di Pier Vincenzo Mengaldo
[Questo saggio è uscito su «Strumenti critici», XXX, 1, gennaio-aprile 2015].
Io mi devo prima di tutto scusare coi lettori di questa rivista. Decifro a stento l’alfabeto cirillico e saprò al massimo una trentina di parole di russo. Come scusante posso addurre appena il fatto che per me la letteratura russa dell’Ottocento è la più grande e umana della modernità, o detto altrimenti quella in cui più mi sento, curiosamente se volete, a casa mia. E certo quella letteratura è la letteratura in cui più e meglio si fondono essere e dover essere, realismo e utopia. Del resto la presente ‘lettura’ non verte su fatti formali, ma esclusivamente sullo sviluppo tematico.*
La Felicità familiare è stata scritta e pubblicata da Tolstòj nel 1859, quando aveva 31 anni, ma già aveva alle spalle, per non dir altro, i grandi Racconti di Sebastopoli e anche il lavoro ai Cosacchi. L’opera è stata tradotta più volte in Italia, anche di recente, una delle prime dal poeta espressionista Clemente Rèbora: versione ristampata di recente da SE, ma che sconsiglio per la sua tensione linguistica alquanto procurata e il suo preziosismo espressionista, credo incompatibili con l’originale. Quanto ai critici che ho potuto vedere, tutti tendono a dare alla Felicità familiare poca importanza: così Mirskij nella sua grande Storia della letteratura russa, Bachtin, Nabokov, e Steiner nella sua monografia tolstoiana addirittura non ne parla; un’eccezione è Ejchenbaum, che ha dedicato alla Felicità familiare un saggio molto impegnato, ma anch’esso riduttivo. D’altronde lo stesso Tolstòj ne dava a caldo giudizi impietosi, “una porcheria” o usando un’ancor più vibrata metafora stercoraria, o più distesamente: “sembra un tale vergognoso errore che non riesco a riavermi dalla vergogna e mi sembra che non scriverò mai più” (e del resto a suo tempo lo scrittore giudicò la sublime Anna Karénina “quello schifo di romanzo”); d’altra parte sappiamo che l’opera ebbe scarso successo. Contro tante autorità convergenti io però mi permetto di affermare in avvio che la Felicità familiare a mio parere è un’opera molto notevole, probabilmente un capolavoro.
Intanto la sua struttura enunciativa e narrativa è del più grande interesse; e voglio dire subito che per le singole notazioni ha misteriosamente vari punti di contatto col diario, più tardo, di Sofija Bers, la moglie di Tolstòj. Accenno appena alla questione se La felicità familiare sia un romanzo breve, come viene generalmente considerato, o piuttosto un racconto lungo, a cui porterebbero la linearità e la mancanza di complessità della storia e il fatto che questa sia impostata su due soli personaggi, con un terzo puramente ausiliario e i pochi altri mere apparizioni; nonché la struttura a narrazione interna, e al femminile, su cui mi fermerò fra pochissimo. Ma forse la questione non è così rilevante, e comunque per risolverla bisognerebbe essere Lukács, la cui leggenda narra come qualmente spiegò a cinque colleghi russi in gara di scrittura che non si poteva ricavare un racconto, come loro avevano fatto, da un breve fatto di cronaca, ma solo un ‘aneddoto’ alla Kleist.
Molto più importa il fatto che siamo di fronte a un autore maschile ma con una narratrice interna donna. Fra i ‘classici’, o gli autori anteriori a Tolstòj, la cosa mi sembra piuttosto rara: posso citare (ma certo ognuno potrà integrare) la Vita dell’arcitruffatrice e vagabonda Coraggio di Grimmelshausen, e la Fanny Hill di Cleland (di cui si è occupata a fondo, da noi, Enrica Villari), questa certo dipendente da Moll Flanders e da Lady Roxana di Defoe, nel quale peraltro sono narratori interni anche Robinson e il Capitano Singleton. Lo schema mi pare più frequente dopo Tolstòj: così ad esempio più volte in Maupassant, anche in forma epistolare, o nel racconto Gli amici degli amici di James, o più volte in Carver, compreso il suo racconto più famoso, Di cosa parliamo quando parliamo d’amore, o ancora più vicino a noi Terraferma di Markus Werner (tradotto da Andreina Lavagetto per Einaudi). Verrebbe da citare anche Fräulein Else di Schnitzler, che però è un monologo e d’altra parte è circondata da molti racconti schnitzleriani con narratore interno maschile, La danzatrice greca, La fidanzata, Il mio amico Ypsilon, Il figlio ecc. Dalla mia parzialissima esemplificazione verrebbe da concludere che in età recente lo schema in questione, oltre a essere più frequente, abiti piuttosto in racconti che in romanzi, ma non insisto, e anzi mi chiedo se la questione sia stata o no studiata nell’assieme, come meriterebbe.
Questa struttura con personaggio-narratore al femminile ha comunque effetti notabili sul discorso e sul testo tolstojano.. Intanto ci si può chiedere se Tolstòj non l’abbia scelta, col suo andamento in ultima analisi diaristico, proprio per una conferma al femminile di quanto egli sosteneva in quegli anni in forma a sua volta diaristica, o epistolare (ci torneremo). E certo a questa conferma femminile o per via femminile delle teorie su amore e matrimonio Tolstòj doveva tenere molto, se ha rinunciato all’impatto pedagogico che poteva venire da un narratore onnisciente, identificabile con lui stesso. Ma ecco un’altra conseguenza importante: della protagonista narrante, e appunto perché è lei a narrare, sappiamo appena che viene considerata “bella”, ma niente del suo aspetto, neppure se è bionda o bruna, ci vien detto (e si noti che a un certo punto Maša sembra notare nel suo partner ”assoluta indifferenza e…in qualche modo disprezzo” per il suo “aspetto esteriore”). Ciò contribuisce senz’altro, mi pare, al forte processo di interiorizzazione che Tolstòj imprime al suo problema e al suo racconto, anzitutto attraverso la ‘voce’ femminile. E però — per toccare adesso appena un punto — la narrazione lineare, autoriflessiva e in un certo senso didattica del libro attenua ma non impedisce quelle variazioni espressive o circostanziali sui nome propri che sono caratteristiche della grande letteratura russa. Qui Maša è sempre chiamata così, con questo diminutivo familiare, dal protagonista maschile – e come è giusto perché la conosce e frequenta da quando era bambina –, fuorché col nome di battesimo più patronimico, Mar’ja Alexandrovna due sole volte di cui una a correggere il precedente ‘Maša’ in un momento di scherzo; Màše¢ka, vezzeggiativo del diminutivo, una volta, come opportuno, dalla governante, e una volta Marie da una cugina del bel mondo pietroburghese. Mi permetto di rimandare, sulla base dello stesso nome, alle Tre sorelle di Cechov, o ancor più a Guerra e pace, dove la principessina Mar’ja è chiamata più formalmente Marie ma anche più affettivamente Maša dal fratello principe Andréj nel commiato di questi per la guerra, e Maša dalla futura cognata Natàša solo e appunto nel momento in cui questa realizza che sono diventate veramente amiche.
