[La prima parte di questo saggio di Rino Genovese, apparsa su Le parole e le cose lo scorso 3 ottobre, può essere letta qui].

di Rino Genovese

C’è un nesso storico molto stretto tra l’emergere degli intellettuali in quanto gruppo sociale definito e una critica della cultura di stampo più o meno conservatore, collegata all’idea di una decadenza o di una fine dell’Occidente. Quello di “intellettuale” può essere un epiteto (come agli inizi quello di pittore “impressionista”) affibbiato a chi, sotto l’incalzare della civilizzazione e del suo sviluppo tecnico, non sembra avere altra risorsa se non quella di diventare uno specialista, un “esperto in intelletto”. Così, nei confronti del philosophe settecentesco che aveva dalla sua un universalismo occidentale pimpante e sicuro di sé, essere un intellettuale appare quasi la cerebralizzazione del disagio di chi, perdendo fiducia in se stesso, scioglie il legame con il “popolo” (qualunque cosa debba intendersi con questo termine scivoloso) per restringersi in una funzione astratta. La critica dell’esperto come una figura del tramonto è quindi intrecciata con quel mutamento che, mentre fa dell’intellettuale un aspetto della fine, lo rende al tempo stesso una figura pubblica alle prese con la comunicazione di massa: ossia, tra Ottocento e Novecento, quella organizzata intorno ai giornali[1].

L’idea gramsciana che chi disponga di un quotidiano o di una rivista sia, già per questo, un intellettuale potenzialmente organico, un punto di orientamento politico, nasce da qui: dalla possibilità, data dalla stampa e dalla milizia che essa implica, di trasformare il semplice esperto in una funzione più generale legata al movimento di una classe sociale. Organico a una classe, si noti, non un intellettuale di partito come nel successivo aggiustamento togliattiano. Gramsci risolve a modo suo la crisi di un mondo, proiettandolo al là della sua fine verso un “ordine nuovo” post-capitalistico, e inserendo nel progetto l’intellettuale organico come superamento di quello tradizionale in una prospettiva nazionale-popolare. Questa proposta esprime in realtà una dissidenza nell’ambito del comunismo di marca sovietica, che veniva trasformando l’intellettuale in un funzionario (un “ingegnere di anime” sarà lo scrittore secondo lo stalinismo); e il fatto che Gramsci, nel duro periodo del carcere fascista, si sia trovato in minoranza nel suo partito la dice lunga su quanto disorganico possa essere un intellettuale organico. È quasi inevitabile, infatti, che per un cambiamento di linea politica, per un disaccordo che non riesce a ricomporsi, l’intellettuale organico palesi tutta la sua disorganicità, cioè l’impossibilità di adeguarsi, di accettare un “corso del mondo” che tende inesorabilmente a chiudersi: assomigliando così, pur non volendolo, a quell’intellettuale prepolitico difensore dei valori di bendiana memoria.

Disorganico è l’intellettuale che rompe le uova nel paniere e vive la disputa come un dramma privo di sbocco. Più orientato all’ideologia che al movimento dei punti di vista, si trova tuttavia a maneggiare ben poche certezze. Non è più il suo omologo umanistico-universalistico a tutto tondo – anzi, è volutamente partigiano –, ma per una sorte avversa è ridotto ad abbarbicarsi al proprio dissenso predicando ai sordi e finendo nella posizione, a futura memoria, del testimone o del profeta. L’Italia del Novecento ha conosciuto – anche a causa delle vicissitudini della sua sinistra politica, cacciatasi nell’impasse già negli anni sessanta, ai tempi del primo centrosinistra – due notevoli figure di questa specie. Franco Fortini e Pier Paolo Pasolini, gli amici antagonisti, hanno segnato un’epoca. Entrambi saggisti e poeti, entrambi legati alla politica in modo non occasionale, pronti a intervenire intorno ai casi più vari, hanno significativamente intrapreso strade diverse a partire da un’ispirazione comune. E il senso della loro tensione reciproca appare oggi di maggiore interesse delle rispettive posizioni necessariamente caduche.

