di Isabella Mattazzi
[Questa intervista è uscita sul «Manifesto»]
Di Emmanuel Carrère scrittore, in Italia in questi giorni per presentare il suo nuovo romanzo Il Regno appena uscito per Adelphi, sappiamo pressoché tutto. Meno nota invece è la sua passione per il cinema, così come la sua attività di regista. Il festival di Locarno, che tra il 19 e il 22 marzo si presenta nella terza edizione della sua sezione primaverile, ha dedicato questi quattro giorni di proiezioni a Carrère chiedendo allo scrittore non solo di presentare i suoi due film, ma di comporre lui stesso un programma fatto di proiezioni che siano in qualche modo significative del suo immaginario.
I.M. Il cinema è stato da sempre un centro di interesse molto forte per lei. Ha pubblicato una monografia su Werner Herzog, all’inizio della sua carriera ha lavorato come critico cinematografico per la rivista “Positif” e ha scritto diverse sceneggiature per la televisione. Nel 2003 ha deciso di girare un suo primo film “Ritorno a Kotelnich”, cosa niente affatto scontata per chi scrive e si occupa di cinema, per quale motivo ha sentito il bisogno di passare dall’altra parte dello schermo?
E.C. A dire la verità l’idea di fare un film non è nata da una volontà precisa. Nel 2000, appena pubblicato L’Avversario, mi sono trovato in un periodo abbastanza caotico della mia vita, ero completamente svuotato, senza una direzione precisa in cui andare. Mi hanno proposto un soggetto per un reportage – la storia di un soldato ungherese fatto prigioniero in Russia e rimasto lì per 55 anni dopo la guerra, una specie di Kaspar Hauser rinchiuso in un ospedale psichiatrico in un paesino a 800 km da Mosca – e ho accettato. Il reportage non sarebbe stato qualcosa di scritto, come da sempre ero abituato a fare, ma un breve documentario per una trasmissione televisiva. È stato così che sono partito per Kotelnich con un cameraman e un fonico per un paio di settimane e ho scoperto che lavorare in équipe – per me che sono da sempre abituato alla solitudine della scrittura – mi piaceva moltissimo. Nella vita degli abitanti di Kotelnich c’era qualcosa che mi attirava, qualcosa di non ben definito, ma che mi era immediatamente sembrato importante cogliere, una sorta di “materiale romanzesco”.
È stato così allora che è nata l’idea di tornare di nuovo a Kotelnich e di girare un film documentario di respiro più ampio. Che cosa l’attraeva di più nella forma documentario rispetto a una pura e semplice fiction?
Normalmente un film si basa su una sceneggiatura scritta e la segue più o meno fedelmente, il lusso straordinario che invece offre un documentario è il fatto di non sapere assolutamente dove si sta andando. Kotelnich è un film che è stato realizzato attraverso tre successivi blocchi di riprese ed è stato inventato in sede di montaggio, prima di montarlo non sapevamo letteralmente cosa ne sarebbe venuto fuori.
La differenza radicale tra il cinema di fiction e la produzione documentaria, è che tra il regista e le riprese c’è di mezzo il reale. Durante le riprese non c’è solo il pensiero creativo che esce dalla testa del regista, ma la realtà reagisce e risponde al suo sguardo. A Kotelnich la realtà ha risposto in modo terribile e profondamente sconvolgente. Prima che Anja – la protagonista della storia – fosse assassinata, non avevo idea di cosa sarebbe diventato quel film, la sua morte ha come dato un’improvvisa organizzazione al racconto, tutte le immagini che avevamo filmato hanno di punto in bianco trovato un ordine intorno alla sua morte. È terribile da dire, ma è stato così.
La cosa che ho trovato più toccante nel film è la sua voce. Nel documentario ci sono ampie sezioni in cui lei parla di cose estremamente intime, personali, e le immagini scorrono come se fossero un puro e semplice accompagnamento alla parola. Che cosa rappresenta, che funzione ha per lei l’immagine?
