cropped-cropped-paul_valery_g.jpgdi Pierluigi Pellini

[Una versione abbreviata di questo articolo è uscita su «Alias»]

Nel periodo fra le due guerre, Il cimitero marino era probabilmente la poesia contemporanea più celebre in Europa; il suo autore, Paul Valéry, senz’ombra di dubbio l’intellettuale più omaggiato del continente. Perfino una sua raccolta di articoli sul presente, gli Sguardi sul mondo attuale, composta di pezzi d’occasione per lo più pensosamente superficiali (e alquanto reazionari: non manca un elogio dell’Idea di dittatura, ispirato da un libro d’interviste di Salazar, e datato sinistramente 1934), ha potuto essere per anni, in Francia, poco meno che un best seller. Vate incensato, maître à penser, emblema del ritorno all’ordine dopo il carnevale delle avanguardie, l’uomo che per più di vent’anni si era quasi completamente negato alla parola pubblica, concentrandosi sul quotidiano esercizio di autoanalisi affidato alla scrittura privata dei Quaderni, assurge improvvisamente con La giovane Parca, nel 1917, al rango di poeta ufficiale; e si costringe fino alla morte, avvenuta nel 1945, a alimentare, con rare pubblicazioni poetiche – per l’essenziale, la raccolta Charmes (Incanti), del 1922 – e innumerevoli interventi di circostanza, spesso su commissione, la figura mummificata del classico vivente.

Oggi, i versi di Paul Valéry sono certamente i meno vivi fra quelli di tutti i poeti laureati del Novecento europeo. Li condanna con poche eccezioni all’obsolescenza, se non addirittura all’illeggibilità, proprio quell’ambizione di coniugare la modernità di un linguaggio poetico intransitivo e l’impeccabile versificazione del grand siècle (Racine redivivo!), proprio quell’innesto sistematico di oscurità mallarmeana e di fulgido formalismo classicista che a suo tempo ne giustificò la canonizzazione, ad opera del cenacolo raffinato (e spesso miope) della «Nouvelle Revue Française». Un altro classicismo, quello modernista e paradossale di Eliot e di Montale, capace di riscattare poeticamente le rovine della storia e gli oggetti poveri della quotidianità, nutrirà quel che conta della poesia del Novecento (e oltre); non avranno domani, invece, la censura di ogni contingenza, l’aristocratico sprezzo della vita di ogni giorno (delle sue occasioni e soprattutto «della massa» che la popola), l’epurazione lessicale di ogni scoria contaminata dal tempo umano, i capisaldi, insomma, della poetica degli Incanti. A rileggerla oggi, la stroncatura sbarazzina di Nathalie Sarraute, che fece scandalo nel 1948 (Paul Valéry e l’elefantino, tradotto da Einaudi nel 1988, oggi purtroppo esaurito), sembra addirittura ovvia.

Eppure, uno stesso punto di partenza storico e teorico accomuna l’autore della Giovane Parca e i poeti maggiori del primo Novecento: la convinzione controintuitiva, che Valéry meglio di chiunque altro ha saputo esprimere in un saggio memorabile su Baudelaire, che «ogni classicismo presuppone un romanticismo anteriore», perché «l’essenza del classicismo è di venir dopo», e «l’ordine presuppone un certo disordine che esso ha il compito di ridurre». Idea di cui si appropria tempestivamente, in Italia, un ammiratore e emulo di Valéry – poeticamente, diciamolo pure, assai più dotato di lui – come Giuseppe Ungaretti, per motivare la svolta restauratrice che dall’Allegria conduce a Sentimento del tempo. Come per Baudelaire l’effusione sentimentale dei romantici è al tempo stesso presupposto imprescindibile e oggetto di polemico rifiuto, così la rottura avanguardista, lo scardinamento delle forme tradizionali, lo sberleffo all’istituzione letteraria sono ineludibile pietra di paragone (per emulazione o per antitesi) di ogni poesia che si voglia, negli anni immediatamente successivi alla Grande Guerra, all’altezza dei tempi.

