di Antonio Bibbò
[Il 25 febbraio è uscita per Feltrinelli una nuova edizione del romanzo di Virginia Woolf meno tradotto e conosciuto in Italia: Gli anni, curato e tradotto da Antonio Bibbò, e comprendente, in Appendice, anche due lunghi brani inediti in italiano eliminati dall’autrice qualche mese prima dell’uscita del romanzo. Proponiamo, con alcuni tagli, un brano tratto dalla Postfazione; ringraziamo la casa editrice per il consenso alla pubblicazione]
Gli anni, pur essendo stato concepito già nel 1931, sembra risentire dell’atmosfera di pericolo incombente che la salita al potere dei movimenti fascisti in Europa stava portando con sé. Non è un caso che i rimandi a Mussolini e Hitler, così come al fascista di casa Oswald Mosley , siano tanto frequenti nell’ultimo capitolo. Negli stessi anni in cui Joyce stava completando il suo testamento narrativo, Finnegans Wake, una summa della cultura occidentale, Virginia Woolf progettava di scrivere la propria “capsula del tempo” da consegnare ai posteri, il libro nel quale sarebbe entrato tutto: “E ho modificato completamente il mio “Saggio”. Deve essere un Romanzo-saggio intitolato La famiglia Pargiter, e deve comprendere tutto: sesso, istruzione, vita ecc.” (Diario di una scrittrice, 2/11/32). Se Gli anni non è però diventato il romanzo enciclopedico che l’autrice aveva immaginato all’inizio questo è dovuto almeno a due motivi. In primo luogo, come abbiamo già accennato, molto del materiale saggistico e non strettamente narrativo – cioè legato alla storia della famiglia Pargiter – è confluito in Le tre ghinee, mentre la maggior parte delle riflessioni sulla vita sessuale delle donne, che come abbiamo visto costituivano il primo nucleo tematico dell’opera, vengono quasi del tutto espunte dal romanzo negli anni che vanno dalla composizione di La famiglia Pargiter, in cui risultano piuttosto esplicite, alla pubblicazione. Ma si possono trovare anche altre motivazioni relative alla necessità di Woolf di affrontare argomenti e contesti sociali più vicini alla sua esperienza diretta. Come nota anche Jessica Berman, e come aveva già sottolineato Gillian Beer in relazione a Le onde, è chiara in Woolf la volontà di limitarsi agli aspetti della società a lei più noti e perciò più facili da rappresentare. Di conseguenza ciò che succede dietro le porte, o all’interno delle coscienze, di chi appartiene alle classi più basse è spesso nascosto al lettore e questo atteggiamento, spesso preso a torto per snobismo, risulta invece probabilmente da una preoccupazione di ordine più formale e stilistico che politico – dal fatto che Woolf ritenesse di non essere in grado di riprodurre in modo adeguato certe voci e certe inflessioni. Il desiderio di Eleanor in questa scena sembra infatti essere condiviso dalla sua autrice: “Aveva una moglie e cinque figli; li aveva visti in una stanza nel retrobottega che giocavano con i rocchetti di cotone sul pavimento. E sperava sempre che la invitassero a entrare…” (p. 94) In diversi luoghi del romanzo, Woolf sembra manifestare il desiderio di entrare in nuove case, di ampliare il cast dei personaggi. Quando Eleanor visita i Rigby Cottages (“1891”) la voce narrante si fa prestare gli occhi da due donne alla finestra – due personaggi estranei al circolo della famiglia Pargiter – e descrive l’azione in una maniera che sembra suggerire la possibilità di una narrazione ancora più centrifuga. Lo zoom si allarga e amplia in qualche modo il valore sociologico del romanzo, che per lo spazio di un paragrafo sembra aver lasciato la famiglia Pargiter, salvo poi restringersi di nuovo sulla storia di Eleanor. Alla stessa logica sembrano rispondere alcuni dei brani tagliati nel 1936, in cui non solo il punto di vista è per lungo tempo quello della domestica Crosby (cosa che però accade, seppur meno a lungo, anche nel romanzo del ’37), ma aumenta il numero dei personaggi estranei alla famiglia, e spesso di bassa estrazione sociale, ai quali è affidata la focalizzazione. Ma è North, che, alla festa finale a casa di Delia, tematizza con amarezza questa mancanza, osservando un gruppetto di giovanotti con i quali non ha alcuna voglia di parlare:
