di Daniele Balicco
[Il numero 68 della rivista «Allegoria» è dedicato allo studio dell’identità italiana contemporanea, e in particolare a un punto di forza della storia italiana recente, il Made in Italy come fenomeno storico, economico e culturale, studiato in una prospettiva multidisciplinare che comprende economia, moda, design, pubblicità, agroalimentare, musica, cinema, letteratura, filosofia. Questa è l’introduzione del curatore del numero, Daniele Balicco]
Gli italiani hanno fatto una scoperta che è la scoperta definitiva degli esseri umani: hanno scoperto che esiste soltanto una vita.
Gabriel García Márquez (1987) [1]
L’Italia sta attraversando, da almeno due decenni, un periodo di profondo smarrimento culturale. Usando la terminologia di Ernesto De Martino, potremmo sostenere che la nostra nazione si trovi in una vera e propria “crisi della presenza”. Una crisi cioè che non colpisce solo alcuni aspetti della nostra società (l’economia, il governo dello Stato, la cultura, l’istruzione di massa, l’ambiente, il riconoscimento internazionale), ma le forme elementari che regolano il senso di appartenenza di una popolazione ad un territorio; e alla sua storia.
Il sintomo più evidente di questa radicale crisi d’identità è riscontrabile in un doppio movimento conoscitivo sempre più comune nella rappresentazione che giornali, media, cinema, letteratura e, pamphlet vari danno del nostro paese: da un lato, una feroce attitudine auto-demolitoria; dall’altro, un’esterofilia sempre più cieca. Se questo tipo di descrizione è anche solo parzialmente verosimile, risulta evidente che fra differenziate percezioni internazionali dell’Italia, immagine auto-percepita e realtà sociale ed economica effettiva si aprono ampi spazi di non coincidenza e di contestazione, che crediamo sia quanto mai utile approfondire.
Per questa ragione, l’obiettivo del nuovo numero della nostra rivista è un obiettivo anzitutto conoscitivo. Il numero 67 è stato integralmente dedicato alla figura di Edward Said come intellettuale politico. Facendo propria la lezione più importante di Orientalismo, la redazione di «Allegoria» ha deciso di provare a studiare l’“italianismo” contemporaneo, vale a dire la costruzione simbolica dell’immagine dell’Italia oggi così come appare se osservata fuori dei confini nazionali. In particolare, ci interessava capire come il nostro paese sia riuscito, soprattutto in questi ultimi quattro decenni, ad imporre con forza, attraverso il brand Made in Italy, un’immagine di Sé come modernità godibile. Un’immagine di Sé sempre più riconoscibile e forte, e che radicalmente confligge con l’auto-percezione che buona parte della cultura italiana, soprattutto umanistica, ha della propria modernità come fallimento istituzionale e catastrofe antropologica.
Se consultiamo, per esempio, gli ultimi dati forniti dall’Indice dell’Export dei principali distretti industriali italiani curato da Marco Fortis e Monica Carminati per la Fondazione Edison,[2] nonostante cinque anni di pesante crisi economica l’Italia resta la seconda potenza manifatturiera d’Europa, la quinta del mondo. Sono dati decisamente sorprendenti, soprattutto perché smontano l’auto-rappresentazione dell’Italia contemporanea a cui siamo abituati, vale a dire come un paese in pieno declino economico e culturale. Come ogni altra ricerca statistica, l’interpretazione dei dati aggregati è, naturalmente, discutibile. Tuttavia, ci interessava partire da questa lettura, proprio per mostrare come esistano ampi spazi di non coincidenza fra auto-percezione e realtà.[3] Per questa ragione, abbiamo deciso di aprire il numero 68 con un saggio di Francesco Garibaldo che aiuta anche il lettore con scarse competenze economiche a farsi un’idea più circostanziata dei punti di forza, così come dei problemi, della struttura produttiva dell’Italia contemporanea; mentre la successiva intervista a Giovanna Vertova consente di approfondire il conflitto delle interpretazioni, interno alla teoria economica, sul significato storico della rivoluzione dei distretti industriali a cavallo fra anni Sessanta e Settanta, e sulla sua metamorfosi in quello che oggi viene chiamato il sistema delle “multinazionali tascabili”.
Continua su «Allegoria».