La consapevolezza di «venir dopo», appunto, è il primum della scrittura: solo il provincialismo dei nostri ermetici potrà rimuoverla tout court, nella velleità di una poesia sedicente pura. I modernisti la integrano invece, questa consapevolezza, nella sostanza stessa dei loro testi: così nella poetica del correlativo oggettivo; così nella rifrazione degli eteronimi in Pessoa; così nell’ostentata, artefatta naturalezza di Saba (gli esempi, diversissimi e convergenti, si potrebbero moltiplicare). Valéry segue un percorso diverso: espunge quasi ogni riverbero di creaturale impurità dai suoi rari, algidi versi, peraltro sempre mirabili per levigata fattura, e affida al contrario alla prosa saggistica, e più ancora alle pagine tormentate dei Quaderni, una riflessione inquieta e spregiudicata, che ha tratti di vertiginoso acume e di assoluta modernità. Quasi, si direbbe, con una sorta di lucida schizofrenia: come se rifiutasse di spezzare il cristallo polito della metrica regolare, il vieto simulacro del bello tradizionale, pur riconoscendone l’intima, insostenibile vacuità di «piccolo monumento forse funebre», fatto delle «parole più pure» e delle «forme più nobili» della lingua francese – e non senza intuire, forse, che i suoi confusi brogliacci avrebbero trovato grazia, presso i posteri, assai più degli aridi frutti del labor limae.

Per questo conviene salutare con gratitudine il lavoro immenso che ha consentito a Maria Teresa Giaveri di offrire, per la prima volta in Italia, e con cura editoriale impeccabile, una corposa silloge di Opere scelte («I Meridiani», Mondadori, 2014, pp. CIII + 1782, euro 80), capace di restituire, in sei ampie sezioni (Poesia, Prosa poetica, Modelli e strumenti del pensiero, Dialoghi, Teatro, Saggi: traduzioni tutte rigorosamente nuove), l’immagine complessa e sfaccettata di uno scrittore molto diverso da quello canonizzato negli anni Trenta e, al contrario di quello, in parte ancora incontestabilmente vivo: non solo (non tanto) nella levigata lentezza, punteggiata di squarci illuminanti, dei dialoghi socratici (in specie i celeberrimi Eupalinos o L’architetto, e L’anima e la danza); ma anche (forse soprattutto) nella prosa giovanile di Monsieur Teste e nello sterminato cantiere dei Quaderni: al tempo stesso traboccante zibaldone di pensieri e ascetica ginnastica della mente, cui sono dedicate ogni mattina le energie più fresche; e, ancora, nella tendenziosa lucidità dei saggi letterari, che costruiscono una genealogia della lirica moderna con cui rimane inevitabile fare i conti (la linea Baudelaire, Mallarmé, Valéry), anche se è viziata da un’ottica nazionale angusta – questo scrittore come pochi intimamente franco-francese (ancorché di origini italiane per parte di madre, e di costumi cosmopoliti) elegge a testa di turco un romanticismo sentimentale di cui fa mostra d’ignorare la complessità filosofica sviluppata oltre Reno.

Del Valéry poeta, invece, Giaveri propone un’integrale traduzione in metrica, certo ammirevole come tour de force, ma spesso svantaggiosamente infedele. Un solo esempio: il celebre «Le vent se lève!… il faut tenter de vivre» del Cimitero marino, che nella nuova versione italiana suona: «S’alza il vento!… Affrontiamo la vita». La scelta, indubbiamente coraggiosa, di trasporre Valéry in metrica regolare italiana è motivata dal desiderio di non perdere quel che il poeta riteneva essenziale, cioè la musica della parola, anche a costo di sacrificarne il significato. E tuttavia quella che conduce della metrica francese al suo supposto equivalente italiano – come mostrano molti tentativi anche illustri, e quasi sempre assai problematici: da ultimo, il Baudelaire feltrinelliano di Antonio Prete – è strada accidentata e spesso intransitabile (in particolare, ma non solo, per la statutaria irriducibilità dell’alessandrino sia al cantabile martelliano sia al più denso endecasillabo; ma anche il decasillabo francese, come mostra l’esempio del Cimitero marino, fatica nella nostra lingua a indossare veste endecasillabica). Il verso appena citato è forse l’unico, o uno dei pochissimi, di Valéry, a essersi imposto nella memoria culturale contemporanea anche al di fuori dell’istituzione scolastica francese: ne è prova il suo esibito ri-uso in un successo globale del 2013 come il film di animazione Si alza il vento (Kaze tachinu) del regista giapponese Hayao Miyazaki. E se si è imposto, è precisamente per la connotazione pre-esistenzialista di quel tenter de vivre, “tentare di vivere”, che la traduzione Giaveri perde completamente – risolvendosi peraltro (a meno di forzare la logica e le consuetudini della metrica italiana, escludendo la sinalefe) non in un endecasillabo, ma in un decasillabo manzoniano (del tipo «Soffermati sull’arida sponda / Vòlti i guardi al varcato Ticino, / Tutti assorti nel novo destino, ecc.»: il secondo e il terzo verso hanno la stessa scansione di prima, terza, sesta e nona), che volge la sospensione metafisica e la perplessità esistenziale del Cimitero marino quasi in fanfara (poco avendo in comune il nostro decasillabo con il décasyllabe francese), peraltro intonata al volontarismo un po’ marziale dell’«Affrontiamo la vita».