In che cosa consisteva questa tensione? Più giovane di Fortini di qualche anno, Pasolini aveva preso a considerarlo come un interlocutore privilegiato e un punto di riferimento. Ma il rigore “moralistico” del primo alla lunga non poteva che stridere con la tendenza sacrificale-narcisistica del secondo. La cui opera, come Antonio Tricomi ha mostrato nei suoi studi[2], è permeata da un sadomasochismo che è soprattutto una forma di ambivalenza nei confronti dell’industria culturale, o di quella estetizzazione debordante che dagli anni ottanta avrebbe poi pervaso ogni settore della vita sociale. Facendo leva sullo scandalo che la sua “oscenità” ancora procurava nell’Italia conformista e clericale del tempo, Pasolini era convinto, una volta espulso dal Pci per omosessualità, che da individuo pieno di determinazione autoriale egli potesse giocare un ruolo di rottura nei confronti del sistema della comunicazione mediatica. Il che non sempre fu (si pensi soltanto alla circostanza che i suoi film di ambientazione medievale, polemici contro la moderna civiltà capitalistica repressiva, diedero subito luogo a una serie d’imitazioni commerciali puramente cochon); e anche quando fu, come nel caso degli articoli sul Corriere della sera, il poeta diventato sociologo non seppe cogliere le linee specifiche di sviluppo della sottocultura o delle sottoculture italiane, che, anziché scomparire nell’omologazione indotta da una uniformante società dei consumi, si andavano piuttosto preparando alla grande estetizzazione guidata dalle televisioni, cioè a una nuova vita dopo la morte, nel passaggio tra il ventesimo e il ventunesimo secolo, in un impasto nel quale pressoché nulla del tessuto culturale arcaico del paese sarebbe stato cancellato. La balcanizzazione del desiderio, che ha poi trovato la sua espressione insieme neoarcaica e tardomoderna nella diffusione delle mafie, nel leghismo-berlusconismo, nella tendenziale fine della politica, è altra cosa dalla liquidazione dell’alterità italiana sotto la cappa di una compiuta modernizzazione capitalistico-consumistica. È altra cosa dall’apocalissi culturale intraveduta dall’intellettuale profeta.

A questo profetismo mediatico (oggi, tra parentesi, del tutto improponibile, causa la scomparsa della possibilità dello scandalo), Fortini contrapponeva la lucida attenzione al nuovo e il diritto-dovere del ragionamento[3]: sicura eredità del Politecnico e di Vittorini, dell’operaismo dei Quaderni rossi e di una milizia sempre a distanza dal Pci. Negli anni in cui Pasolini rivolgeva il suo messaggio urbi et orbi, Fortini era invece impegnato nella collaborazione con la rivista Quaderni piacentini e con il manifesto (che era allora un gruppo politico organizzato di dissidenti eterodossi e non un semplice giornale). Un impegno quasi ascetico, derivante dalla convinzione che l’intellettuale avesse ormai perso il “mandato”, cioè la legittimazione sociale propria della stagione della Resistenza e del neorealismo, e dovesse muoversi nei frangenti del neocapitalismo al fianco delle lotte operaie e studentesche, ma senza più quella rete di protezione offerta da una cultura e da una linea politica precostituite. In ciò Fortini era del tutto speculare a Pasolini che confidava soltanto nella sua capacità di fare scandalo. Disorganici entrambi, come si è detto, Fortini s’identificava tuttavia in una ricerca più morale che politica, dall’esito incerto, che lo spingeva a esercitare un ruolo di coscienza critica nei confronti della “nuova sinistra”[4]. Chi scrive ricorda la forte impressione ricevuta dalla prima lettura di alcuni dei suoi scritti: per esempio dall’articolo del 1973 Un mezzo litro dopo «Sussurri e grida», in cui Fortini, prendendo spunto dal film di Bergman definito da Rossana Rossanda “reazionario”, sviluppava una critica appuntita di un marxismo storicistico indifferente alla morte, alla biologia, alla sofferenza dei corpi, cui la poesia e l’arte danno invece voce[5], ricordando alla politica e al “bisogno di comunismo” l’infelicità radicale dell’umano. Nell’insieme, però, l’opera di Fortini è contrassegnata da una buona dose di cattiva coscienza riguardo al suo essere un intellettuale e un poeta: in sintonia con quello spirito dei tempi che, soffiando impetuoso dalla Cina, vedeva l’individuo intellettuale come il detentore di un intollerabile privilegio borghese da dissolvere dentro un’intellettualità di tutti[6].