[1] G. García Márquez, «Sono un realista puro e triste», intervista a G. Minoli, in «il Sole 24 Ore», 18 aprile 2014 (il testo, trascrizione di un’intervista registrata dalla Rai nel 1987, è disponibile anche alla pagina Web http://www.ilsole24ore.com/art/cultura/2014-04-18/sono-realista-puro-e-triste-cerca-magia-200431.shtml?uuid=ABp2fJCB).
[2] M. Fortis, M. Carminati, Indice dell’Export dei principali distretti industriali italiani, Approfondimenti statistici, Fondazione Edison, Quaderno 136, gennaio 2014; il materiale è disponibile alla pagina Web http://www.fondazioneedison.it/binaries/pdf/pubblicazioni/quaderno136.pdf.
[3] Siamo ben consapevoli del fatto che dietro il successo del brand Made in Italy ci siano molte luci, così come molte ombre; basterebbe leggere anche solo il reportage di Giuseppe Ciulla, Ai confini dell’Impero. 5000 km nell’Europa dei diritti negati (Jaca Book, Milano 2011), per rendersi conto dell’enorme responsabilità europea (in primis tedesca e francese e poi italiana) nell’aver creato, con l’annessione dei paesi dell’Europa dell’Est, una colonia interna di sfruttamento selvaggio per le varie economie forti del continente, Made in Italy compreso. Le ombre, insomma, non appartengono solo alle produzioni nostrane, ma andrebbero studiate in parallelo all’interno del sempre più folle meccanismo di competizione infra-europeo e internazionale. Sullo scenario politico economico europeo, all’interno del quale va studiato il Made in Italy, si veda anzitutto: A. Graziani, Lo sviluppo dell’economia italiana. Dalla ricostruzione alla moneta europea, Bollati Boringhieri, Torino 2000; mentre per una prima bibliografia sull’attuale crisi economica e politica dell’area Euro, si veda: D. Marsh, The Euro. The Battle for the New Global Currency, Yale University Press, New Haven 2011; A. Bagnai, Il tramonto dell’Euro. Come e perché la fine della moneta unica salverebbe benessere e democrazia in Europa, Imprimatur, Roma 2012; R. Bellofiore, La crisi globale, l’Europa, l’euro e la sinistra, Asterios, Trieste 2012; A. Cohen, De Vichy à la communauté européenne, Puf, Paris 2012; V. Giacché, Titanic Europa. La crisi che non ci hanno raccontato, Imprimatur, Roma 2012.
[Immagine: Michael Haas, Biennale, Venezia 2014, https://www.flickr.com/photos/
Da leggere. Lucido e acuto. Bravo Daniele Balicco
Interessantissimo, davvero. Solo una domanda: quali sarebbero le “moltissime parole italiane” che “hanno sostituito termini inglesi o francesi nel linguaggio internazionale del cibo, della moda e del design”? Le parole italiane in questione non sono forse quelle da sempre in uso nel linguaggio internazionale, poiché indicano prodotti specificamente italiani?
Mi interesserebbe molto scoprire che invece c’è stata, dal lancio del brand Made in Italy in poi, una -seppur piccola- colonizzazione linguistica dell’italiano.
Grazie
Io vorrei capire come sia possibile produrre un numero che osservi la realtà e parallelamente porsi domande a partire da Jameson e le soluzioni immaginarie, che sono un parto delle sue tesi, ancora più fumose, su un presunto inconscio collettivo. Si può leggere la forza simbolica del made in italy come soluzione ai conflitti politici o come compensazione? No, ovvio che no. Ma cos’è, magia per caso? Vorrei capire dove posizionare una minima correlazione fra gli scontri di piazza e il design, e poi perché mai l’effetto sarebbe stato quello e non qualsiasi altro. Poi se si vuole giustamente smontare la lettura superficiale degli anni di piombo oscuri con il riflusso e lo svacco, perché tirare in ballo robe impalpabili come la forza simbolica?
@ L.Gallo
Gentile L.Gallo esiste una tradizione linguistica italiana che è sempre rimasta in uso in alcuni linguaggi specifici (la musica classica, per esempio). Tuttavia, in questi ultimi decenni, alcune parole italiane (pensi anche solo alla parola italiana LATTE che è entrata nel linguaggio comune anglosassone non come sostituto generico di milk, ma come sostituto specifico, il latte scaldato al bar etc…).