Ma di Valéry, si diceva, reggono oggi soprattutto i Quaderni: esercizio di scrittura inaugurato, non a caso, nel 1894, dopo che, due anni prima, si è incrinata – fra le ambasce della celebre notte di Genova, e non solo – la fiducia nel platonismo del maestro riverito, Stéphane Mallarmé, e nella possibilità, per la parola poetica, di attingere l’ideale. L’interesse della ricerca si concentra ormai sui meccanismi di funzionamento della mente; il valore della scrittura diventa meramente gnoseologico: non più l’opera perfetta, ma la conoscenza di sé, ne sarà il fine. Accanto a quello di Mallarmé, s’impone il modello di Edgar Allan Poe, da cui Valéry mutua l’imperativo dell’autocoscienza, e alla cui filosofia della composizione vota un autentico culto. Rari gli altri interlocutori di questo «Robinson intellettuale», che sfiora l’egotismo forgiando di volta in volta i concetti di cui si serve, e fingendo d’ignorare il contemporaneo dibattito culturale – i riferimenti alle scienze esatte sono più pregnanti di quelli all’attualità filosofica o letteraria. E, di quaderno in quaderno, delinea, con puntiglioso rigore razionale, l’abbozzo di una dottrina della creazione artistica, per poi offrirne un compendio, a partire dal 1937, nel corso di Poetica al Collège de France, di cui Giaveri regala al lettore italiano la traduzione di tre lezioni (due inedite anche in francese).

Quella dei Quaderni è una nebulosa di appunti, aforismi, formulazioni parziali che non trovano mai (e probabilmente non potevano trovare) definitiva sistemazione; ma pochi altri testi contengono un insieme più fecondo di intuizioni disparate, capaci di nutrire gli studi letterari (e non solo) dei decenni a venire. Il catalogo è impressionante (e incompleto). Il formalismo e lo strutturalismo degli anni Sessanta e Settanta, prevedibilmente, hanno potuto vedere in Valéry un precursore – al punto che le due riviste parigine più significative di quella stagione, «Tel Quel» e «Poétique», gli sono debitrici del titolo. Il ruolo riconosciuto, nella genesi del testo letterario, a «non so qual presentimento delle reazioni esterne», e la consapevolezza che l’opera d’arte vive solo «in atto», nella concreta singolarità della lettura («è l’esecuzione della poesia che è poesia»), anticipano – ed era cosa molto meno scontata – le tesi della critica della ricezione. La volontà di promuovere la «fabbricazione dell’opera» a «cosa principale» (perché «fare una poesia è poesia»), lo studio instancabile dei processi mentali che presiedono alla creazione artistica (intesa «come danza, come scherma»), l’assioma per cui «l’opera non è mai finita interiormente», e anche il fascino per i manoscritti del passato (di Stendhal, di Hugo), lo predisponevano a diventare il nume tutelare, oltre che un oggetto d’indagine privilegiato, della critique génétique (versione francese, teoricamente più agguerrita, della nostrana critica delle varianti e degli scartafacci). Infine, l’odierna voga degli studi cognitivi può trovare stimolo e riscontro in quell’instancabile autoanalisi del pensiero, e dei suoi più sottili meccanismi, che sembra fare dell’impresa intellettuale di Paul Valéry il rovescio difensivo, ma non per questo meno grandioso, dell’opera di Sigmund Freud. Perché davvero, come l’avanguardia è l’implicito antimodello della sua poesia, così la psicanalisi pare il rimosso – o, se si preferisce, il bersaglio nascosto – della sua personale filosofia della mente: che dei sogni, della memoria, dell’attenzione, dell’immaginazione, e in genere dei meccanismi psichici, cerca ostinatamente di descrivere il funzionamento facendo economia di ogni ipotesi d’inconscio.