Ho parlato di sviluppo lineare della storia, ma occorre precisare. La felicità familiare è divisa esplicitamente in due parti di durata quasi identica, ma costruite in modo che la prima si sviluppa a crescendo o climax, culminante nel finale (nel matrimonio), la seconda a decrescendo o anticlimax. E non solo, ma questo schema rovesciato ma progressivo è poi raccolto e complicato da uno schema ciclico, dato che la seconda parte vede il ritorno, e la conclusione, in quella campagna in cui si svolge il più della prima parte, la campagna in cui è sempre vissuta Maša prima del matrimonio, il che nei pressi della conclusione ‘pacificante’ scatena in lei sentimenti acuti e accorati. E come la prima parte è scandita da due splendidi ‘notturni’, il cui potere analogico e suggestivo è sottolineato da un lato dall’allusione all’imperativo kantiano (“il cielo stellato era come calato sopra di noi”), ma dall’altro dalla notazione erotica (edifici stradine e alberi sono “percorsi da fremiti”): così nel finale si delinea un altro notturno, anche qui col canto dell’usignolo ed altri ritorni. E come la prima volta che Serghèj Michàjlic la spinge a suonare, Maša suona la Sonata quasi una fantasia di Beethoven, così farà anche al suo ritorno in campagna.
Qualcosa ora su altri aspetti della tecnica narrativa di Tolstòj in questo libro. Intanto le prolessi. Per esempio. Prima della sua morte la madre di Maša “avrebbe voluto trasferirsi in città per presentarmi in società”, e poi la governante Katja pensa di condurla all’estero (e questo cenno ritorna altre due volte): cioè le due cose che più tardi Maša otterrà dal marito. Più avanti Sergèj Michàjlic, per illustrare la sua impossibilità di sposarsi emette l’ipotesi di farlo, “per un qualche caso sfortunato”, proprio con Maša, con la precisazione: “Non vi sto mica facendo una proposta” (il che, oltre al matrimonio successivo, più precisamente rimanda alla scena in cui egli discorre l’ipotesi che un A sposi un B ecc.: che vedremo); e ricordo anche la battuta della governante: “Sareste un marito perfetto”. Quanto alle vecchie parole scherzose del padre di Maša evocate da Sergèj Michàjlyc a un certo punto, “Sposa la mia Maša!”, si tratta evidentemente di una prolessi nella fabula, ma non nella storia. Come e ancor più dei Leitmotive di cui ora toccherò, queste prolessi segnalano lo sviluppo inarrestabile e quasi fatale della vicenda.
Si sa che i grandi russi, e io direi soprattutto Tolstòj stesso e Cechov, sono maestri nell’uso del Leitmotiv, consegnandolo al Novecento (in particolare a Th. Mann). Tralascio qui i casi minori, che comunque confermano la struttura del libro come una struttura, si direbbe in architettura, modulare: si vedano ad esempio l’abitudine di Serghèj Michàjlic di appoggiare la testa sulla mano o il suo ”selvaggio entusiasmo”; e segnalo senz’altro il motivo ricorrente principale, quello dello sguardo, che per il personaggio maschile è anche caratterizzato volentieri da aggettivi ricorrenti (soprattutto “attento”, se la traduzione non mente). I due personaggi, ma specialmente lui lei, si osservano, o qualche volta evitano di osservarsi, insistentemente e dal principio alla fine dell’opera. In altre parole, con vari sentimenti ma sempre si scrutano e si studiano. Ciò sembra essere, e lo è, in contrasto – voglio sottolineare subito questo punto — con la naturalezza e l’abbandono di una storia d’amore. Ma comunque in tutto Tolstòj prolessi e motivi ricorrenti hanno sempre un’enorme importanza: mi permetto di rinviare per rapidità e ovviamente ad Anna Karénina, col guardalinea morto sotto il treno che evidentemente annuncia la fine di Anna, e il sogno insistente in lei del mujik inquietante. Ma tornando a Maša e a Sergèj Michàjlyc, il fatto è che tutti e due – ma specialmente lui – scrutano nell’altro la diversità da sé: in lei un’aspirazione incondizionata e tutta soggettiva alla felicità (“Mi sembrava molto semplice e chiaro che si dovesse vivere per essere felici”, già all’inizio, ecc.); in lui quella a una vita affettivamente appagante ma tranquilla e tranquillamente inserita nell’amore per gli altri, evidentemente in contrasto fin dall’inizio l’una con l’altra. Più precisamente in lui il continuo guardare Maša è anche un’espressione della volontà maschile di controllo e di dominio: del resto le ultime parole della narratrice stessa alla fine della prima parte, dopo il matrimonio, suonano : “Sentii di essere tutta sua, e di essere felice del suo potere su di me”.
In generale siamo entro lo schema additato da una protofemminista come Simone de Beauvoir (Le deuxième sexe), secondo cui in amore l’uomo continua a esercitare la propria sovranità, mentre la donna aspira ad abbandonarsi; e, più significativamente, siamo vicini alle riflessioni del protagonista Mr. Knightey in Emma (1816) della Austen (certo noto a Tolstòj), la quale Austen pur a partire da una società peculiare fa testo in fatto di amori e matrimoni borghesi nell’’800: “…spesso era stata [Emma] negligente o riottosa, non tenendo conto del suo consiglio, o anche opponendovisi deliberatamente ecc., ma pure, per legame e abitudine di famiglia, e per la virtù del suo animo eletto, egli l’aveva amata, e aveva vigilato su di lei fin da quand’era ragazza, con uno sforzo per migliorarla, e un’ansia perché agisse bene, quali nessun altra persona aveva condiviso” (e analogamente in altri luoghi, mentre il personaggio di Knightley è tracciato in modo non dissimile da quello di Serghèj Michàjlyc per età, posizione, rifiuto iniziale del matrimonio — come del resto Emma stessa). E tornando al punto è una dialettica, diciamo così, che certo dipende dalla ‘tesi’ che Tolstòj sta illustrando, ma va ben oltre, facendo onore al suo acume psicologico. Dirà nella seconda parte il protagonista maschile: “Uno scontro di grandezza s’animo. Che altro può mai dare la felicità familiare?” (unico punto, se non erro, in cui compare l’espressione da cui il titolo). Altro cercheremo di vedere.
Ma frattanto va ricordato che dalla Felicità familiare alla Sonata a Kreutzer si dipana insistentemente quel tema dell’amore risolto o no nel matrimonio che, con un più o un meno di ideologia, è sempre stato fondamentale in Tolstòj, e capace di raccogliere entro di sé molti sottotemi. Basti pensare al finale di Guerra e pace – dove fra parentesi il grande realismo dello scrittore gli fa descrivere la dolce e snella Natàša come una donna ingrassata e un po’ trasandata – e naturalmente ad Anna Karénina, dove le due coppie protagoniste, Anna-Vrònskij e Kitty-Lévin, si oppongono precisamente sul punto del matrimonio e dintorni (ed è bene ricordare che la parte di Lévin è stata molto dilatata nell’elaborazione del romanzo. certo anche per ispessirla come contrapposto all’altra). I titolari di questi matrimoni felici, Pierre Bezúchov e Lévin — ma nel primo, secondo un’altra grande acutezza dello scrittore, con un residuo di inquietudine –, sono sempre stati considerati a ragione un po’ delle controfigure di Tolstòj stesso (Turgénev però definì Lévin un “egoista fino al midollo”). In entrambi i romanzi, come altrove, il tema del raggiunto matrimonio si intreccia poi con quello del romanzo di formazione. Il che vale molto meno per la Felicità familiare, che si svolge per Maša nello spazio ristretto di soli quattro anni di piena gioventù, ed ha comunque un andamento più segnatamente dimostrativo. Se si vuole un’etichetta, allora bisognerà dire che il nostro romanzo o racconto si pone all’incrocio fra idillio tormentato fino alla disillusione e romanzo pedagogico (Erziungsroman) o se si preferisce romanzo a tesi (“Io non posso scrivere senza un pensiero” annotava Tolstòj nel suo Diario nel ‘57). E a proposito dell’idillio viene proprio da rammentare le straordinarie parole di Marx: “Così la farfalla notturna, quando il sole universale è tramontato, vola verso la luce di lampada del privato”.