Anche se sono un grande amante del cinema da sempre, non credo di essere qualcuno di profondamente visuale e non credo neppure che la mia scrittura sia troppo visiva, descrittiva. Durante le riprese a Kotelnich ho deciso di non controllare l’immagine. Fin dall’inizio ho lasciato che il mio cameraman si occupasse in tutto e per tutto delle riprese, che decidesse lui cosa e come filmare. Il mio compito era quello di creare situazioni, decidere dove andare e chi incontrare, ma riguardo al risultato concreto sulla pellicola volevo in un certo senso poter disporre di immagini di cui allo stesso tempo non ero responsabile, immagini che non mi appartenevano. In questo film c’è una specie di rinuncia al controllo. Il controllo, la mia parte ordinatrice interviene soltanto durante il montaggio, una volta che tutti gli elementi cinematografici sono già stati prodotti. Un discorso simile si potrebbe fare anche per la scrittura, più vado avanti e più mi accorgo che sulla pagina lascio che le cose accadano, cerco di esercitare il minor controllo, la minor censura possibile.
Nel 2005 ha realizzato un secondo film, “L’amore sospetto”, trasposizione cinematografica del suo romanzo “Baffi”. Perché la scelta di un testo letterario? E quali problemi ha comportato portare sullo schermo un testo così ambiguo, tutto giocato sul confine sottile tra la realtà e la sua distorsione percettiva?
Tanto sono profondamente attaccato a “Ritorno a Kotelnich”, quanto “L’amore sospetto” non ha moltissima importanza per me. Sì, certo, sono contento di averlo fatto, ma non è il genere di cinema che preferisco. L’esperienza di “Ritorno a Kotelnich” era stata talmente entusiasmante per tutte le persone che vi avevano preso parte che insieme alla produttrice del film, Anne-Dominique Toussaint, abbiamo deciso di ripetere la cosa. Questa volta si sarebbe trattato di una fiction. Fare un film vero e proprio è sempre stato il mio sogno di adolescente e all’improvviso mi veniva offerto dal destino questo regalo inaspettato. L’unico problema è che non avevo alcuna idea su che cosa volessi filmare. Mi è venuto in mente che all’uscita di Baffi, in parecchi avevano tentato una trasposizione cinematografica del libro senza riuscirci è mi è sembrato abbastanza naturale cercare di provarci anche io. In fondo i diritti del libro erano miei, la storia l’avevo scritta io, era un po’ come giocare in casa. Ben presto però, durante le riprese, ci siamo trovati di fronte a un ostacolo non da poco. L’immagine necessariamente “autentifica” le cose. Al cinema ci sono momenti in cui siamo obbligati a mostrare, a fare vedere la realtà. Cosa che per quanto riguarda una storia come quella di Baffi, in cui ogni cosa può essere anche il suo contrario, si è rivelata estremamente complessa da realizzare cinematograficamente. È forse per questo che alla fine il film non mi ha convinto più di tanto. In realtà sono grato al film solo per un particolare tecnico. Il libro è scritto interamente dal punto di vista del personaggio maschile e giocato su minime sottigliezze di tipo psicologico, cosa che mi ha imposto un estremo rigore nella messa in scena e mi ha fortunatamente evitato di cadere in tutti quegli eccessi, quella magniloquenza di inquadrature barocche tipica di chi è alle prime armi dietro una telecamera.
“L’amore sospetto” è una riproposizione del romanzo estremamente fedele tranne che per un unico elemento: il finale, tragico per quanto riguarda il libro e di segno diametralmente opposto nel film
La questione del finale cambiato riguarda due diversi fattori. Il primo di ordine pratico. Letteralmente non sapevo come poter filmare il suicidio del protagonista senza che venisse fuori una sorta di ridicola scena splatter. E neppure si poteva realizzare il suicidio attraverso un’ellissi, qualcosa di allusivo. Nel libro è una scena molto forte, molto violenta, risulta davvero impossibile edulcorarla. C’è un’altra ragione però, più profonda. Rispetto alla stesura del libro, quando ho girato il film avevo vent’anni di più. Passati vent’anni mi sono accorto che in realtà non avevo più voglia di raccontare una spirale di follia e di disperazione, ma mi interessava rappresentare la storia di una coppia e il modo in cui, malgrado tutto, una coppia arriva a uscire da una crisi, da un disaccordo assoluto sulla realtà. Alla fine del film entrambi i protagonisti sanno che da quel momento in poi la loro vita si reggerà su un compromesso, che il terreno è minato e fragilissimo, ma che ciononostante è stata loro offerta una soluzione per rimanere in piedi. O meglio, lui ha coscienza di tutto questo, perché di lei non sappiamo nulla, la sua logica a noi rimane del tutto opaca. Nel film ho voluto dare una seconda chance al protagonista, perché in un certo senso ho sentito il bisogno di dare una seconda chance alla mia vita.
[immagine: Emmanuel Carrère]