Una postura intellettuale, questa, che non poteva non entrare in rotta di collisione con il movimento surrealista, a lungo egemone sulla scena letteraria francese; ma che sul medio e lungo periodo si è rivelata più produttiva dell’opera in versi anche in termini di discendenza letteraria, come mostra bene un esempio italiano. È infatti alle prose e ai Quaderni, assai più che agli Incanti, che ha guardato un poeta come Valerio Magrelli: non solo nel saggio einaudiano che ha dedicato all’autoscopia di Monsieur Teste e alla ripresa del mito di Narciso (Vedersi vedersi, 2002), ma anche nelle tematiche e nelle forme delle raccolte in versi degli anni Ottanta. I due episodi maggiori della ricezione italiana di Valéry – Ungaretti e Magrelli, appunto – disegnano esemplarmente il destino di un’opera: da monumentale cauzione di un irrigidimento classicista, a stimolo seminale, e disperso nell’infinibilità del work in progress, di un’autorappresentazione fluida, metamorfica, aporetica. Anche se poi quell’Inesausta volontà di autocostruzione, che dà il titolo all’elegante introduzione di Maria Teresa Giaveri, quel rifiuto di oggettivare sé stesso nella materialità finita dell’opera («Gli altri fanno libri. Quanto a me, io faccio la mia mente»), quel subordinare la conoscenza e la scrittura stessa alla trasformazione di sé (per cui l’opera di Paul Valéry, in definitiva, è Paul Valéry), se per un verso è lascito di stupefacente, quasi situazionista modernità, per un altro – ancora un paradosso – affonda le sue radici nell’humus del dandysmo fin de siècle, si ammanta di pretese estetizzanti, e insomma rivela insospettabili parentele con l’auto-mitologizzazione di un altro, più pacchiano vate: ovviamente, il nostro d’Annunzio, cui infatti l’autore della Giovane Parca non manca di render visita e omaggi. Per l’allievo più dotato dello schivo Mallarmé, del poeta moderno più autenticamente alieno da esibizionismo, per il poeta metafisico che nel finale del Cimitero marino ha offerto un precoce emblema ai dilemmi dell’esistenzialismo – il già citato «Le vent se lève!… il faut tenter de vivre» – pare l’ennesima ironia della sorte.

[Immagine: Paul Valéry]

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19 thoughts on “Attualità di un poeta illeggibile. Paul Valéry oggi

  1. Saggio interessante ma che dà per acquisite idee del tutto arbitrarie dell’autore, dimenticando che nell’arte e nella poesia le mode vanno e vengono. Nel Novecento italiano non esistono poeti all’altezza di Valery. Anche questa è un’opinione, come quella di Pellini. Non “reggono” oggi i Quaderni di Valery, reggono le poesie. Come spesso capita i professori universitari, che forse un tempo erano anche “lettori” di poesia, sono preda di attacchi di fenomenite, a volte acuta a volte fulminante. Un saluto.

  2. I Meridiani sono arrivati ad 80 euro. Tra poco neanche i tre quarti degli accademici (che sono precari) potranno più permetterseli.
    Figurarsi noialtri.

