e si affida alla leggerezza crudele della vera creazione, che è sempre un’avventura, un’inchiesta, una sorpresa storica e in lato senso politica, da Mozart alle vedute di Bellotto ai sogni di Borges. Ma io non so degli altri, so solo di me stesso; i grandi secoli e i grandi uomini non mi interessano, mi interessa il carnaio di ora. Il fenomeno politico più rilevante degli ultimi trent’anni in Occidente non è tutto fondato su una formidabile estensione (e distorsione) dei desideri privati? Non è dal desiderio dei più che nasce il consumo? L’individuo meschino e banale non è lui il laboratorio (e la cavia) del meccanismo economico che ha conquistato il mondo? Di una nobile visione dall’alto, chi se ne frega. Chi studia la Grande Muraglia dovrà pur interessarsi di come sono fatti i mattoni…
Quello che un tempo era il desiderio individuale è diventato desiderio di massa: è l’immagine, descritta in un’altra pagina del libro, dei ragazzi di borgata che indossano tutti la stessa t-shirt con su scritto “original”. Questa gigantesca «estensione» dei desideri individuali (insieme alla sua «distorsione» mediatica e televisiva) ha abbattuto la distinzione tra pubblico e privato, riducendo la sfera pubblica al semplice spazio in cui le pulsioni private devono trovare sfogo, a qualsiasi costo. Intorno al desiderio di massa si è consolidato negli ultimi trent’anni il modello di vita consumistico di un Occidente orfano delle utopie:
Per resistere senza la speranza nell’aldilà, e nel Paradiso, bisogna poter sperare nel paradiso in terra. […] Dare l’illusione del paradiso in terra è l’obiettivo finale del consumismo; o, se si vuole, il consumismo è una protesta per l’inesistenza di Dio. Comprando si è onnipotenti, soprattutto se compri qualcosa che ti serve a poco; i centri commerciali sono isole dei beati dove (grazie all’aria condizionata) è sempre primavera, dove ogni tuo desiderio è un ordine, dove tutte le distanze si annullano perché i prodotti di tutto il mondo si offrono fianco a fianco, a tua completa disposizione. Chi ha pensato al KaDeWe, a Berlino, da ergere di fronte al Muro, l’ha pensato proprio bene come un frammento di Paradiso terrestre per far sbavare di voglia gli orientali.
NOTE
Le parole di Sheryl Sandberg si leggono nell’articolo di Lev Grossman, 2010 Person of the Year. Mark Zuckerberg, apparso sulla rivista «Time» del 27 dicembre 2010- 3 gennaio 2011, pp. 36-61; a p. 53. Il libro di René Girard si intitola in italiano Menzogna romantica e verità romanzesca (1961), Milano, Bompiani, 2002. Sul desiderio triangolare in Con gli occhi chiusi si veda il primo capitolo di R. Castellana, Parole cose persone. Il realismo modernista di Tozzi, Roma, Fabrizio Serra 2009; su Svevo ha scritto cose intelligenti, ispirate a Girard, Pierpaolo Antonello nel saggio Rivalità, risentimento, apocalisse: Svevo e i suoi doppi, in Identità e desiderio. La teoria mimetica e la letteratura italiana, a cura di P. Antonello e G. Fornari, Massa, Transeuropa, 2009. Di Facebook, dei «confessionali elettronici» e della «fine dell’intimità» nell’epoca di Internet ha parlato di recente Zygmunt Bauman in una conferenza per il Festival del Libro di Roma: alcuni estratti si possono leggere sul quotidiano «la Repubblica» del 9 aprile 2011 (La fine dell’intimità: metti in scena il tuo privato, pp. 39-41). Il romanzo Troppi paradisi, di Walter Siti, è stato pubblicato da Einaudi nel 2006 (i brani citati si leggono alle pp. 61-62 e 133).
[Una versione più estesa di questo saggio è uscita nell’ultimo numero di «Belfagor»]
[Immagine: Facebook].
Ho apprezzato molto quest’articolo per la lucidità e l’analisi rigorosa di un fenomeno, come quello dei social network e di Facebook i primis, che è un’inconfutabile cartina di tornasole della nostra contemporaneità.
Ho solo un’obiezione, o meglio, un’osservazione a riguardo dell’intimità: siamo sicuri che quella esibita sia un’ intimità reale, completamente soggettiva e che non sia mediata anch’essa dalla pluralità del contesto in cui nasce?