È difficile oggi riuscire a farsi un’idea precisa della vasta influenza esercitata in Occidente dalla rivoluzione culturale cinese, con il senno del poi più simile a un incubo stalinista che a una liberazione, ma tant’è: anche alla luce di altre esperienze rivoluzionarie, come quella della guerriglia in America latina, il dissolversi della funzione intellettuale nella pura e semplice organizzazione politica, o nella lotta armata, era un’opzione all’ordine del giorno. Per dirla con uno slogan, il fine dell’intellettuale è la fine dell’intellettuale, cioè il suo suicidio. Uno come Régis Debray aveva infatti scelto di combattere con Che Guevara e marciva nelle carceri boliviane. Sul fronte opposto, il difensore della tradizione Elémire Zolla aveva parlato a sua volta di un’eclissi dell’intellettuale[7], travolto da quello sviluppo tecnico di cui si diceva sopra. Si comprenderà dunque come, negli anni sessanta e settanta del Novecento, pur nelle diverse versioni di un Pasolini, di un Fortini o di uno Zolla, la variazione essenziale sul tema dell’intellettuale fosse quella – un po’ alla Beckett – di una fine che non smette di finire.



[1] D’altronde, per una sorta di compensazione, la polemica contro i giornali e i giornalisti come professionisti dell’effimero, da parte di quelli che vi scrivevano o addirittura li fondavano, ha una lunga storia, da Balzac a Kraus passando per Kierkegaard.

[2] Mi riferisco ai tre volumi di A. Tricomi: Sull’opera mancata di Pasolini. Un autore irrisolto e il suo laboratorio, Roma, Carocci, 2005; Pasolini: gesto e maniera, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2005; In corso d’opera. Scritti su Pasolini, Massa, Transeuropa, 2011.

[3] «Hai perso il diritto al ragionamento, perché non ne hai mai veramente riconosciuto il dovere»: così Fortini a Pasolini riguardo alla sua famosa poesia sugli studenti nel 1968 (F. Fortini, Questioni di frontiera, Torino, Einaudi, 1977, p. 254).

[4] Si veda la lettera del 1962 a Raniero Panzieri, in F. Fortini, Questioni di frontiera, cit., con il titolo «Il socialismo non è inevitabile», p. 249: «Insomma, fra l’azione accanto o nei luoghi di vita del nuovo proletariato e l’elaborazione teorica bisogna probabilmente, per molto tempo ancora, interporre una zona di disperazione tranquilla e una pura scommessa». Si noti la tranquillità di questa disperazione di contro alla «disperata vitalità» di Pasolini.

[5] Cfr. F. Fortini, Disobbedienze, vol. 1, Roma, Manifestolibri, 1997, pp. 48-52. Di questa raccolta di scritti giornalistici di Fortini esiste una mia recensione, in un’ottica parzialmente diversa da quella proposta qui, con il titolo L’intellettuale disorganico, in «L’Indice dei libri del mese», 2, 1998.

[6] Del resto il sentimento dell’ambiguità della posizione intellettuale è presente in Fortini sin dalla lettera a Panzieri del ’62, quindi ben prima della rivoluzione culturale cinese: «quando prendo la penna in mano, mi sento dall’altra parte, da quella dei nostri nemici, in ostaggio; o, nei momenti migliori, nel futuro, in attesa di tutti voi» (Questioni di frontiera, cit. p. 250).

[7] E. Zolla, Eclissi dell’intellettuale (1959), Bompiani, Milano, 1971, p. 169: «La tendenza della società è diretta ormai all’esautoramento dell’intellettuale».

3 thoughts on “Il destino dell’intellettuale /2

  1. Intellettuale e società: credo che il problema più consistente risieda, purtroppo, tra le file della “cultura ufficiale” che ha attitudini più burocratiche che intellettuali. L’onestà intellettuale, soprattutto oggi, all’interno dell’apparato pedantescamente scientifico, è davvero una forma di eroismo.

  2. ringrazio per il contributo sul tema di grande interesse: lo squarcio di luce offerto da Zolla in una serie di saggi dal ’55 al ’69 è insuperato.

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