  3. Caro Lo Vetere, però non perdiamo molto, spesso sono fatti male (e poi non diamo i soldi alla Mondadori).

  4. Commenti di questo tipo non finiscono mai di sorprendermi (tanto più quando arrivano da persone serie come Genovese e Lo Vetere, che sanno di solito scrivere cose di grande interesse e arricchire davvero le discussioni): perché distolgono l’attenzione dal pezzo e dal suo argomento, perché, deliberatamente o meno, gli sottraggono peso, e perché in generale non risultano di nessuna utilità.
    Provo a spiegarmi. Da un lato, questa è un’edizione di grande spessore; l’articolo di Pellini è molto denso e illuminante; e, anche se, certo, i Meridiani non sono tutti della stessa qualità, il gruppo che li porta avanti (lo dico per esperienza diretta) lavora davvero, con passione e competenza abbastanza rare. D’altro lato, verissimo, i Meridiani costano troppo; è un brutto guaio che siano nelle mani dell’impero berlusconiano; e dovremmo evitare di foraggiare questo impero, anche se, visto quanto è esteso, riuscirci sempre è un’acrobazia.
    Possiamo pensare a come fare, possiamo scriverci sopra, possiamo promuovere una discussione in merito. Non sarà facile trovare una soluzione, forse non a caso finora non c’è riuscito nessuno. Ma sicuramente liquidare un meridiano interessante (che comunque si potrà leggere e consultare pure in quei posti squallidissimi fatti per gli universitari sfigati e pedanti, come si chiamano, biblioteche), silenziare subito la potenziale discussione su un bel pezzo, e dimostrare, magari involontariamente, scarsa considerazione per il lavoro altrui, allo strapotere della Mondadori e all’impero berlusconiano non nuocerà per nulla. Semmai prima o poi contribuirà a promuovere una bella, ardente, coraggiosa battaglia contro la letteratura, la critica, le edizioni, lo studio serio. Battaglia che, mi sa, troverebbe Berlusconi entusiasta in prima linea.

  5. Cara Bertoni, mi dispiace se il mio intervento è sembrato svilente nei confronti del pezzo di Pellini, che è, come di solito i suoi, davvero bello, ha ragione. Mi scuso, naturalmente, anche con Pellini stesso.
    Il mio amaro sarcasmo era però talmente circoscritto (al prezzo di questo Meridiano) che, spero ne converrà, davvero difficilmente può essere considerato offensivo verso il lavoro di Pellini o della curatrice (che immagino non abbia potere di contrattazione sul prezzo del volume) o addirittura, e se pur alla lontana, una forma di involontaria intelligenza col nemico.

    Saluti

  6. “L’idea di dittatura” non è affatto un elogio della dittatura, ma una lucidissima ed equilibrata analisi, ancor oggi valida, intorno al modo in cui le dittature nascono, come ognuno può facilmente verificare (http://classiques.uqac.ca/classiques/Valery_paul/regards_monde_actuel_autres_essais/regards_monde_actuel_et_autres.html). Oltre alla “fenomenite fulminante”, i docenti universitari hanno anche il brutto vizio di citare, a volte, libri che non hanno letto, pensando che non li abbia letti nessuno. Sui gusti letterari di chi considera “illeggibili” le poesie di Valéry, poi, meglio sorvolare.

  7. Non c’è bisogno di spendere 80 euro, i versi di Valery sono pubblicati da Guanda per 30 euro (500 pagine, una ampia scelta) con testo francese e traduzioni di Magrelli e Cescon. Personalmente li ho letti gratis dalla biblioteca. Saluti.