Condividere la passione per una marca, per un prodotto o per un artista ci restituisce davvero la dimensione “vera”, autentica, del soggetto che esprime la preferenza? O forse, verosimilmente, potrebbe essere la risultante di più fattori quali conformismo verso un certo status, “contagio mimetico” e aspirazione a essere qualcosa di diverso da quello che si è in realtà?
Anche io ho letto questo pezzo con molto interesse e mi è venuto un dubbio analogo a quello di Letizia. C’è un bel passo di Riportando tutto a casa di Nicola Lagioia in cui la rete e i social network sono letti come «una strategia di occultamento: tentativi di depistaggio attraverso la sovraesposizione di se stessi. Guardando quelle pagine il cui scopo dichiarato era darsi generosamente in pasto a chiunque, nulla emergeva di fondamentale sulla situazione dei loro autori» (p. 278). Non l’intimità, ma frammenti, segni, ammicchi che servono a fare gruppo, appunto secondo una logica adolescenziale, e a rimuovere la sostanza. Il contenuto dei frammenti o esclude l’intimità, o la riduce in pezzetti così piccoli e così stereotipati da renderla irriconoscibile e negarla. Questa strategia di autorappresentazione per cenni non è, infatti, propriamente narrativa: si tratta, semmai, di un collage discontinuo di aforismi. Io ho l’impressione che facebook parli di un analfabetismo dell’intimità, dell’incapacità di raccontarla. L’intimità non è solo strozzata dall’imbuto del mimetismo (come sempre), ma frantumata da un mezzo che non conosce forme per dirla. In questo senso, mi sembra che sia un altro capitolo di quell’antropologia contemporanea che Massimo Recalcati ricostruisce nell’Uomo senza inconscio.
Credo che l’intervento di Donnarumma si discosti un pochino dal tema di partenza ma allo stesso tempo apra una parentesi parecchio importante. Questo “analfabetismo dell’intimità”, che si traduce molto spesso in incondizionata accoglienza di stereotipi provenienti praticamente da qualsiasi forma o manifestazione, alta o bassa, di cultura (ed è qui,solo qui che, rimaneggiando un po’ diversi concetti, si potrebbe parlare di un concreto e finalmente compiuto post-modernismo, ricordandosi sempre che in questi casi la cultura “bassa” è sempre un’esemplificazione della “cultura alta”), questa vera e propria carenza di personalità, dicevo, è figlia dell’input culturale che la società stessa emette: aforismi eterogenei, per l’appunto, e soprattutto indicazioni estetiche precise (precisissime) che finiscono, forse, per condizionare impostazioni mentali e comportamentali molto più importanti.
è qui che mi viene da pensare alla poesia e, in generale, alla letteratura, che in questo caso viene sostituita, nel mondo giovanile contemporaneo, non tanto dalla musica, come spesso si dice, ma proprio da Facebook, dal semplicismo forzato di certi aforismi, da un canone estetico, soprattutto fotografico, precisissimo, seppur superficiale; basta intrufolarsi (democraticamente, si intende) nei profili delle ultime generazioni e guardare i loro link, i loro gusti non tanto di mercato quanto “etici”; rendersi conto di come un modello estetico possa trasformarsi in atteggiamento morale.
Ed è proprio con questi nuovi modelli estetici, secondo me, che la letteratura oggi dovrebbe confrontarsi. Non facendo passi indietro, non adattandosi, ma dovrebbe almeno tener presente la situazione, per non morire. Ovvio che la cosa spaventi.
Leggo: “…per spiegare perché si tratta di qualcosa di rilevante anche per chi si occupa di storia della cultura e non di marketing…”.
La battuta mi pare curiosa. Da quando esiste il marketing chi si occupi di storia della cultura non può non occuparsi anche di marketing, così come da quando esiste la censura non può non occuparsi anche di censura, ecc.
Leggo: “A chi avesse più familiarità con i libri e la letteratura che con Internet, basti sapere che ogni volta che apriamo la pagina di un amico su Facebook un elenco bene in vista accanto alla sua foto ci informa che a lui piacciono un certo tipo di scarpe da ginnastica, una certa bibita gassata o un certo modello di automobile”.
Non è vero. Non è vero che ciò accade “ogni volta”.
Un esempio di come appare la cosa quando accade è qui.
Un esempio di come si presenta lo stesso angolo della pagina quando la cosa non accade è qui.