Gli anni che fanno capo al ’59 sono per Tolstòj anni di meditazione ossessiva sulla questione dell’amore e del matrimonio, come ci testimoniano il suo Diario e una serie di lettere, fra le quali ricordo in particolare quelle alla prozia Alexsandra Andréievna [Alexandrine] Tolstàja, su cui si esprimerà così: “Chi cerca la mia autobiografia legga [queste] lettere. Tutto ciò che è possibile esprimere con parole intorno alla propria anima, io l’ho confessato a quella donna”. Tolstòj vuole sposarsi a tutti i costi (nel Diario, il primo giorno del ’59: “Bisogna che mi sposi: quest’anno o mai più”), e fra parentesi lo spinge in tal senso anche Turgénev: ma ogni tentativo va, sintomaticamente, fallito, e comunque non si tratta di sposarsi necessariamente per amore, perché “l’amore consiste nel desiderio di dimenticarsi”, ed è comunque immaginario, un inganno; la vera felicità sta nel rendere il più possibile felici i propri contadini e in genere nel vivere per gli altri (lettera del maggio ‘59 ad Alexandrine; “bisogna vivere per gli altri se si vuole essere felici eternamente”) e nel contentarsi di un matrimonio tiepido (“il piacere d’un tranquillo amore”) senza “passi falsi” ecc. Il tutto non impedì però allora all’ardente Conte di coltivare fra l’altro una appassionata relazione con una contadina sposata. Tutti gli spunti citati o simili tornano nella Felicità familiare, in bocca però di Sergèj Michàjlic: da un lato la critica all’amore come concepito in genere in un celebre passo dell’opera “questo [l’amore] sarà sempre menzogna”, inganno e autoinganno ecc.; dall’altro la propria realizzazione vista in un matrimonio tranquillo e diciamo pure convenzionale e nella dedizione agli “altri”, prima di tutto i contadini o mujikì. E anche quest’ultimo motivo è curioso, o meglio già si rivela come un pensiero fisso del Conte, se si tiene conto che tre anni prima Tolstòj aveva tentato un’emancipazione dei propri contadini, che costoro avevano rifiutato per ottusità, malizia. tradizionalismo ecc., e il tutto era stato puntualmente e immediatamente registrato da lui nel racconto La giornata di un possidente (chiamato Nechljùdov come poi anche nel racconto Lucerna e in Resurrezione: il “possidente” è convinto: “devo dare il bene per essere felice” ecc.).
Tornando al tema dell’amore, Tolstòj si schiera dunque, e non solo in quel passo, contro Georges Sand e la pubblicistica russa ‘democratica’ di quel tempo che difendeva la parità di diritti fra uomo e donna, e si pone invece sulla scia di Proudhon e Michelet, entrambi allora accolti in Russia (e il secondo sarà citato, si può notare, in Padri e figli di Turgénev), secondo i quali la donna deve trovare il proprio compimento nel matrimonio come donna di casa, senza faux pas (‘falsi passi’), e il marito deve educare la moglie. Dunque l’amore deve sfociare obbligatoriamente nel matrimonio, e un matrimonio strettamente patriarcale. Che tutto questo poi avvenga ne La felicità familiare, è da vedere. Bisogna anche tener presente che lo scrittore più celebre in quegli anni in Russia era appunto Turgénev, con cui Tolstoj ha sempre avuto rapporti alterni. Tipica di Turgénev è la rappresentazione elegiaca o tragica dell’amore infelice e che non sfocia affatto nel matrimonio: fra le sue opere anteriori alla Felicità familiare si dovranno citare soprattutto a questo proposito il romanzo Un nido di nobili e il racconto Asja. Si potrà dunque accogliere, ma magari con un po’ di prudenza, la tesi secondo cui La felicità familiare è anche una risposta a Turgénev. Con un po’ di prudenza però, perché in queste e nelle successive opere (tra cui il magnifico racconto Primo amore) l’amore non sfocia nel matrimonio non per volontà dei singoli, ma a causa delle costrizioni sociali o del caso.
Ora, a favore di chi non ha letto il libro e scusandomi con chi l’ha letto, procederò a un suo riassunto sintetico, in cui interpolerò citazioni e considerazioni mie. Maša, orfana diciassettenne, riceve più volte la visita del suo tutore e vecchio amico del padre Sergèi Michàjlyc, e presto se ne innamora, individuando in questo la felicità personale a cui aspira, ma non senza comprendere le controindicazioni del caso, come – di fronte al rifiuto della civetteria da parte dell’uomo, l’adozione della “civetteria della semplicità” ma “in un’epoca in cui non potevo essere semplice” (fine sviluppo di come Tolstòj in un precedente racconto aveva più schematicamente distinto una civetteria intelligente e una stupida). E alla civetteria della semplicità di Maša tien preciso bordone la “simulazione di semplicità” di Sergèj Michàjlyc; qui si lega la coscienza da parte di lei di non poter procedere senza inganno, motivo che sarà ripreso, come già accennato, da lui. Mi fermo un attimo per osservare due cose: la prima è che a differenza di altre situazioni analoghe in genere e in Tolstoj stesso, l’incontro amoroso avviene senza corteggiamento, ma in forma fascinosamente sotterranea o subacquea. Il secondo rilievo è che la vicenda è scandita da begli intermezzi di natura, ora amichevole ora estranea agli uomini, due affascinanti notturni e una scena di raccolta delle ciliegie, che è anche sottilmente, pungentemente erotica. Certo queste scene hanno anzitutto il valore di accompagnamento o contrappunto, proprio in senso musicale, della vicenda amorosa o addirittura il valore di sue analogie; ma non è escluso che esse indichino anche un’opposizione natura/società che è certamente nelle corde del personaggio maschile: non per nulla è dentro la natura che Sergèj Michàjlyc una volta si abbandona e quasi si perde, fino a evocare in quell’unico caso, credendo di non essere udito anzitutto da lei, il nome di Maša. E quanto a lui stesso, noi capiamo che la sua delicata attrazione si trasforma pure in amore, ma egli sembra continuare il suo ruolo fin dall’inizio pedagogico e si difende dal sentimento sia dichiarando che l’amore è menzogna (come abbiamo visto) sia dicendosi, a 36 anni, troppo vecchio per il matrimonio (affermazione peraltro niente affatto strana nella Russia dell’Ottocento) e questo proprio facendo l’esempio immaginario di un suo matrimonio con Maša: l’unica vera felicità è per lui, tolstoianamente, vivere per gli altri. Naturalmente questa dichiarazione non va affatto presa alla lettera, neppure nel senso che gli anni di distacco sono 19, ma come copertura di un possibile impegno verso quella persona, complicata, romantica, inquieta e fervida, che può sfuggire alla sua pianificazione maschile della vita: insomma lui è un individuo formato e in certo senso immobile, lei è in formazione e mobile (e d’altra parte la narratrice stessa ci dice a un certo momento che lui conosce sì le sue fattezze, ma non la sua anima). S’arriva così alla scena madre. Sergèj Michàjlyc, rispondendo a una appassionata richiesta di lei, costruisce i seguenti aneddoti o exempla, continuamente rotti da franche richieste di lei (“Lui l’amava o no?” ecc.): A “vecchio e finito” ama B, giovane, ma se ne distacca “per paura che si potessero guastare i loro antichi rapporti di amicizia” (e dicendo questo “come con noncuranza, si mise a strofinarsi gli occhi con la mano per poi coprirli”, magnifico “dettaglio superfluo” in cui i grandi russi dell’800 erano specialisti); e poi ancora ”Voi siete giovane…io non lo sono. Giocate pure, solo non con me” ecc. e alla precisa richiesta di lei se l’amava non risponde, ma aggiunge: “era tutto finito, e si separarono…da amici”). Poi sempre su domanda di lei costruisce un secondo aneddoto, col “volto stravolto” e “guardandola dritta in viso” e poi “con un sorriso malato, penoso”: A è follemente innamorato di lei e glielo dice; ma lei “si limita a ridere. Per lei si era trattato di uno scherzo, mentre per lui era una questione di tutta una vita”; oppure: “lei ebbe pietà di lui” e accettò di sposarlo, ma fu un doppio inganno. A questo punto, mentre l’uomo è sconvolto, si inserisce non per chiedere ma per affermare Maša, “con voce bassa, interiore, che temeva potesse spezzarsi da un momento all’altro”:
“E la terza conclusione…e la terza conclusione era che egli non l’amava, e le aveva fatto del male, del male, e pensava di aver ragione ad andarsene, ed era anche fiero di qualcosa. Per voi, ma non per me, per voi era uno scherzo, io fin dal primo giorno vi ho amato, vi ho amato” ripetei, e alla parole ‘vi ho amato’ la mia voce involontariamente da quieta e interiore si trasformò in un grido selvaggio, che lasciò sbigottita me per prima. ……………….