  8. Mi scuso se non sono intervenuto prima. Avrei scritto esattamente le stesse cose che ha scritto Tilli Bertoni: perciò non le ripeto. Aggiungo solo che la percentuale di Meridiani curati male, in questo secolo, è molto bassa: non superiore a quella delle Pléiades curate male nello stesso periodo. La collana ha subito una riduzione molto forte (escono oggi molti meno Meridiani che dieci anni fa) perché non rende: ha ancora una redazione di alto livello, che costa, mentre la cura di altre collane, non meno care (per esempio i Millenni) è affidata in outsourcing, con risultati catastrofici. Mi pare, questo delle esternalizzazioni editoriali, un tema politico e culturale molto più serio e importante della polemica dura e pura contro l’impero berlusconiano: che getta il bambino con l’acqua sporca. (Naturalmente qualcuno griderà al conflitto di interessi, perché sto curando dei Meridiani : amen).
    Dalle difese della poesia di Valéry sono favorevolmente sorpreso, quasi commosso. I gusti sono legittimi: mi limito a constatare che oggi la sua idea di poesia è del tutto inerte (lo dico perché sono un lettore di poesia, a prescindere da ogni ruolo istituzionale – sono dieci anni che non pubblico studi ‘accademici’ sulla poesia).
    Ho pubblicato qui un modesto ma argomentato articolo di giornale: che avrebbe il diritto, credo, di essere discusso, o ignorato, come tale. È molto sgradevole, invece, essere ascritto, da non so quale demagogico risentimento, alla generalizzate categoria degli ‘universitari’.
    Rassicuro comunque l’anonimo lettore: ho letto il saggio di Valéry sull’idea di dittatura e ho perfino sfogliato, in biblioteca naturalmente, il libro di Salazar che il Nostro definisce parfaitement sage. Che avesse simpatie di destra non è certo uno scoop: andò perfino a trovare Mussolini (ma fu deluso dalla istrionica rozzezza del duce…). In ogni caso grazie per il Link: gli altri lettori, se ne avranno voglia, potranno verificare da sé. Un saluto cordiale, pp

  9. “inerte”…
    Mi dispiace per Cucchi, Valduga, Pontiggia, Magrelli, Sereni, Lamarque e tanti altri che hanno perso il loro tempo a tradurre poesie “inerti”. Talmente inerti che tre quarti dei poeti e francesisti italiani se ne sono occupati.
    Vi lascio demagogicamente con una poesia inerte tradotta da Cucchi che non sa di aver perso il suo tempo e vado a “risentirmi” un po’.
    (Nel Novecento italiano fatico a trovare un testo che eguagli il seguente in bellezza. Capisco che qui preferiamo Rosselli e i geroglifici di Zanzotto… non tutti però…)

    LE VANE BALLERINE

    Quelle che sono fiori leggeri son venute,
    figurine d’oro, bellezze minute
    dove iride diviene, debole luna… Eccole
    fuggire melodiose nel bosco rischiarato.
    Di malva e d’iris e di notturne rose
    le grazie nella notte, sotto la loro danza, schiuse.
    Che velati profumi, da quelle dita d’oro!

    Ma si sfoglia l’azzurro in questo morto bosco
    e riluce a fatica un filo d’acqua sottile,
    riposata, come tesoro pallido di antica
    rugiada, da cui il silenzio in fiori sale. Eccoli
    melodiosi fuggire nel bosco rischiarato.

    Graziose quelle mani verso gli amati calici;
    un po’ di luna dorme sulle devote labbra
    e le loro braccia splendide, dai gesti addormentati
    dipanano piacevolmente sotto gli amici mirti
    i fulvi loro vincoli, carezze… Ma talune
    del ritmo meno schiave e delle arpe lontane
    verso un sepolto lago vanno con passo lieve
    a bere dai gigli la gracile acqua in cui dorme l’oblio.

  10. Cari amici, mi associo alle scuse di Lo Vetere (non intendevo offendere nessuno, e soltanto perché “Le parole e le cose” è un sito ultraserio non si è notato il senso volutamente rozzo del mio brevissimo intervento). Resta il fatto che per lo più i Meridiani sono volumi da non comprare, sia per il prezzo sia per come talvolta sono fatti (ne posseggo uno che è una vera e propria antologia frammentaria di un autore). Il guaio è che, con le attuali difficoltà, le stesse biblioteche dovranno pensarci su due volte prima di acquisire quei volumi. E se poi destinassero i soldi all’acquisto di libri che non si trovano nel circuito delle librerie, non sarebbe meglio?
    Riguardo al merito dell’articolo di Pellini, che ho apprezzato, sarei tra quelli che non riterrebbero Valéry un cane morto. Poeticamente parlando, per ciò che posso capirne, il suo è una specie di classicismo modernista, e non vedo perché contrapporlo, eventualmente, a quello di uno come Eliot. Dal punto di vista filosofico è un autore ricco di notevoli intuizioni, sul piano estetico soprattutto (per dirne una, l’idea dell’opera d’arte come “apparition”, cioè come una rottura nel corso ordinario delle cose, viene da lui). Sul piano politico è stato certamente un filofascista. Ma quanti tra gli anni venti e trenta del secolo scorso lo sono stati! E, visto che sto scrivendo da Lisbona, anche Pessoa…