Si potrebbe aggiungere che questo trucchetto è stato inserito in Facebook da non molto.
Leggo: “Se però grandi compagnie, dalla Coca-Cola alla Adidas, hanno investito milioni di dollari su Facebook questo nuovo modo di fare pubblicità deve essere efficace e redditizio”.
Il fatturato di Coca-cola è qualcosa di più di 30 miliardi di dollari (l’utile netto si aggira sui 5). L’investimento pubblicitario è attorno al 10% del fatturato, ossia qualcosa di più di 3 miliardi di dollari, ossia crica 3000 milioni di dollari (Wikipedia, varie voci sul tema).
Se, mettiamo, oggi Coca-cola investe 3 milioni di dollari in pubblicità (cioè un millesimo del suo investimento pubblicitario, un decimillessimo del suo fatturato) su Facebook, che cosa sta facendo esattamente? Sta scommettendo su un nuovo media? O sta tappando una nicchia? O sta facendo un esperimento?
Ciò detto, mi pare bizzarro credere che le grandi compagnie siano infallibili (“se lo fanno, deve essere efficace e redditizio”).
Leggo: “… la pubblicità di tipo tradizionale … usa uno schema ormai logoro, destinato a divenire minoritario… Lo schema vincente è invece quello su cui ha puntato Facebook,”
Queste sono previsioni del futuro.
Oggi, comunque, c’è Facebook. E domani chissà. “Teenagers aren’t thrilled about the changes on Facebook and 25% said they would be using Google+ more often” (esempio).
Grazie Riccardo. A me sembra che il modo di porre la questione sia, al contempo, assai intelligente e disvelante ma anche riduttivo. Forse un po’ troppo “francofortese” fuori tempo massimo, oltre che girardiano. E’ vero che i social network sono delle piattaforme nelle quali vengono riversati contenuti prevalentemente prodotti all’esterno. Milioni di bloggers condividono continuamente contenuti che vanno dai consigli per il trucco di adolescenti alle dissertazioni di filosofia, passando per i videogame, le foto porno e il citizen science.
La cornice della Rete rientra così in quell’insieme di trasformazioni che, dagli ultimi decenni del Novecento in poi, hanno messo i desideri e le pulsioni “a valore”, facendo del corpo e dell’inconscio la nuova enclave del capitale. Tuttavia, oltre che partecipare della “mass customization” , i social network sono anche un luogo della contraddizione e dello scambio simbolico. Un luogo nel quale le possibilità di circolazione delle informazioni, condivisione di progetti e produzione “dal basso” aumentano esponenzialmente. (Cfr. A. Delfanti a Cyberchiefs. Autonomy and Authority in Online Tribesdi Mathieu O’Neil – Pluto Press 2009). Michel Bauwens a esempio parla di “Peer-to-peer alternatives”: con riferimento ai modi in cui i servizi di condivisione peer-to-peer per film e musica hanno trasformato, spesso illegalmente, i mercati delle industrie culturali. Le alternative peer-to-peer non si limitano a una vita virtuale: “escono per le strade” come pratiche collettive di innovazione sociale, conquistando spazi pubblici, intessendo relazioni con il mondo dell’economia e della cultura in modo trasversale rispetto alle pratiche politiche tradizionali. In rete si condividono e verificano pulsioni, ricordi, visioni del mondo, sistemi simbolici e “commons”, beni comuni. Facebook insomma ha una sua natura dialettica e avrebbe di certo interessato la curiosità di Benjamin…
I commenti al mio articolo sono tutti molto interessanti e meritevoli di attenzione.
Letizia, Raffaele e Simone mi obiettano di aver frainteso il senso dell’esibizione di intimità via Facebook e di non aver capito che si tratta in realtà di messaggi depistanti, o reticenti, che nulla rivelano della natura più autentica di chi li produce (utile la citazione da Lagioia). Può darsi che sia così, e che mi sia lasciato suggestionare troppo dalla tesi di Bauman, che nell’articolo citato nella nota bibliografica finale parla di fenomeni analoghi a quelli di cui mi occupo io (non però di Facebook e dei social network) in termini, appunto, di esibizione dell’intimità. Può darsi (ed è sperabile) che sia come ipotizzano i miei commentatori, ma purtroppo mi è impossibile verificarlo: non sono un sociologo, e la mia competenza limitata di studioso di letteratura mi consentiva solo di cercare di comprendere il fenomeno mimetico tramite la teoria di uno studioso di letteratura (René Girard). Potrei però aggiungere (tanto per gettare benzina sul fuoco) che, almeno secondo Girard (o secondo una lettura radicalmente pessimista di Girard, che è quella che in questo momento mi sento di dare), il desiderio è sempre mimetico e non svela mai un’identità profonda, autentica, gelosamente riposta nella parte più intima di noi: la dialettica autenticità/inautenticità non esiste ed è un’invenzione romantica.