In ogni caso, ascoltando distratto la discussione, vedendone i gesti, sentendone la parlata, gli sembrarono tutti dello stesso tipo. Scuola privata e università, decise, quando si voltò a guardarli. Ma dove sono gli Spazzacamino e gli Spazzini, le Sarte e gli Stivatori? pensò, facendo una lista di mestieri che cominciavano per la lettera S. Con tutto l’orgoglio che Delia aveva per la sua promiscuità, pensò dando un’occhiata alla gente, c’erano solo Decani e Duchesse, e quali altre parole che cominciano per D? si chiese, esaminando ancora il cartello – Donnacce e Damerini. (p. 371)
Nonostante l’intenzione woolfiana di includere un cast di personaggi più vasto e variegato possibile fosse riscontrabile in diversi luoghi del testo, spesso si ha l’impressione che le differenze siano comunque annullate sull’altare di una profonda ed essenziale uguaglianza di tutti gli esseri umani. Se è vero che lo sguardo di Woolf si ferma davanti alle case dei bassifondi perché teme di non riuscire a coglierne i tratti fondamentali, due personaggi come Nicholas e Sara non fanno che ripetere quanto gli uomini pensino tutti le stesse cose, ma che non abbiano per lo più il coraggio di dirle ad alta voce. Le convenzioni sociali impedirebbero un’espressione libera delle proprie convinzioni. In un brano ambientato nel 1921 – appartenente ai due “pezzi enormi” che Woolf eliminò nel marzo 1936 e che sono qui tradotti per la prima volta – Eleanor racconta a Kitty della sua cena con Nicholas e dei discorsi sulla natura dell’uomo che avevano fatto, ma non riesce a riassumere per bene la discussione e finisce per chiedersi se Nicholas avrebbe potuto essere del tutto sincero lì, nella casa di Lord Lasswade, davanti a Lady Kitty: “Sarà anche ridicolo, ma in fondo, la gente è così. È la natura umana, Nicholas! E se ci fossi stato anche tu, gli chiese, chissà se avresti potuto parlare in tutta libertà.” (p. 444). Secondo Nicholas Pomialowski un mondo più libero sarebbe a portata di mano se solo gli uomini imparassero a parlarsi.
Si tratta di un riferimento alle battute conclusive di Una stanza tutta per sé, ricordate più su. Non è un caso che ne Gli anni siano proprio i tre personaggi che in maniera più esplicita si oppongono alla logica della società patriarcale – Eleanor, Nicholas e Sara – ad avere un dialogo più libero. Nel triangolo platonico che li coinvolge, in cui l’amore ha una gran parte ma in cui non c’è traccia di interesse sessuale, non si realizza solo uno degli obbiettivi (il “parlare liberamente”) di quella “Society of Outsiders” teorizzata da Woolf alla fine di Le tre ghinee, ma sembra prendere corpo anche l’ideale androgino suggerito alla fine di Una stanza tutta per sé. Se Nicholas è “maschile-femminile” , l’uomo che accetta gli aspetti femminili della sua mente, Eleanor e Sara ne rappresentano la giusta controparte “femminile-maschile” e mostrano come questo stato ideale della società non possa essere raggiunto se non in gruppo, in un continuo e reciproco rispecchiamento. È solo tra loro che può nascere il progetto di un “new world” in cui i rapporti tra le persone siano più semplici e diretti. Gli anni è un romanzo tragico perché sottolinea la difficoltà di una comunicazione del genere, ma ne presenta capitolo dopo capitolo anche i frutti più belli e naturali, basando la sua struttura narrativa non tanto su una trama, come abbiamo già sottolineato, quanto