  11. Pezzo il cui taglio polemico è stimolante, e a mio modo di vedere condivisibile. Dopo averlo letto sono andato a rileggermi un testo che, in passato, ho molto amato, La Jeune Parque. Devo ammettere che, pur rimanendo ammirato dalla concezione e fattura incredibilmente rigorose ed esigenti di quei versi, ho provato il sentimento, bene argomentato da Pellini, di trovarmi di fronte a una materia poetica inerte. Resterebbe da chiedersi cosa significa, nel nostro presente, l’inerzia di una poesia a proposito della quale un lettore come Adorno, a suo tempo, poteva scrivere: “Non lasciarsi istupidire, non lasciarsi addormentare, non essere complici: queste sono le condizioni sociali che si sono sedimentate nell’opera di Valéry, opera che si rifiuta di stare al gioco della falsa umanità, del consenso sociale alla degradazione dell’uomo. Costruire opere d’arte per lui significa rifiutarsi all’oppiaceo in cui la grande arte sensoriale si è trasformata dall’epoca di Wagner, di Baudelaire, di Manet; rifiutarsi all’onta che rende le opere mezzi di comunicazione e dei consumatori fa delle vittime della trattazione psicotecnica. (…) L’arte che arrivasse a se stessa traendo le conseguenze della concezione di Valéry, oltrepasserebbe l’arte stessa e si adempirebbe nella vita giusta degli uomini”. Per i lettori il cui orecchio, come il mio, è diventato sordo ai versi di Valéry, credo si tratti di un interrogativo non liquidabile.

  12. C’è poco da fare. Chi considera illeggibile o inerte Valéry (senza il quale, a tacer d’altro, l’Ungaretti più maturo, lo stesso Montale di gran parte degli “Ossi”, Luzi, Magrelli sarebbero inconcepibili) è uno che di poesia non capisce un accidente, e farebbe meglio ad occuparsi d’altro. Non è questione di gusti. Ci sono valori storicamente oggettivi.

    Humblement, tendrement, sur le tombeau charmant
    Sur l’insensible monument,
    Que d’ombres, d’abandons, et d’amour prodiguée,
    Forme ta grâce fatiguée,
    Je meurs, je meurs sur toi, je tombe et je m’abats,
    Mais à peine abattu sur le sépulcre bas,
    Dont la close étendue aux cendres me convie,
    Cette morte apparente, en qui revient la vie,
    Frémit, rouve les yeux, m’illumine et me mord,
    Et m’arrache toujours une nouvelle mort
    Plus précieuse que la vie.

    Ripeto: “L’idea di dittatura” non è un elogio della dittatura, come ognuno può verificare. Né basta, per sostenere il contrario, citare due parole fuori contesto. Quanto alle “simpatie di destra”… Legga il “Mon Faust”: difficile trovare una più ferma condanna dell’orrore dittatoriale.

  13. Naturalmente Lo Vetere e Genovese non avevano nulla di cui scusarsi. Sono stati come sempre correttissimi – una qualche semplificatoria ruvidezza è del resto intrinseca alla forma-blog, e anche al mio pezzo.
    Ringrazio tutti i commenti civili: anche quello che ha offerto la traduzione di Cucchi, bruttina come tutte le sue (compreso purtroppo lo Stendhal dei Meridiani; di Cucchi salverei solo Il Disperso).
    A Genovese rispondo che di classicismo modernista molto si è parlato, e a ragione, negli ultimi anni. A me pare che gli sia consustanziale la compromissione con le rovine della storia, con la prosa del quotidiano, con l’effimera contingenza dell’oggetto povero. Per questo credo che la poetica di Valéry vada catalogata altrove. Ma altre discriminanti storiografiche sono possibili (e non certo quelle ideologiche, fascistissimo essendo stato, per tacere di altri, un Pound).
    Naturalmente non rispondo invece a chi approfitta dell’anonimato per dire sciocchezze (che è suo diritto) e per insultare (che non lo è).
    Grazie ancora. E per quanto mi riguarda il post è chiuso.