@ DFW
Gentile DWF il discorso di Jameson non ha niente a che fare con l’idea di inconscio collettivo di Jung; la tradizione da cui deriva questa idea (che credo possa essere pensato, più come suggestione, che come linea teorica forte – non a caso nell’introduzione segnalo che è un’idea da maneggiare con cautela) è l’antropologia di Levi-Strauss. Il discorso sarebbe lungo, ma l’idea è che la dimensione estetica sia sempre una compensazione della dimensione storico-sociale. Niente di così originale, in realtà. In fondo anche Lukacs, Adorno o, chessò, Sartre vanno in questa direzione. Si può seguire o meno questa pista di ricerca, naturalmente, è solo un’ipotesi. Personalmente credo che uno studio ravvicinato della traiettoria personale di alcuni protagonisti del Made in Italy – come Sotsass, Toscani, Freccero, Mendini, Petrini etc… – possa far vedere molto bene come una serie di idee e passioni nate negli anni della contestazioni si trasformino in un cavalli di battaglia commerciali del Made in Italy. Il caso del design radicale e del movimento slow food è, da questo punto di vista, molto interessante. L’idea di forza simbolica, invece, è un’idea che deriva non tanto dalla tradizione della psicologia analitica, ma da quella dell’operaismo italiano secondo cui il capitalismo risponde alla propria contestazione politica riutilizzando i contenuti sociali della medesima a proprio vantaggio: qui sta la chiave teorica su cui, naturalmente, si può ragionare a lungo. Queste sono le due tradizione che faccio incrociare nella mia introduzione, non la psicologia analitica di derivazione junghiana, verso cui, per altro, forse a differenza sua, nutro comunque un profondo rispetto.
@ DFW
Essendo Allegoria una rivista letterario-filosofica, mi sembra naturale che l’estetica rimanga uno dei campi d’indagine privilegiati su cui si concentrano i suoi autori.
La sua polemica, per cui, mi sembra davvero poco pertinente, in quanto vorrebbe svalutare di senso i presupposti stessi che stanno alla base della teoria letteraria. Mi spiego meglio: come se ci trovassimo a fare un commento su un articolo di una rivista economica e si polemizzasse, ad esempio, sul fatto che siano presenti troppi grafici e statistiche. Trattandosi, appunto, invece, di una rivista letteraria, che, come sanno i suoi abituali frequentatori, prende spunto da molti modelli critici (compreso il marxismo e la sociologia di un Faucault o di un Bordieu), è ovvio che certe strutture simboliche-narrative vengano connesse anche con la realtà politica e sociale.
L’idea poi che l’estetica metta in campo dei meccanismi psicologici a volte di rimozione e catarsi, è in realtà una strategia antichissima. Innanzitutto, a livello teorico, provengono dalle stesse analisi freudiane sull’interpretazione della scrittura.
Ma per esempio, un critico letterario come Genette, nella sua opera di “Figure I, II, III” ecc. di analisi di strumenti linguistici, prende ad esempio la favola antichissima de “Le mille e una notte” per sottolineare come Sherazad riesca proprio, attraverso i suoi racconti, a salvare ogni giorno delle donne innocenti dalla furia vendicativa del sultano. Sherazad, attaverso la tecnica che rimandava di continuo il finale della storia, e per mezzo delle digressioni, come quella dei racconti che si incastravano in altri racconti, riesce così a raggirare la minaccia della morte.
In pratica Genette dimostrava come il contenuto di questa raccolta di novelle arabe precipitasse in forma. Ovvero, che la morale della storia, al di là del semplice plot, spiegasse in realtà la funzione stessa dell’ Affabulazione in generale. E come quest’utlima avesse, tra le sue numerose funzioni, di nuovo, quella di catarsi, rimozione del trauma, della scissione, e del pericolo.
Ovviamente Allegoria è una rivista improntata sulla ricerca e l’innovazione degli strumenti ermeneutici in generale, e che indaga sullo stesso contenuto che ci lascia la tradizione. Si interroga sulle diverse possibilità d’interpreatzione che può aver avuto la cultura italiana nei decenni passati rispetto al momento presente, proprio perché il significato di un evento storico non è un momento fissato “per sempre”, ma cambia di generazione in generazione in base anche alla PROPRIA EPOCA, AI BISOGNI CHE CI IMPONE IL NOSTRO PRESENTE. Reinterpretare il passato (anche recente degli anni ’80) serve per fornirci nuovi strumenti di comprensione anche delle circostanze attuali, che non si potevano scorgere all’ora perché emergono solo adesso nella loro lunga traiettoria.