su una rete di relazioni atipiche e non tradizionali, e sui ritratti dei personaggi. In questo senso questo romanzo sembra, più che un romanzo di famiglia, un romanzo corale, un sotto-genere che nel periodo tra le due guerre si stava diffondendo molto, sia in America (dove il suo esponente più noto è John Dos Passos) sia al di qua dell’Oceano, in particolare in Francia, dove Jules Romains lanciava la corrente mistico-letteraria dell’Unanimismo, una teoria che insisteva sulla profonda unità degli esseri umani e sulla loro capacità di intima comprensione in particolare nel corso di eventi significativi come le grandi assemblee e le funzioni, religiose o sociali. L’unanimismo era noto nel cosiddetto circolo di Bloomsbury anche grazie all’opera di mediazione di Roger Fry, e la critica ha spesso riconosciuto il suo influsso sulla composizione del romanzo corale più strutturato e complesso di Virginia Woolf, Le onde. Se il funerale all’inizio di Gli anni sembra contraddire l’impostazione unanimista (poiché per la maggior parte della funzione Delia si presenta come un corpo estraneo), tuttavia nel corso del romanzo, la compenetrazione tra i personaggi e la definizione di una rete di corrispondenze sembra riportare la narrazione verso un territorio più congeniale a quello della teoria di Jules Romains. È la stessa struttura a suggerirlo: nell’ultimo anno dedicato alla composizione del romanzo, come sottolinea Grace Radin, Virginia Woolf provvide a intessere il romanzo con una trama di rimandi e riverberi che potessero fornire una maggiore unità a quella che le sembrava ancora una materia narrativa in parte farraginosa.
Questa rete di Leitmotiv si ripercuote sia dal punto di vista tematico (eventi che si ripetono come la morte di Parnell e quella di Edoardo VII, le passeggiate dei personaggi e i loro dialoghi, la ciclicità delle nascite e delle morti) sia da quello più immediatamente linguistico: le parole scorrono da un personaggio all’altro e danno vita a una serie di richiami interni che contribuiscono a costituire la comunità protagonista del romanzo. Dopo il tour de force linguistico di Le onde, in cui la ripetizione di alcune espressioni aveva un valore soprattutto musicale, qui si insiste ancor di più sul valore sociale delle parole e sul diverso significato che assumono nel passaggio da un personaggio all’altro. Queste espressioni sono veri e propri oggetti (“fluidi” verrebbe da aggiungere parafrasando Woolf), che non solo danno al testo una trama sonora e semantica, ma soprattutto vengono impiegate per definire le relazioni tra i personaggi: la loro diffusione dà vita al tessuto verbale della comunità. Che Martin sia affezionato alla zia Eugénie e ne apprezzi il carattere eccentrico viene dichiarato esplicitamente in “1908”, ma il lettore lo intuisce subliminalmente anche nel modo che ha Martin di “citare” espressioni di Eugénie in alcuni momenti chiave del romanzo . Le espressioni si diffondono e spesso al passaggio cambiano padrone. Alla fine del bombardamento in “1917”, Nicholas risponde ai sogni a occhi aperti di Eleanor esclamando che si tratta di “poppycock”, che in questa traduzione è stato reso come “corbellerie” per mantenerne il sentore giocoso e vagamente antiquato. La parola viene ripetuta spesso in seguito e, infine, da North, che la riconosce come un’espressione di Sara: “Ritornava quella parola che aveva usato Sara, ‘corbelleria’” (p. 344). Non ci è dato sapere se Nicholas, che è straniero, abbia sentito questa parola da Sara “fuori scena”, ma ciò che conta è che a introdurla nel romanzo sia lui, e che la parola cambi paternità in corso d’opera rivelando non solo la sua diffusione nel gruppetto degli outsider, ma anche il rapporto intimo, quasi filiale, tra le parole e i personaggi.