Emanuele, invece, mi fa notare che attraverso il web passa molta più cultura alternativa e non omologata di quanto comunemente si creda e afferma che “in rete si condividono e verificano pulsioni, ricordi, visioni del mondo, sistemi simbolici”. Vero. Ma dubito che ciò avvenga all’interno dei grandi social network (casomai in alcuni blog e siti internet) e certo ciò non è vero per la stragrande maggioranza degli utenti di FB, che di solito condividono desideri molto più prosaici di quelli ai quali credo pensi Zinato. La cosa interessante, però, è che le due obiezioni sono perfettamente antitetiche: in un caso la maschera (la mia teoria) non coinciderebbe con il volto, anzi lo coprirebbe del tutto nascondendolo; nell’altro non riuscirebbe ad aderirvi in modo perfetto, tradendone i lineamenti. La verità sta nel mezzo (cioè più o meno dove l’ho cercata io)? Non lo so. Si tratta, forse, di distinguere tra due modi diversi di usare i SN, uno (maggioritario) più appiattito sull’esistente e uno (minoritario) più creativo e più libero: nel primo modo il mimetismo è più facile da individuare, ed è per questo che nel mio saggio l’indagine si limita a questo; nel secondo, lo è molto meno, ma il contagio agisce ovviamente anche lì. A me premeva capire intanto le leggi di trasmissione del meccanismo virale: altri facciano pure le loro diagnosi.
Quanto al commento puntuale (puntiglioso?) di Giulio Mozzi non ho molto da dire. Ho trascurato certe technicalities perché l’articolo era pensato per i lettori di “Belfagor” (dove è uscito in una versione un po’ più lunga a settembre), ai quali dovevo dare un’idea molto approssimativa di alcune cose a loro (presumibilmente) del tutto ignote, ma non mi pare di aver detto cose false. Sull’importanza dell’investimento di aziende come Nike e Coca Cola su FB insistite molto l’articolo di “Time” da cui sono partito (relata refero), e mi sembra tuttora un segnale indicativo. Infine, per quanto appaia “curiosa” a Mozzi la distinzione tra cultura e marketing, be’, ho una notizia per lui: esiste ancora.
@Zinato
Che la distinzione tra cultura e marketing esista ancora, potrebbe essere una postulazione tutta interna alla (falsa?) coscienza dell’intellettuale come professionista. Già quarant’anni fa qualcuno sosteneva il contrario:
“Il piano Marshall è l’atto etimologico della nostra modernità. Il suo ruolo è fondamentale. Nell’immediato dopoguerra, esso ha innestato un’economia dell’abbondanza su un’economia della carenza e della miseria. Ed ha innestato il modello culturale americano in una società tradizionale, rurale. Quest’acculturazione radicale ha autorizzato un fenomeno radicalmente nuovo: l’immanenza dell’economico e del culturale. Laddove nella società tradizionale, i due termini si collocano alla più grande distanza possibile e conservano un’autonomia relativamente certa, la modernità sarà l’immanenza dei loro rapporti d’espressione. La cultura sarà espressione dei bisogni ideologici del mercato.”
(Michel Clouscard)
Pardon, l’ultimo commento era rivolto @Castellani
Riccardo, fare un’affermazione non vera su un dato di fatto non è “trascurare certe technicalities”. E’ fare un’affermazione non vera su un dato di fatto.
Quant’è, in dollari, l’investimento pubblicitario di Nike e CocaCola su FaceBook? Sarebbe interessante saperlo (per paragonarlo all’investimento pubbliciario su altri canali). Qualcuno ha idea di dove si possa trovare questo dato? L’altro giorno io l’ho cercato a lungo, ma non l’ho trovato.
Leggo: “Infine, per quanto appaia ‘curiosa’ a Mozzi la distinzione tra cultura e marketing, be’, ho una notizia per lui: esiste ancora”.