Gli autori di Allegoria, con sforzo e impegno (non economicamente retribuito), scommettono su nuovi paradigmi e proposte di significato, rischiando anche di sbagliare, ovviamente.
Rimane il fatto però che, come dimostrato, anche questa scommessa non sia per nulla arbitraria, ma, come del resto è stato annunciato apertamente nell’introduzione di Daniele Balicco, si tratterebbe di “un’indagine conoscitiva” che si basa su spunti e ipotesi. Tuttavia si radica anche su un IMPIANTO TEORICO LETTERARIO BEN CONSOLIDATO NELLA TRADIZONE che (al di là di F. Jameson) VEDE PROPRIO LA SCRITTURA COME SUBLIMAZIONE DI UN TRAUMA SOCIALE E UMANO.
(al di là delle spiegazioni che ho fornito non si capisce comunque da dove proviene un commento che sa quasi di invettiva contro gli autori di Allegoria e le loro diee).
Grazie
@DFW vs RB
La forza simbolica, signor “DFW vs RB”, è quella che anima la sua paura di rivelare il suo vero nome, o che la spinge a non usare i suoi veri estremi anagrafici: è inutile fingere di non sapere di cosa si tratta, lei è il primo a conoscerla e a esserne vittima.
La forza simbolica è quella forza misteriosa che la spinge a definire ‘fumose’ le teorie sull’inconscio collettivo senza dare spiegazioni del suo giudizio, quella che le suggerisce l’aggettivo ‘presunto’ solo perché Jung è il simbolo di qualcosa di ‘impalpabilmente’ negativo per lei.
Se ha qualcosa da dire usi qualche argomento e non faccia ricorso a giudizi ‘fumosi’. E non sbrighi come ‘roba impalpabile’ un concetto come quello di forza simbolica su cui esistono ormai intere biblioteche e che, come ha ricordato @Balicco, rende possibile discipline come la sociologia, l’antropologia o pratiche come il commercio, l’economia, la moda.
Il numero di Allegoria e le tesi difese da Balicco sono tra le cose teoricamente più innovative e interessanti uscite negli ultimi anni. Se vuole confrontarsi con queste tesi lo faccia con argomenti e contro-esempi: non ha né l’autorità né il genio per sbarazzarsene con una battuta.
Mi scuso per l’errore, intendevo “inconscio politico”, parlando appunto del saggio di Jameson.
Però ecco, anche dirmi che in fondo è poco originale, che è sulla scia delle riflessioni di Adorno e compagnia bella. Ma che importa? È vero o no? È possibile che uno ponga ipotesi su ipotesi all’infinito? Io ho chiesto, e questo si capisce nel mio commento, cosa significa che la dimensione estetica sia sempre una compensazione eccetera. Cosa vuol dire nei fatti? Leggendo Jameson egli a un certo punto scrive che poiché “tutto è politico”, guardandosi bene dal dimostrare in qualche modo il suo assunto, ogni atto creativo è un atto incosciamente politico. Poi dice che non è quello il saggio in cui verificare la sua tesi e passa oltre. Ma è modo questo? Qui non si tratta come accenni, del fatto che ognuno nelle sue creazioni si porta dietro il suo bagaglio di esperienze, cosa ovvia; scrivi una cosa diversa, che il successo del made in italy sia stato una soluzione ai conflitti sociali. Non è per me un problema seguirti o meno, è che mi pare che non ci sia nessun tentativo di spiegare di cosa si sta parlando, di quale attinenza possa esserci col fatto che le opere di migliaia di artigiani-artisti siano state molto apprezzate in tutto il mondo con i conflitti sociali di un paese, e cosa poi significa “soluzione” e “compensazione”. Poi cosa significa che il capitalismo riutilizza a proprio vantaggio la contestazione sociale? A parte che parli del capitalismo come fosse un organismo vivente, e non lo capisco, puoi spiegarti? Stai dicendo che laddove le lotte non hanno avuto successo sul piano politico lo hanno avuto sul piano estetico? Del tipo farete una vita di merda però vestitevi come si deve? Poi ecco, l’Italia è cresciuta economicamente per via della crescita europea nel dopoguerra, disponendo di forza lavoro a basso costo e tecnologie importate, passata la corrente favorevole è dagli anni ’90 che stiamo con crescita 0, e ritardo nell’istruzione diffusa, soprattutto scientifica. Il motivo per cui siamo rimasti forti soprattutto nel made in italy è che non richiede alta tecnologia, è un insieme di capacità trasmesse artigianalmente.