Molto spesso, poi, alcune espressioni servono a definire per contrasto i personaggi che le impiegano. Il colonnello Abel Pargiter, tornato a casa di cattivo umore, riprende la piccola Rose, rea di avere il grembiulino sporco, chiamandola “grubby little ruffian”. Undici anni dopo, in “1891”, va in visita dal fratello Digby e passa qualche minuto con la cognata Eugénie, per la quale ha un debole. La stessa espressione, impiegata da Digby per le piccole Maggie e Sara, viene presentata negativamente dal narratore che sembra riflettere i pensieri di Abel (“Lo disse per scherzo, ma c’era un accenno di disapprovazione nel tono.”). Allo stesso tempo perciò si rivela non solo la probabile origine comune dell’espressione (usata, viene da pensare, dal padre di Abel e Digby), ma anche il diverso uso della stessa, la “fluidità” del suo valore nel lessico famigliare dei Pargiter. Nel romanzo molti oggetti – la poltrona con i piedi ad artiglio dorati, la spazzola a forma di tricheco, il vecchio bollitore d’ottone – riappaiono a intervalli irregolari, e in luoghi diversi, a segnare il passaggio degli anni e rivelando una sopravvivenza ostinata e tragica rispetto all’invecchiamento degli esseri umani:
“È proprio strano, pensò, toccando con la punta del pennino la chiazza di setole corrose dall’inchiostro sul dorso del tricheco di Martin, che questa cosa sia durata tutti questi anni. Quest’oggetto solido potrebbe sopravvivere a tutti loro. Se lo buttasse via esisterebbe comunque da qualche parte. “ (p. 88)
Qualcosa di molto simile, come abbiamo accennato, succede ai cluster lessicali, o alle semplici parole, e alle loro riprese si presta perciò molta attenzione in questa traduzione, che prova a rendere anche nel testo italiano non solo la qualità sonora dei riverberi e degli echi, cruciale nella poetica woolfiana, ma anche il valore puramente narrativo nella costruzione dei personaggi e degli intrecci tra di loro. Perché Gli anni è soprattutto un romanzo in continua oscillazione tra i poli del cambiamento e della resistenza; della storia che si ripete “con una differenza”, come aveva detto Joyce nel terzultimo capitolo di Ulisse; dei mutamenti minimi e della ripetizione quasi formulaica delle cose umane. Ed è per questo forse che si conclude con un nuovo inaspettato inizio, una nuova alba di “straordinaria bellezza, semplicità e pace”. Eppure è un romanzo tutt’altro che pacificato e rassicurante, spesso anzi rabbioso e aspro. In uno dei brani centrali dell’ultimo capitolo, Eleanor è a casa con Peggy e si sta preparando per andare alla festa della sorella Delia. Poco prima di uscire, quando il taxi le aspetta già sotto casa, l’occhio le cade su un quotidiano sul quale c’è la foto di un dittatore, probabilmente Mussolini: “era la solita foto sfocata dei giornali serali con un grassone che gesticolava” (p. 303). Eleanor viene presa da una rabbia incontrollabile e strappa il giornale, con un gesto che per Peggy è allo stesso tempo inatteso, grottesco e solenne. Peggy penserà a lungo a questo gesto, sorpresa da un atteggiamento così poco congruente con lo stereotipico ritratto della “zitella vittoriana” che stava cercando di cucire sulla zia. E immaginerà di raccontarlo a un amico, senza riuscire a nascondere un sentimento misto di orgoglio e gelosia, perché a lei, così disillusa, non è dato “credere” con tale convinzione nelle cose. E anche per il lettore, che pure conosce l’impegno sociale di Eleanor, quel gesto di stizza è una novità, una novità che arriva dopo circa tre quarti di romanzo; quel gesto che sembra per certi versi riassumerlo, il romanzo: ne condensa i rapidi passaggi da un registro, da un tono, all’altro, le situazioni talvolta grottesche, la capacità di costruire ritratti di personaggi sorprendenti e coesi al tempo stesso, l’impegno civile e politico che, come quello della stessa Virginia Woolf, è sempre pronto a risalire in superficie, tra i “fatti”, quasi inaspettato, ma non per questo meno necessario.