Ricopio dal precedente intervento la mia osservazione: “Da quando esiste il marketing chi si occupi di storia della cultura non può non occuparsi anche di marketing, così come da quando esiste la censura non può non occuparsi anche di censura, ecc.”.
Come ognuno può vedere, non ho sostenuto che non vi sia distinzione tra cultura e marketing (così come non ho sostenuto che non vi sia distinzione tra cultura e censura).
“secondo Girard (o secondo una lettura radicalmente pessimista di Girard, che è quella che in questo momento mi sento di dare), il desiderio è sempre mimetico e non svela mai un’identità profonda, autentica, gelosamente riposta nella parte più intima di noi: la dialettica autenticità/inautenticità non esiste ed è un’invenzione romantica.”
perfetta sensibilità alla zona oscura. e, in effetti, qual è l’area chiara, l’area del vero solare? ogni ‘limes’, oggi, è davvero sciolto.
Ho letto con molto interesse il saggio “Facebook, il romanzo e le forme del desiderio” e anche tutti i commenti di coloro che sono intervenuti sul blog. Per esprimere il mio pensiero sulla questione, vorrei partire dallo spunto datomi dagli interventi di Letizia e di Raffaele Donnarumma che, a mio avviso, solo apparentemente muovono delle obiezioni alla teoria di Castellana, ma rappresentano piuttosto la faccia opposta della stessa medaglia. E’ vero, su Facebook non si svela la propria intimità reale, ma una fittizia o quantomeno distorta. La prima impressione che si ha leggendo i commenti o guardando le foto degli adepti di Facebook non è forse quella che tutti conducano una vita straordinariamente piena, divertente e gioiosa? E dico straordinariamente non a caso: la vita che viene rappresentata su Facebook, nella stragrande maggioranza dei casi, non contempla fallimenti né tantomeno momenti negativi. Insomma, non è vera. Tutti sono (tacitamente, ma realmente) impegnati in una competizione destinata a dimostrare di essere soggetti vincenti, completamente inseriti nella società e da questa tenuti in gran conto. Ecco infatti che così si spiegano la gara a chi ha più “amicizie” (non importa se reali o meno, ciò che conta è solo la rincorsa al numero più alto rispetto a tutti gli altri), l’ansia a scaricare subito, appena tornati a casa, le foto che dimostrano che abbiamo passato una serata spettacolare, la migliore che si possa desiderare. Lo scopo di tutto questo è infatti stimolare il desiderio altrui, costituirsi come mediatori delle aspirazioni degli “amici”, dimostrare loro di essere migliori e superiori. Raccontare la propria vita come più affascinante e più desiderabile di quella degli altri dà al soggetto la convinzione (ma, si badi bene, è solo un’impressione) di essere l’unico detentore di un desiderio autentico, in un delirio di volontà di autoaffermazione e di sopraffazione dell’altro cui oggi più che mai questa società ci costringe. L’estrema competitività (che diventa quasi una lotta) cui ci spinge il mondo attuale potrebbe spiegare anche il perché della differenza che intercorre col “personaggio romanzesco tradizionale”, di cui si parla a p. 597 del saggio di Castellana, “che non metteva in piazza i propri desideri, ma li custodiva gelosamente nel timore che gli altri potessero contendergli l’oggetto anelato”. In una realtà in cui le differenze di classe sono quasi completamente abbattute, la lotta al più forte si fa più dura. Facebook non avrebbe il successo che ha se la società di oggi non fosse così impregnata di mimetismo, questa è la mia convinzione.
“Su Facebook non si svela la propria intimità reale, ma una fittizia o quantomeno distorta”. Questo sembra assodato.
Ma queste “intimità reali” sono comunque emanazioni della “intimità reale”. Arrivare a svelare quest’ultima è uno dei lavori tipici della critica.
Potremmo disinteressarci delle parte “massificata”, o “massificante”, o “automassificante” di questo gran lavoro collettivo di produzione (produrre = mettere davanti a qualcuno) di intimità. E provare a vedere come ciascuno metta in atto (se lo mette in atto) un proprio personale bricolage.
Se “la sfera pubblica si è ridotta al semplice spazio in cui le pulsioni private devono trovare sfogo”, potremmo domandarci cosa c’è di buono e di bene in questo.
lo avevo detto… http://www.repubblica.it/tecnologia/2013/01/22/news/facebook_provoca_infelicit-51060718/