“Questa è una brutta cosa!” quasi gridai, sentendo che le lacrime cattive che avevo trattenuto mi stavano soffocando. “Perché?” dissi, e mi alzai per allontanarmi da lui. Ma egli non mi lasciò andare. La sua testa era appoggiata sulle mie ginocchia, le sue labbra mi baciavano le mani che ancora tremavano, e le sue lacrime le inumidivano.
“Dio mio, se avessi saputo” disse.
“Perché? Perché?” continuavo a ripetere, ma nella mia anima c’era la felicità, una felicità che se n’è andata per sempre, e che non farà più ritorno.
(ed è da notare subito che la frase finale è una evidentissima prolessi di quanto si dirà nella II parte). Delle pagine che seguono a chiusura della I parte citerò solo una affermazione radicale di Maša, ben consona al suo carattere: “Perché fare dei ragionamenti!…Non serve mai”. Mi viene in mente l’uscita del grande pittore Degas quando, ospite di amici fervidamente illuministi che lo rimproveravano di corteggiare punti di vista irrazionalistici dicendogli in sostanza ‘ma allora, a cosa serve la ragione?’; replicò: ’la ragione serve per prendere l’omnibus’. Poco più avanti Maša spera e teme nello stesso tempo di diventare col matrimonio “estranea a se stessa”, e sente fredda e lontana la cerimonia, col suo formalismo tradizionale (“qualcosa di usuale stava avvenendo al di sopra di me”), il bacio matrimoniale le appare “estraneo al nostro sentimento”. Poi, tutto si scioglie felicemente.
La seconda parte del libro è dedicata allo sgretolarsi dell’amore fra i due. Dapprima i coniugi vivono in campagna, presso la madre di lui, ma Maša comincia ad annoiarsi e sente fino alla sofferenza il venir meno della pienezza della vita (cito qualche passo significativo: “cominciavo a sentirmi sola, cominciavo a sentire che la vita si ripeteva”, “il mio amore s’era fermato, e non cresceva più”, “Volevo che qualcosa si movesse, e non il quieto scorrere della vita”, “Non voglio giocare alla vita, voglio vivere”, “quieta, moderata tenerezza” che è un limite della tenerezza ecc.). È molto interessante che Maša colleghi il suo disagio all’azione del tempo: “E intanto il tempo scorreva”, “il tempo che passa attraverso di me” ecc.: ciò sembra confermare da un’angolatura speciale la tesi di Nabokov secondo cui, nel massimo poeta del tempo, “ciò che veramente affascina” il lettore è la sua capacità di “dotare la propria narrativa di valori temporali che corrispondono esattamente al nostro senso del tempo” – o: “È l’unico scrittore che io conosca il cui orologio è sincronizzato sugli innumerevoli orologi dei suoi lettori”. Da parte sua Lukács ha affermato del romanzo moderno in genere: “La maggiore discrepanza tra idea e realtà è introdotta dal tempo: dallo scorrere del tempo come durata ecc.”.
Comunque il marito comprende e i due si trasferiscono a Pietroburgo, dove Maša comincia a fare vita mondana, contenta del suo grande successo, di “essere il centro attorno al quale si muoveva ogni cosa”; ma è proprio qui che si scatena il primo vero scontro col marito, che detesta quella società (“quella sporcizia, nell’ozio, nello sfarzo di una società stupida”) e quei “falsi rapporti” che rovinano i loro rapporti veri; Maša realizza allora che egli esercita il potere d’un marito (v. sopra), che mai Sergèj l’ha guardata con tanta freddezza, e in una discussione fra i due egli afferma senz’altro: “tra noi due è tutto finito” (e lei: “Lo temevo e lo detestavo in quel momento”, “un vero abisso s’era spalancato tra noi” ecc.). Tra loro si stabiliscono tutt’al più “buoni rapporti amichevoli”, ma diversissimi da prima, e lei è come “rimasta da sola con se stessa”, è scomparso “l’influsso morale” di lui, che la “soffoca”, poi qualcosa si rompe del tutto: “in una parola, si trattava di mio marito e nulla più” e però il marito-pedagogo le appare come uno che “aveva sempre bisogno di starsene come un semidio su un piedistallo” e addirittura: “Il suo volto improvvisamente mi sembrò vecchio e sgradevole”. Poi durante una vacanza in Germania lei sfiora, solo sfiora, il famoso “passo falso”, ma ne è sconvolta. Per tre anni dura questa vita, “come se tra noi ci fosse un’offesa non perdonata”, e con lui che si rifiuta di darle tutto se stesso; nel frattempo nasce un bambino. In colpa, mentre è nato un secondo figlio, la moglie chiede a Sergèj di tornare in campagna, la propria vecchia campagna questa volta, che le scatena però “vecchie e dimenticate visioni giovanili”, le ricorda intensamente i sogni di fanciulla “che erano come dimenticati là dentro” (bellissimo, e ulteriore esplicitazione della forza assorbente e simbolica della natura o ambiente): ma “l’antica pienezza di vita” è lontana e il passato non può aver ritorno. Il tutto confluisce nel magnifico dialogo finale fra i due: lei continua a rivendicare la sua ricerca della felicità e il desiderio di “rimediare al passato”, anche se una voce interna le dice che “È finito, è finito il nostro amore d’un tempo”; lui lo ammette da parte sua, ma il suo è ormai un amore diverso, “È rimasto l’amore ma non quello”, perché “Ogni età ha il suo tipo d’amore” e “quel che è passato ormai non farà più ritorno, non tornerà mai più”, e “Non tenteremo di ripetere la vita” ecc. (anche qui, fra parentesi, appare di nuovo la nozione disgregatrice del tempo): e ora Maša sembra comprendere con chiarezza tutto ciò: mediata dall’apparizione gioiosa del bambino più piccolo, la riflessione finale della narratrice è questa:
Da quel giorno ebbe termine il mio romanzo con mio marito; il vecchio sentimento divenne un caro, irrecuperabile ricordo, e un nuovo sentimento d’amore per i figli e per il padre dei miei figli diede inizio ad un’altra vita, felice in modo ormai assolutamente differente, nella quale ancora io vivo nel momento presente…
Purtroppo questo racconto, e soprattutto questo finale, non mi sembra affatto di facile interpretazione. Il lettore avverte subito, credo, che si tratta di un’opera di eccezionale acutezza psicologica, che risplende soprattutto nei bellissimi dialoghi, che sono la sostanza del libro, fra Maša s Sergèj, quasi sempre tesi e per così dire dialettici. Tolstòj, come gli avviene spesso, scinde se stesso e per dirlo meglio già, scinde se stesso nel moralista autobiografico e nel libero e grandissimo artista. Azzardando un po’, si può dire che la cifra fondamentale ne è press’a poco questa. I due per lo più fanno, e soprattutto dicono, il contrario di ciò che in quel momento dovrebbero dire e fare. Quando qualcuno, in questo caso Maša che come visto spezza col suo intervento passionale le elucubrazioni di lui, distrugge tutto questo andamento, noi lo sentiamo come un benefico flusso d’aria. La costante accennata è viceversa rappresentata tipicamente dalla citata contro-dichiarazione di Sergèj.