  14. Ognuno è libero di trovare, senza troppa fatica, le tracce (lampanti e già da tempo segnalate dalla critica, e che certo un poeta illeggibile e inerte non avrebbe lasciato) di Valéry in Ungaretti Montale Luzi Magrelli Giancarlo Pontiggia, così come di leggere l'”Idée de dictature” e il “Mon Faust”, e capirà da sé chi è che dice schiocchezze. Non so quali poeti prediliga Pellini. Aldo Nove, Scarpa e Lello Voce (in linea con l’ideologia di questo sito) , temo. Né vedo cosa il classicismo, di per sé aulico e, come dite voi accademici nelle vostre masturbazioni seminariali, “autotelico”, abbia a che vedere con la “prosa del quotidiano” e l'”oggetto povero”. Giocate meno con le formule, e leggeteli sul serio, i poeti (anche se non vedo come, se per voi sono illeggibili).

  15. L’Esimio Professore, il quale ritiene che le “Notes sur l’idée de dictature” siano un elogio della dittatura, sostiene di avere addiritura sfogliato in biblioteca il libro “di Salazar”, o “di interviste di Salazar”, cui quelle note (che NON erano un elogio, ma un’analisi, della dittatura) facevano da introduzione.
    Non so che libro abbia sfogliato, dato che il testo in questione non è di Salazar, bensì un saggio SU Salazar, opera di Antonio Ferro (“Salazar, le Portugal et son chef”).
    Mai citare ciò che non si è letto. Non si fa una bella figura.
    Peraltro, tipicamente accademica è l’arte di non leggere, se è vero che nei concorsi universitari (noto esempio di giustizia ed equità) nessuno dei commissari legge i titoli presentati dai candidati, dato che si sa già chi deve vincere.

  16. non mi pare corretto valorizzare i grandissimi guaderni’ vareraliani per disprezzare la sua poesia. Valery, nonostante la sua metrica e non direi poetica claccicista e un poeta doctus e nella totalita della sua opera che e ancora da leggere, e una delle piu acute coscienze europpee. Il populismo recente che ammette solo opere politicamente corrette non fornisce critica contro l’ incoprensibilita del Valery, sebbeme contro tutta la litteratura del millenio passato. Essere modeno non e lo stesso con il servilismo moderno, che una malatia intelletuale, molto diffusa nel academia. Valery e un grand maitre moderne. Che si dirrebe di un non- moderno poeta comme John Donne eppure Dante ? Non sono italiano, pero commenti di questo genere farebbero ridere quanto studiavo litterature europpee anni fa,.

  17. Leggo solo oggi – in seguito alla mini-discussione sulla play-list di domenica scorsa (e sarà forse l’unica volta che Paul Valéry deve qualcosa a Bello Figo) – questo articolo a mio parere impeccabile che corrisponde perfettamente alle mie impressioni di lettrice.
    Per curiosità, Emil Cioran, nel 1941, su Valéry e la Francia: “La France attend un Paul Valéry pathétique et cynique, un artiste absolu du vide et de la lucidité. Lui qui, de tous les Français de ce siècle, s’est le moins trompé – symbole, par sa perfection, de l’assèchement d’une civilisation -, n’est pas l’expression maximale de la décadence, car il lui manque une vague nuance prophétique, et le fier courage dans l’irréparable. Sur la pente de son raffinement, les Français peuvent encore etre féconds. Le renoncement au contenu est le secret de Valéry et de l’avenir français. […] Si la France ne devient pas le pays des dangereuses subtilités, nous n’avons plus rien à en apprendre.”

  18. Leggendo, con grandissimo ritardo, il bell’articolo di Pellini, mi sento, dalla mia solita invidia, autorizzato a dire qualcosa anche io – certe volte mi sembra di essere quel matto che si mette dietro ai giornalisti che fanno le “ dirette “ dai palazzi della politica: “ 11 aprile 1994 – « Ore otto – Alzato prima delle 5 – alle 8 mi sembra di aver già vissuto con la mente tutta una giornata, e guadagnato il diritto di essere stupido fino alla sera. » (Paul Valery, Quaderni, 1935) “.

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