@ D’alessio
no, non contesto i presupposti alla base e il parallelo coi grafici non è corretto. In campo economico si fanno teorie su quale cosa influenzi o meno certi eventi e poi si verificano le teorie attraverso i dati e i grafici, al limite del possibile e tenendo conto di quante dinamiche entrano in gioco. Poi si tirano le somme. Esiste il marxismo, e mi sta bene, ma 1) questo non dice nulla sulla validità del marxismo come cornice critica, e 2) questo non dice nulla su quanto sia opportuno usarla per qualsiasi argomento. Qualsiasi connessione venga fatta immagino che sia passibile di verifica o meno, questo ho chiesto, forse in maniera veemente, ma non certo come invettiva contro gli autori, che non conosco, oltretutto sono un anonimo lettore. Io poi mica contesto la voglia di offrire nuove interpretazioni, io ho chiesto lumi su uno specifico punto. A me interessa sapere come vengano in mente certe idee e cosa significano certe parole, possibilmente senza rimandi ad altri autori, che è un modo per non spiegare. Balicco stesso nota come la lettura degli anni ’70 e poi ’80 sia inaccettabile, allora chiedo come mai nel tempo si è formata un’idea del genere. Parla anche del fatto che la modernità godibile confligge con l’idea di catastrofe e disastro antropologico che circola negli ambienti umanistici. Sarà forse perché in questi ambienti nel tempo invece di verificare ciò che si dice si continuano a passare di carta in carta cornici teoriche prive della minima attinenza coi fatti? Questo dubbio non viene? In ogni caso ti ringrazio degli spunti, solo che non spiegano affatto ciò che ho chiesto (mi stai dicendo che se scrivo una canzone è perché sto sublimando un trauma? È credibile questa idea? Tanto da poterci costruire un impianto teorico? Che il contenuto si faccia forma lo capisco, che avvenga il contrario mi pare arduo, nessuno smette di aver paura della morte leggendo una storia. Una persona può trarre beneficio dallo scrivere, ma non vedo come questo ci permetta di interrogare un momento storico, di investirlo di significato con termini psicologici, che sono propri delle persone, non dei momenti storici), ovvero che attinenza ci sia tra scontri di piazza italiani e made in italy, qual è il nesso causale. Ecco, se c’è un presupposto che contesto è questo: che si cerchi di interpretare cose che non vanno interpretate, ma solo riportate.
@ The real guy
Io non ho qualcosa da dire, ho espressamente detto che non capisco come x possa essere letto in un certo modo. Vorrei spiegazioni in merito, come immagino chiunque legga con interesse, come io stesso ho fatto, il pezzo di Balicco e il numero in generale (che invece non ho letto). Che poi siano idee innovative nulla porta a loro merito, conta la qualità, non arrivare prima o dopo. Io prima di potermi confrontare, cosa in fondo irrilevante, voglio poter capire.
Poi: ciò che mi impedisce di firmarmi è l’ansia, che ha delle basi biologiche: pure le lumache c’hanno l’ansia. L’ansia dipende dallo stare con gli altri in un certo modo, nulla di misterioso o simbolico. Ciò che mi fa dire “presunto” dell’inconscio di Jameson è il fatto che non ci credo, ho letto il suo libro fino a un certo punto e mi è parso pieno di confusione. Tale giudizio può derivare da ignoranza e incapacità di comprensione, ma certo non può essere la stessa cosa che mi impedisce di firmarmi. Il commercio e l’economia no, non dipendono dalla forza simbolica, esistono perché esistono i bisogni e poiché il mondo è un insieme di beni finiti. Esistono biblioteche su tante sciocchezze, che c’entra. Io ho letto con interesse il pezzo di Balicco, ho però trovato assurdo un passo, non mi pare così grave e in ogni caso non intendo certo squalificare altro, tanto più che non ho letto il numero.
@ DFW
“no, non contesto i presupposti alla base e il parallelo coi grafici non è corretto. In campo economico si fanno teorie su quale cosa influenzi o meno certi eventi e poi si verificano le teorie attraverso i dati e i grafici, al limite del possibile e tenendo conto di quante dinamiche entrano in gioco. Poi si tirano le somme”.
…tirano le somme e sbagliano…vedi crisi attuale. sono 7 anni che usano gli stessi modelli teorici falsi, ma non se ne discostano di un centimetro.