A mio parere quanto accennato vale però ancor di più per la stessa Maša. E questo, specie da un certo punto in poi, per una buona ragione: che la ragazza aspira ad essere pienamente se stessa correndo incontro alla vita, ma nello stesso tempo ad essere come lui la vuole, ciò che più avanti sentirà come perdita della libertà. Ho già accennato che il termine di “inganno” compare spesso nelle sue riflessioni. In parte almeno, dunque, il punto di vista, o meglio la modalità dell’incontro amoroso può essere quello della verità ma è anche quello dell’inganno dell’altro e dell’autoinganno. Si può girare al caso quello che Tolstòj aveva scritto due anni prima nel raccolto Lucerna: ”ogni pensiero è al contempo mendace e giusto. Mendace per l’unilateralità, per l’impossibilità dell’uomo di abbracciare tutta la verità, e giusto in quanto espressione di un aspetto delle aspirazioni dell’uomo”. Maša è la vera protagonista della Felicità familiare, perché mentre la fisionomia degli altri è affidata al dialogato e alla percezione di lei, lei presenta se stessa anche attraverso la serie, continua e finissima, delle sue riflessioni e autoanalisi, che svariano fra impeto e slanci e ritorni su di sé, autoaccuse, incertezze. A differenza del protagonista maschile, che se non vedo male si apparenta ai più dei personaggi maschili tolstoiani, Maša mi appare senza vere parenti nel mondo femminile di Tolstòj, straordinario creatore di eterni personaggi femminili, e questo anche perché — lo anticipo – è felicemente scappato di mano all’onnipotente scrittore. E siccome la lettera non mente, farò osservare che in tutta l’opera, e insistentemente, c’è uno stigma stilistico – e psicologico-emotivo — che la caratterizza appieno, ed è la continua, affannosa, appassionata interrogazione “Perché….?”, che lei stessa in un passo definisce “la terribile domanda”, o simili – un caso l’abbiamo visto ( e in una pagina si susseguono cinque “È possibile che…?”). È qualcosa che si colloca, psicologicamente, tra l’ignoranza dei meccanismi triti della vita e la volontà di attaccarli in nome della propria verità e volontà di una vita altra. Tendendo un po’ la corda si potrebbe dire che anche in forza di questo continuo interrogare Maša si protende già verso personaggi femminili di tipo cechoviano.
Ho nominato Cechov. C’è un suo racconto lungo, uno dei più grandi racconti che siano mai stati scritti, intitolato Tre anni, il quale ha indubbi punti di contatto con la Felicità familiare e le può essere utilmente confrontato. Diciamo anzi, proprio perché il racconto del laico e disincantato e amaro Cechov è una specie di controcanto del libro di Tolstòj, proprio per questo ne può esserne l’interpretante. Naturalmente Tre anni ha un diversa impostazione, fin dall’inizio asimmetrica. Provo a riassumere velocemente, e limitandomi ai due protagonisti (il racconto è molto più vario e ricco). Un agiato e maturo commerciante, Làptjev (press’a poco dell’età di Sergèj Michàjlyc) si innamora di una giovinetta, Júlija, che lo sposa senza amarlo, per non offenderlo, per fuggire dalla vita col padre e dalla provincia, e per altre ragioni poco chiare a lei stessa, e alla quale egli chiede invano un po’ d’amore. Passano gli anni (tre), Júlija a Mosca fa vita mondana – ma senza alcun passo falso, è onestissima — , ai due muore anche un figlio piccolo: Làptjev via via si incupisce e alla fine, mentre lei comincia ad amarlo e glielo dichiara, lui è ormai estraneo all’amore e aspetta solo che il tempo passi nel trantran quotidiano (“Chi vivrà vedrà”). Dunque qui, a differenza che in Tolstòj, la sistemazione finale in una vita familiare senza strappi residua però amaramente un duplice scacco: l’invecchiamento interiore dell’uomo e, con triste simmetria rovesciata, l’amore conquistato da Júlija ma ora non più corrisposto. La situazione non è il prodotto di una costruzione in qualche modo consapevole ma, ben cechovianamente, dei disguidi e dell’insensatezza della vita. E l’amarezza dei due è chiaramente sottolineata (con molta finezza per entrambi): quel tipo di vita familiare senza amore non sta bene né all’uno né all’altra.
Forse il racconto cecoviano ci aiuterà a capire il finale della Felicità familiare, che ne è a mio avviso il punto più problematico.
Una prima interpretazione consiste nell’accettare senz’altro la lettera di Tolstòj, con l’appoggio dei documenti che ho richiamato all’inizio. Come sempre il grandissimo narratore si comporta qui da scrittore ideologico e anche a tesi, e ci dice o inculca che maturità e rinuncia sono tutto, che la felicità se non la pienezza consiste nel tranquillo superamento di quanto l’amore a due ha di egoistico e diciamo pure di non-realistico, a favore di quel vivere per gli altri in cui sta la autentica realizzazione di sé, e che poggia anzitutto sulla famiglia; l’abbassamento delle temperature affettive non è uno scacco, ma la condizione necessaria dell’equilibrio e della socialità. La costruzione ciclica dell’opera, col finale in cui Maša ritorna nei luoghi dell’infanzia e della giovinezza, potrebbe magari confermare questo punto di vista.
Ma io devo confessare che non mi accontento di una simile lettura, o non di essa da sola. Tralascio di soffermarmi sui puntini sospensivi finali (ma ricordo che ugualmente termina, in modo molto significativo, la parte narrativa di Guerra e pace): ovviamente questo segno può certo significare in primo luogo ‘e così in seguito secondo queste parole’, e perciò ‘non c’è altro da dire’, ma anche ‘ci sarebbero da dire cose diverse che non dico’. Veniamo ad aspetti più sostanziali.