Accurata recensione di un’0pera molto importante della narrativa di V.Woolf.,che mette in rilievo la cifra stilistica della grande Virginia.
Dal punto di vista semantico, tra le parole importanti del testo, che avvalorano il quadro tracciato, c’è la nozione inglese di “happiness” e il suo contrario (unhappiness) così ‘british’, nella sua dialetticità esistenziale, svelata con pudore e oggetto di riflessione graduale. Si tratta di rapportarsi al mondo con successo, oppure di ammettere la sconfitta, ma in modo sommesso e aperto al confronto, soprattutto intellettuale, non escludendo i topos culturali della follia, rischiosa ma critica.
Una scissione tra i due mondi, quello speculare e l’altro, consueto e rassicurante, della quotidianità, è la situazione narrativa di cui, in ogni caso, si avvale l’autrice. Virginia mantiene alta la ‘suspence’, ci presenta il tema della ‘congiura degli oggetti’, presenti nelle stanze e in giardino, con riferimenti al fantastico, appena accennati e poi lasciati al lettore, come interprete e giudice assoluto.
La realtà si popola di ‘presenze’, autonome, dialoganti, oppure cariche di tensione emotiva. E’ una caratteristica della scrittura totale che non esilia le pure emozioni, piuttosto sa collegarle alla crescita interiore, coadiuvata da scelte lessicali filtrate e allusive, dense di splendide analogie, da far invidia al linguaggio poetico. Si produce dunque un effetto di straniamento nell’ambiente, che rivendica una sua originale autonomia e modifica la posizione del personaggio di fronte a se stesso, questi, nella fattispecie la nostra Isabella, rischia di non riconoscere / riconoscersi.
Non definirei un simile approccio specificatamente ‘femminile’, se non come valenza del tutto positiva e qualificante, nella sua radicale innovazione. E’ un rovesciamento di prospettiva nella scrittura e nella critica alla società. L’autrice mette in questione l’ovvio ed il banale e, soprattutto, ruoli e convinzioni, acquisite dalle donne senza un vero contraddittorio, o una chance di salvezza, personale e collettiva.
E’ una scoperta che siamo abituati a legare al “working of mind”. Lo possiamo intendere, limitando i riferimenti all’essenziale, come la ben nota attitudine narrativa e riflessiva novecentesca del ‘flusso di coscienza’ che ci ha regalato capolavori come “L’Ulisse” di Joyce, la Recherche proustiana. La Woolf, protagonista assoluta in tal senso, si avvale tuttavia di una sorta di ulteriore problematizzazione, interna alla stessa precaria realtà, rappresentata dal riconoscimento di una questione femminile urgente e irrisolta (si veda la sua famosa opera “Una stanza tutta per sé” ) da rivelare con strumenti narrativi originali e persuasivi.
La tematica in oggetto è presente anche in altre sue opere. A tal uopo, i romanzi di Virginia Woolf, collegati piuttosto direttamente con questo racconto, sono “La Signora Dalloway”, e “Orlando”. Il primo, per il ritratto della protagonista, e il secondo, per il senso acuto dello sdoppiamento, segnato, con rara levità, dall’ambiguità sessuale. L’autrice, inoltre, riconosce al linguaggio un potere quasi taumaturgico, a tratti più aperto, nella decodifica dei significati. Non è possibile tuttavia dimenticare le pagine raffinate e ipnotiche del romanzo “Le Onde”, vertiginosa prova narrativa, quanto a bellezza, ancorché ardua, qualora si chieda l’esaustività dell’approccio interpretativo. Il linguaggio, medium concettuale tra la specularità e l’io che guarda se stesso, ancora una volta si propone come aspetto rilevante di ogni rinnovamento. Esso scompone la luce dello specchio in modo sempre nuovo ed inesauribile. A specchiarsi è un intero mondo, sapientemente evocato dall’autrice, per gradi, in un progetto di creatività arduo che non ha smesso di stupire ancora oggi per la sua unicità.