cropped-Maurizio-Nannucci.jpgdi Andrea Afribo

[Ricomporre l’infranto è un gruppo di quattordici persone – studenti provenienti dai corsi di laurea in Lettere e Filologia Moderna dell’Università degli Studi di Padova più alcuni dottorandi. Il gruppo si costituisce nell’ottobre 2013 intorno alla volontà di organizzare un ciclo di seminari sul presente letterario italiano; parallelamente, il blog Ricomporre l’infranto si evolve da spazio funzionale al seminario stesso a piattaforma nella quale condividere il frutto del lavoro di ricerca che il gruppo si propone. Il seminario 2014 è stato dedicato per metà alla poesia, per metà alla prosa degli ultimi decenni. Tra gli studiosi intervenuti, Andrea Afribo].

L’argomento poesia contemporanea è molto ampio: il suo termine post è più o meno il Sessantotto, ovvero almeno quattro decenni di poesia, ovvero tutto ciò che resta fuori dal perimetro ormai stabilizzato da antologie classiche, tipo quella ristampatissima da Mondadori di Pier Vincenzo Mengaldo 1978, i cui estremi sono Raboni o Sanguineti ad esempio o Franco Loi, cioè poeti nati negli anni Trenta del Novecento, la cosiddetta quarta generazione.

Una sintesi è tanto più difficile quanto più questo periodo è dotato delle seguenti invarianti o quasi-invarianti storico-critiche tra loro correlate:

1) quella di essere l’inizio di una brutta storia non meritevole di essere studiata da chi ha studiato Montale e autori simili;

2) quella di essere l’inizio di una storia da più parti definita come epoca del gremito (tanti, troppi poeti; tante troppe case editrici),

e 3 – la peggio di tutte) quella di essere l’epoca del tutto e il contrario di tutto e così via. Io, facendo anni fa una piccola antologia, ho voluto reagire a questa empasse critica e un po’ ideologica, cercando di delineare una sorta di albero genealogico. Ma devo dire che comunque è un casino. Rimane un’epoca di coesistenza degli stili e di non-esistenza di uno o più stili così forti ed esclusivi da – uso belle parole di Hegel – da scaraventare al di fuori della cinta della storia gli altri stili.

La dico con altre parole: se è bastata – che so – una ventina d’anni per dire che il Novecento prima della Prima Guerra mondiale è l’epoca dei crepuscolari e dei vociani; direi che dopo più di vent’anni noi non possiamo dire con altrettanta sicurezza cosa sono stati in poesia gli anni Settanta o Ottanta. Possiamo senz’altro dire qualcosa ma non in modo così netto e preciso.

Ho detto che dal Sessantotto in poi comincia una storia nuova, ma una storia nuova, radicalmente innovativa, è già almeno un decennio prima – anni Sessanta circa. Epoca anche per l’Italia di trasformazioni traumatiche, di neomodernizzazione industriale, e così anche i migliori poeti che fanno libri negli anni Sessanta, si rinnovano e accettano la sfida della modernità, modernizzando il loro linguaggio, cambiando l’idea tradizionale di poesia.

Ecco allora che Vittorio Sereni in un saggio su Petrarca del 1974 diceva che il termine lirica è già da un po’ in disuso e motivo di imbarazzo e vergogna. Ma è già da oltre un decennio che nella prassi aveva messo in discussione il genere lirica. Oppure: nel 1961, anche Raboni prendeva atto in un suo saggio del mutato sentimento poetico di quegli anni, e concludeva che la poesia come canto e come «salvezza particolare», come codice a parte e privilegiato non esisteva più e se ancora esisteva era da bollare come provincialismo e «restaurazione». E concludeva: Sereni «non è più lì», «non è più lì Bertolucci».

Bene. L’antologia che più di tutte si focalizza sul mutamento degli anni Sessanta e delle sue teste di serie (Sereni, Caproni, Fortini, Giudici, il Luzi non più ermetico ecc.), cioè l’antologia di Enrico Testa si intitola – emblematicamente – Dopo la lirica.

Scorriamo per questo tre esempi forti e tra loro simili e diversi della svolta anni Sessanta.

Il primo esempio è il più estremo. Cioè Edoardo Sanguineti, cioè lo sperimentalismo massimo della cosiddetta Neoavanguardia. Il testo è già del 1951 ma è poi incluso nella antologia-manifesto della Neoavanguardia, titolo I Novissimi (poesie per gli anni ’60).

s.d. ma 1951 (unruhig) kai krinousin e socchiudo gli occhi
oi polloi e mi domanda (L): fai il giuoco delle luci?
Kai ta tes mousikes erga ah quale continuità! Andante K. 467
Qui è la bella regione (lago di Sompunt) e tu sei l’inverno Laszlo veramente
et j’y mis du raisonnement e non basta du pathétique e non basta
ancora kai ta ton poieton and CAPITAL LETTERS (da Laborintus, 1951-1960)

Plurilinguismo esasperato; pezzi di citazioni filosofiche e non poetiche fatte a pezzi; caos discorsivo. Nella prefazione all’antologia Alfredo Giuliani parla di schizomorfia e asintattismo come analoghi della scomposizione mentale e della schizofrenia dell’uomo al tempo del capitalismo avanzato. E io mi chiedo: poteva essere questa poesia più lontana di così dall’idea tradizionale di testo poetico? Direi di no.

Continua qui.

[Immagine: Maurizio Nannucci, The missing poem is the poem].

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