La mia precisa impressione è che nella Felicità familiare avvenga ciò che è stato osservato in generale o più di una volta per Tolstòj, vale a dire che in lui coabitino due scrittori, uno scrittore moralista e uno scrittore-scrittore e che sia quest’ultimo, fortunatamente, ad avere così spesso la meglio. È vero che Tolstòj ha cercato di costruire il personaggio di Maša in modo che rispondesse a quel finale e alla sua tesi – lo si vede in particolare nell’episodio della sua attrazione giovanile per la vita di società, al marito indigesta –, ma è anche e soprattutto vero che il personaggio, diciamo così, gli è scappato di mano guadagnandosi un’autonomia indipendente dalle intenzioni del suo creatore: ed è fra l’altro quello che è avvenuto in grande con Anna Karénina, che nelle redazioni precedenti alla finale del romanzo somiglia piuttosto a Emma Bovary, per diventare poi quello che è, il massimo personaggio femminile della letteratura occidentale. È anche questo un aspetto di quella che è stata ben definita la “democrazia narrativa” di Tolstòj. D’altronde lui stesso confessò più tardi a sua figlia Tatjana: “Il dramma dello scrittore è che il personaggio, una volta creato, comincia a vivere la sua vita indipendentemente dalla volontà dell’autore. E questi non può dar altro che seguire le decisioni del personaggio. Ecco perché la mia Katjuša [di Resurrezione] e la Tatiana di Puškin agiscono a loro modo e non come vorrebbero i loro creatori”. E quanto a mutamenti in itinere in generale credo che basti ricordare quello del Flauto magico.
Torniamo dunque al personaggio di Maša, tipico “individuo problematico” (ancora Lukács) della narrativa moderna e che, con la formula dello stesso critico, ha perso la totalità e tuttavia ha l’anelito forte ad essa; e ricordiamo sempre che noi vediamo tutto e solo quello che ricorda e vede lei: in particolare che il personaggio di Sergèj – va ripetuto — è modellato da lei. Maša non è solo un personaggio che subisce delusioni, è anche un personaggio che combatte. Abbiamo visto la sua inquietudine, la sua vitalità, la sua ricerca impavida della felicità ( “Mi sembrava molto semplice e chiaro che si dovesse vivere per essere felici…”, e più avanti, sottilmente, si parla del suo timore di “una forma definita”). Ma ancor più essa sottolinea spesso di sé la ricerca della libertà (che il tempo erode) e la sua forza, il suo orrore per la tranquillità: “desiderio di provare su lui la mia forza”, “avevo bisogno della lotta”, “Volevo che qualcosa si muovesse, e non il quieto scorrere della vita…In me c’era come un eccesso di forza…”, “Non voglio la calma, ce n’è già abbastanza in te”. Ed è significativo, almeno sino al finale, che la donna non mostri un vero interesse per i figli. Dunque questa donna, con la sua energia spirituale e sentimentale (cfr. ancora: “lui sfuggiva le parole semplici e dirette, mentre io le cercavo”), è fatta apposta per sabotare quel finale,o per dirla più semplicemente, Tolstòj ha costruito un grande personaggio a cui non si addice quella soluzione narrativa. Che del resto sembra un po’ placcata su quanto precede: per accennare solo a questo, fino alla pagina precedente Tolstòj ci aveva raccontato di come il ritorno a casa aveva acuito l’infelicità di Maša. Dunque è difficile leggere la sua come una felice evoluzione individuale verso una diversa, meno egoistica felicità, ma come una sconfitta, e la sua nuova ‘felicità’ come un’auto-illusione. E Tolstòj il narratore ha scatenato – o ha lasciato scatenarsi – un magnifico personaggio, pieno di energia intima, ma alla fine il Tolstòj ideologo gli ha messo la mordacchia. Certamente noi possiamo vedere o ipotizzare meglio tutto ciò, sentendo quindi che nel paragrafo finale della Felicità familiare c’è qualcosa che non è giusto, perché veniamo dopo un secolo e mezzo in cui molto è cresciuto il valore che assegniamo all’autorealizzazione individuale, e in particolare a quella delle donne. Abbiamo diritto di sovrapporre ciò che sentiamo a quello che sentiva Tolstòj (il che peraltro fa parte di ogni interpretazione)? O invece possiamo dire semplicemente che forse non tanto di “interpretazione”, più o meno abusiva, si tratta, quanto di critica dell’ideologia tolstoiana.
* Citerò da Lev Tolstòj, Romanzi brevi, a c. di I. Sibaldi, Milano, Mondadori1992 [dove peraltro il titolo è, come altrove, “La felicità domestica”], pp. 3-105.
[Immagine: Lev Tolstòj]
Sottoporrei ai lettori (e all’autore) un quesito, derivante dalla lettura di questo acutissimo saggio: è possibile ipotizzare un rapporto proporzionale diretto fra grado di autonomia dell’eroe dall’ideologia dell’ autore e valore dell’opera? Se ne ricaverebbe, in tal modo, un criterio estensibile e praticabile per quella cruciale e spesso poco affrontata questione della critica che riguarda i criteri inerenti il giudizio di valore: se, per utilizzare le stesse parole di Tolstoj, “il personaggio, una volta creato, comincia a vivere la sua vita indipendentemente dalla volontà dell’autore” potrebbe significare che l’opera ha raggiunto un alto livello di formalizzazione estetica e rinvia all’universale.
Che sia valevole oltre che possibile credo trovi conferma nella verifica di come la sostanza dialettica che il riconoscimento di quel rapporto individua aiuti a guardare lo spazio aperto nel ‘romanzo’ tra l’impossibilità di «scrivere senza un pensiero» e il «processo di interiorizzazione» impresso da Tolstoj al modo di un principio ermeneutico. La ‘felicità’ domestica risulta, in entrambe le parti del ‘romanzo’, da un equilibrio momentaneo tra illusione/realtà, da una tensione tra un’idea e la sua incarnazione particolare, attraverso una, appunto, ‘processualità’ che è omologa a quella della scrittura. La narrazione è una messa in forma che ‘dice’ e ‘sente’, come mostra la presenza di «stigmi stilistici – e psicologici-emotivi» rilevati dal saggio, e che, quindi, come la ‘felicità’ finale si rivela una costruzione posteriore. A me pare insomma che le potenzialità ‘paradigmatiche’ di quel «rapporto proporzionale» risiedano paradossalmente nell’instabilità della componente ideologica altresì innervata dall’esperienza emozionale che fonda le strutture percettive e quindi narrative di un autore.
“E Tolstòj il narratore ha scatenato – o ha lasciato scatenarsi – un magnifico personaggio, pieno di energia intima, ma alla fine il Tolstòj ideologo gli ha messo la mordacchia.(Mengaldo)
Noi oggi tifiamo troppo facilmente per il narratore e non per l’ideologo, ma senza il secondo che ossa si sarebbe potuto fare il primo?
Io penso sempre alla colomba e al vento dell’esempio kantiano…
Nella proposta di Emanuele Zinato sento qualcosa di Francesco Orlando. Se prendo una cantonata me ne scuso, eppure mi chiedo se la sua domanda si potrebbe anche tradurre come: il personaggio, represso dall’ideologia esplicita dell’autore, torna quale voce a lungo messa in sordina, esprime ciò che l’autore non potrebbe dire in prima persona? Insomma, questa autonomia dell’eroe potrebbe svolgere un ruolo di “delega”, professando ciò cui l’autore non osa dichiaratamente credere? E, rilancio la domanda di Zinato perché non saprei bene rispondere, sta qui il “valore universale” dell’opera, o non è piuttosto un meccanismo molto particolare di alcuni autori e alcune opere (mi vengono in mente, per fare un po’ di name dropping, Tasso, Racine, Tolstoj appunto, e tanti altri), storicizzabile?
Se penso alla letteratura contemporanea, infatti, vedo molti autori fin troppo ingombranti, e pochi personaggi compiuti (basta pensare al “personaggio-uomo” di Debenedetti, così fragile e restio a camminare sulle sue gambe, e alle figurine di tanti anti-romanzi, Robbe-Grillet, per dire): di rado si staccano con nettezza da una qualche ideologia dell’autore. Nel panorama più recente, trovo pochi contrasti interpretabili in chiave di represso e liberazione “nei personaggi”. Addirittura, a volte l’ideologia di un autore fisicamente in scena è l’attore protagonista, e l’unica materia o quasi del libro, e lì i giochi si compiono fra le varie rifrazioni di autore reale, autore “implicito” e autore che si fa personaggio: possiamo interpretare il valore di queste opere pensando in termini di rapporto diretto fra grado di autonomia e valore intrinseco?
direi che è possibile, ma non auspicabile. a parte che non esistono criteri accettabili a priori per giudicare un’opera, conta comunque cosa c’è scritto dentro. Inoltre chissenefrega se un personaggio aderisce o meno all’ideologia dell’autore, e chissenefrega dell’ideologia dell’autore. non è questo che rende più o meno bella un’opera. poi quesa fissa del valore universale è piuttosto curiosa e particolare, dato che parliamo di opere sconosciute al 99,99% degli umanità che abbia calpestato e che calpesterà eccetera eccetera
Sarà banale dirlo ma se uno fa lo scrittore è perché pensa di avere qualcosa di interessante da dire quindi eliminare del tutto l’ideologo non si può (il che non vuol dire essere d’accordo con tutte le sue opinioni).
In questo Tolstoj è più onesto di tanti altri in quanto non ha certo paura di uscire dal racconto pur di dire la sua (vedi il finale di “Guerra e pace”).
Trovo azzeccata la metafora della sfida sempre aperta fra il Tolstoj narratore e il Tolstoj ideologo, un’altra distinzione secondo me andrebbe fatta fra la sua pars destruens e la pars costruens. La prima mostra un grande critico della società e un grande psicologo (certe pagine potrebbe averle scritte Freud), la seconda non riesce a stare al passo alla complessità di analisi della prima proponendo soluzioni semplicistiche (il sacrificio di sè, l’annullamento dell’io eccetera).
Ennio Abate e DFW vs RB hanno opinioni opposte: la colomba della Critica della ragion pura, mentre nel volo fende l’aria di cui sente la resistenza e sogna di fare a meno dell’aria stessa per essere più libera , è nel discorso di Abate emblema della pretesa di autonomia dell’arte. Che invece non può fare a meno della pesantezza del mondo sensibile, conflitti e strutture ideologiche comprese: e sono d’accordo con lui, a patto di considerare che rispetto a quei conflitti, l’opera, che ne è intimamente attraversata, si colloca sempre in modo sghembo o ambiguo. DFW vs RB invece trova al contrario inessenziale per la riuscita del romanzo il contrasto fra idee del personaggio e idee autoriali (“chissenefrega” dice). A far “bello” un romanzo per me è anche il modo in cui avvertiamo prossimità e identificazione problematica con personaggi usciti dalla mente e dalla penna di autori lontani da noi: inevitabimente dunque lontani e discordi rispetto al sistema delle idee d’autore, debitore del suo tempo. Commentando un testo di Mengaldo, nel cui discorso critico (le magistrali “Tradizioni del Novecento” a esempio) tanta parte hanno oltre a Contini e a Folena, Lukacs e Adorno, mi è sfuggito a tale proposito un “universale”: non direi che si tratti di una ‘fissa’ quanto piuttosto di un modo di dar voce a un bisogno o domanda che il lettore può rivolgere a un ‘opera: di oltrepassare appunto la sua singolarità e il suo tempo. Di veicolare un senso oltre la sua particolarità. E’ quello che, secondo Orlando (certo che c’entra, Lorenzo Marchese!) accade, a esempio, nel Gattopardo di Lampedusa: la periferica Sicilia e la decadenza dell’aristocrazia rimpiazzata dalla nuova classe dei Sedara, valgono in senso figurale (dunque potenzialmente universale) per ogni altra periferia rispetto a un centro, nelle dinamiche della modernità, e per ogni altra ascesa di classe.
Infine: la domanda cruciale di Marchese che si potrebbe anche leggere così: quali narratori nel panorama contemporaneo come il narratore di Tolstòj analizzato e interpretato da Mengaldo, lasciano scatenarsi, oltre la “mordicchia”, “personaggi, pieni di energia intima”?
Sapendo di nominare un autore attuale che credo non caro a Mengaldo, porterei l’esempio di Littel , Le benevole. Maximilian Aue da dirigente di fabbrica narra la sua storia di carnefice nazista senza rimorso. In “Elisabeth” di Sortino, come ha scritto qui su LPLC Simonetti, Josef Fritz, il padre autriaco carnefice, diventa enigmatico e ambiguo grazie alla forza visionaria della scrittura. Infine, David Lurie, in Vergogna di Coetzee produce indiscutibile, e ambigua identificazione. Questi tre personaggi conferiscono (variabile, discutibile) valore a quelle tre opere anche perché scardinano la gabbia dell’ideologia.
Diceva una critica letteraria oggi dimenticata, Caterina Caselli, che “la verità ti fa male, lo sai”. Chiosandola, aggiungo che ti fa ancora più male la verità degli altri; però per incontrarla bisogna aver voglia di uscire di casa…
@ DFW vs RB:
non sono del tutto d’accordo con una visione così ristretta della letteratura e dell’arte, secondo cui ciò che dà valore alle opere non è il criterio vero-falso o buono-cattivo ma solo quello bello-brutto. Ci sono opere letterarie che espongono grandi verità in campo scientifico o sociale o illuminano in campo morale e politico. D’altra parte un’opera letteraria è sempre qualcosa di più di un’esposizione di verità o di visioni morali o politiche (altrimenti sarebbero opere interessanti solo per scienziati, filosofi o storici): il De rerum natura di Lucrezio o la Commedia di Dante sono due esempi di opere che non sono soltanto semplici “enciclopedie” dell’epoca perché avrebbero molto meno valore artistico se non esponessero quelle verità scientifiche e morali con quelle forme letterarie (stili linguistici, invenzione di immagini e narrazioni…) e per questo ancora oggi sono ritenute di valore dai critici anche se non si condivide nè la visione epicurea antica né quella cristiana medievale (poi si potrebbe anche affermare che si può attualizzare il contenuto di verità e di valori morali con la contestualizzazione mostrando che anche nella nostra società di oggi, certe verità e valori esposti da Lucrezio e Dante sono in parte ancora validi, anche se non si è in una società né epicurea né cristiana ma bisognerebbe fare un lungo discorso a parte).
Ma, visto che un po’ l’ho letto, le tesi e i ragionamenti di Coetzee sono interessanti, ma è poi il modo in cui scrive e mette in scena queste idee che fa la differenza. Se non fosse così bravo le sue rimarrebbero opere meritevoli solo dal punto di vista etico-filosofico, che però sarebbero brutte dal punto di vista letterario. In Vergogna ciò che strazia sono gli eventi e ciò che destabilizza sono le scelte della figlia del protagonista, ma bisogna sempre vedere come sono raccontate. Nel suo ultimo pone in campo un’altra idea che tra l’altro si potrebbe collegare al discorso sulle utopie fatto da Marchese, e molto più interessante di quella di Houellebecq, che di intellettuale non ha nulla da dire. Chiaro che se prendi due grandi scrittori e non so quant’è bravo Sciortino, è piuttosto facile giungere a certe conclusioni.
@ Michele
si, io ho scritto un po’ semplicisticamente: chiaro che più un’opera è piena di complessità di visioni sul mondo, più ci saranno opportunità per l’autore (o l’autrice), sempre però che regga loro la penna. Io sono partito dall’ipotesi di Zinato, credo prendendolo troppo alla lettera (però è stato lui a introdurre rapporti proporzionali diretti: come ribattevo a Gerace l’altra volta, non capisco perché usare metafore di altre materie), che di per sé non può reggere. Al limite può essere un indizio.
Da Latte Nero di Elif Shafak:
Per settant’anni la mia opinione sulle donne non ha fatto che peggiorare, e peggiora ancora. La questione femminile! Certo che c’è una questione femminile! Solo che non riguarda come le donne debbano prendere il controllo della vita, ma come possano smettere di rovinarla.
Tolstoj il misogino
Lo scopo della vita non dovrebbe essere trovare la gioia nel matrimonio, bensì portare più amore e verità nel mondo. Ci sposiamo per aiutarci reciprocamente in questo compito.
Tolstoj il femminista
Provo una grande tenerezza per lei ( la figlia Maša ). Solo per lei. Lei compensa gli altri, potrei dire.
Ancora Tolstoj
Cerco di ragionare un po’ suo primo intervento di Zinato. Non so se la forcella da lui estratta (e un po’ usata anche da me) possa valere come criterio generale di interpretazione della letteratura (forse è bene che i criteri siano molti): però può valere per la narrativa dell’Ottocento che ha questo di proprio tra l’altro, di essere insieme ‘realistica’ (non so deve temere di usare questa parola) e fortemente ideologica, con rarissime eccezioni su questo punto (la più grande è certo Cechov). Senza spingermi a vedere se ci sia un rapporto fra questa forcella e quella inconscio/conscio, osservo però che come in Tolstoj – e a sua stessa ammissione – può avvenire benissimo che le ragioni del realismo (ad es. nella costruzione dei personaggi) perforino e superino quelle dell’ideologia. In ogni caso è una dialettica molto interessante di cui è bene rendersi conto tutte le volte – molte! – che si presenta. Certo il pericolo è sempre che l’interprete o il lettore sostituiscano la propria esperienza – e ideologia! – a quella dell’autore, ma questa azione, che comunque fa parte di quell”attualizzare’ che è insito in ogni ‘interpretazione’, se praticata con cautela non è certo inutile.
Per dire, anche Ana, la protagonista di 50 sfumature di grigio, si comporta fino alla fine contrariamente alla sua etica, e probabilmente anche a quella dell’autrice, salvo alla fine fuggire e corrispondere (forse) ai desideri delle lettrici (e dei lettori). Però questo è interessante per farci una discussione su tante cose, ma non ci dice molto di quanto valga l’opera.
Spero di non aver duplicato il commento
@Emanuele Zinato e tutti
Sul bisogno di oltrepassare la singolarità, e su tutta la prima parte del discorso, non posso che concordare. Sulla seconda, e sugli assunti di partenza, mi trovo più vicino all’approccio storicista di Mengaldo: il Suo discorso funziona con la narrativa dell’Ottocento, così “realistica” e fortemente ideologica, pur con tutte le sue contraddizioni (credo si potrebbe problematizzare proprio in rapporto all’ideologia il concetto di “onniscienza” del narratore sugli eventi, che nasce in questo secolo), e soprattutto con certi narratori che dell’onniscienza e di una certa ambigua pressione ideologica hanno fatto i loro cavalli di battaglia. Tolstoj, Flaubert, Maupassant, Zola, pur con approcci diversissimi … Per un esempio italiano, pensiamo a Svevo con “Una vita”, con quel narratore onnisciente un po’ saputo che si diverte a contraddire il suo inetto Alfonso Nitti.
Dall’altro lato, concordo con Dfw vs RB (lieto che il mio discorso sull’utopia sia interessato, a proposito), quando ha detto che è il modo in cui si scrivono e articolano le vicende e i pensieri dei personaggi a fare la differenza.
Per questo, non so se la domanda nel commento del 17 marzo (h 11:44) che ci pone rispecchia pienamente il mio pensiero. La domanda era:
quali narratori nel panorama contemporaneo come il narratore di Tolstòj analizzato e interpretato da Mengaldo, lasciano scatenarsi, oltre la “mordicchia”, “personaggi, pieni di energia intima”?
Sapendo di nominare un autore attuale che credo non caro a Mengaldo, porterei l’esempio di Littel , Le benevole. Maximilian Aue da dirigente di fabbrica narra la sua storia di carnefice nazista senza rimorso. In “Elisabeth” di Sortino, come ha scritto qui su LPLC Simonetti, Josef Fritz, il padre autriaco carnefice, diventa enigmatico e ambiguo grazie alla forza visionaria della scrittura. Infine, David Lurie, in Vergogna di Coetzee produce indiscutibile, e ambigua identificazione.
Ecco, mi sembrano casi esemplari. Proprio per questo, li problematizzerei. Concordo su Coetzee, ma già Littell pone dei problemi. Aue non è proprio un carnefice senza rimorso: in realtà, la sua psiche oscilla parecchio fra sensi di colpa e radicata adesione al culto della razza, non mancano, soprattutto nel finale, i momenti di vero e proprio pentimento, siamo sempre portati a ricondurre il suo nazismo a una radice psichica di tensioni incestuose e pura, nevrotica ansia di dominio e razionalizzazione. Se è vero, come molti critici hanno notato, che Aue pecca per eccesso di complessità e capacità speculativa, ciò avviene perché, Littell l’ha dichiarato più volte, il protagonista è un alter ego dell’autore. Aue insomma è ciò che Littell, calato in un contesto storico-culturale (e familiare) sfavorevole, avrebbe potuto diventare. Certo, Littell non è nazista, anzi è pacifista convinto e scrittore d’inchiesta molto efficace: èerò i lettori l’hanno capito appieno solo dopo la pubblicazione delle Bienveillantes, con i lavori su Siria e Cecenia, e prima erano confusi dalla voluta ambiguità morale con cui il romanzo è stato presentato. E la divaricazione fra ideologia dell’autore e personaggio, per come è stata impostata nel Suo commento d’apertura, non so quanto valga per Littell.
Per Sortino, su scala minore, direi quasi lo stesso: non c’è un’ideologia precostituita forte dell’autore, se non quella, dato un orizzonte d’aspettativa per cui noi tutti siamo portati a scandalizzarci di fronte all’incesto e al sequestro di persona, di un basilare, implicito senso comune. Ma a parte ciò, Sortino scompare dalle sue pagine, parla nei suoi personaggi, nelle ipotesi spesso azzardate che ne trae: il suo narratore cerca di decifrare attraverso la tensione delle analogie e di una specie di speculazione metafisica laica il caso Fritzl.
èerò > però