L’immaginario si trova dappertutto e permea le nostre vite, come le nostre letture, non solo in letteratura, ma in ogni campo. Per quanto riguarda l’economia le faccio un esempio:
l’idea neo-classica (che parte fin dai tempi di Adam Smith) per cui nel mercato esisterebbe una concorrenza perfetta (ma anche imperfetta, in molti casi) è totalmente falsa. Il mercato è, al contrario, viziato nella misura d’intervento dei capitali, della politica, e degli stessi operatori del mercato. E questo non riguarda solo le grandi compagine (come Tim, Vodaphone e Wind, ad esempio, che decidono dei cartelli per dividersi le fette di mercato). Questo tipo di accordo lo fanno anche i panettieri del paese di provincia quando si devono contendere le mense scolastiche, i bar, e i super mercati.
Eppure che si continua a studiare nei testi universitari, e si applica alle riforme politiche ed economiche, che vengono anche votate dai cittadini. L’immaginario perciò, in questo caso, è falso ma esiste e lo fa nella misura in cui convince professori universitari, studenti, politici, e cittadini che ne fanno parte. Si scelgono governi che fanno uso di questo “immaginario” che poi, ovviamente, diventa “reale” nel momento in cui condiziona le nostre vite.
L’immaginario, tutt’altro che una questione magica, contribuisce invero a produrre azioni significative nella realtà, è parte di essa in quanto sostenuta (anche a livello inconscio) da un certo numero di persone, e la struttura.
Per il resto, lo ripeto, la funzione dell’ l’estetica con questa funzione di sublimazione verso traumi sociali e umani è vecchia come il mondo.
@ D’alessio
credo ci sia un equivoco e che mi sono spiegato male, forse. naturalmente so benissimo che l’immaginario è in grado di influenzare le nostre vite, sono stato battezzato, per dire; rimandendo in tema il successo di Slow food e Eataly è dovuto in parte alla retorica sui prodotti bio, sul kilometro zero, sul ritorno alla natura e cazzate varie. L’effetto placebo viene studiato con sempre maggiore cura. Io però ho chiesto un’altra cosa, ovvero nello specifico cosa significa che la dimensione estetica sia sempre una compensazione, o una soluzione, dei conflitti, delle contraddizioni sociali. Noto l’uso del termine “sempre”. un po’ imprudente direi. che siano idee nuove o vecchie continuo a non capire cosa importi. Qui il discorso cerca di spiegare il successo del made in italy, che dipende da fattori esterni, ovvero il grado di ricezione all’estero, e interni, ovvero la bravura dei protagonisti. In che modo i conflitti sociali possono avere avuto parte in causa? i conflitti c’erano in tutta Europa eppure solo in Italia è nato il made in Italy, poiché c’erano in campo certe capacità e certe tradizioni. Uno degli intervistati da Balicco parla di rimandi alla Grecia classica e al Rinascimento. Se non ci fossero stati gli scontri di piazza non ci sarebbe stato il Made in Italy?
si legga per cominciare “Il design come strumento politico e ideologico, tra Firenze e Torino (1965-1975)”
l’architetto si trasforma da tecnico ad artista, l’ arte pop diventa una sorta di esorcismo contro la serializzazione dell’industria che stava caratterizzando il boom economico e le fatiche del dopo guerra.
questo per dire come l’emancipazione, che non si otteneva nelle fabbriche, dove probabilmente il padre operaio andava a lavorare 10 ore al giorno senza avere tempo libero per se stesso e per coltivare una sua vita indipendente, lo recupera il figlio (la generazione successiva), o il libero professionista suo coetaneo nella creazione, ad esempio, di un’oggettistica raffinata e anti-convenzionale.
Per un certo periodo questo tipo di estetica diventa il luogo della rivincita e della realizzazione di ambizioni che agognava la working-class del momento storico appena trascorso. Questo settore riesce a mettere in forma un’emancipazione che finora sembrava impossibile.
@ D’alessio
grazie per il consiglio, vedrò di leggerlo. Ci sono due problemi secondo me: il primo è che dal titolo ciò che presumo è che si tratti di un’estensione dei campi, il politico che entra in luoghi ove prima non c’era; e questo è comprensibile, ma di tutti i protagonisti del made in italy riguarderà una sparuta minoranza, e di certo il made in italy non è uno strumento politico e ideologico, e non deve a ciò il suo successo, a meno di pensare che in tutto il mondo appena uno legge made in italy pensa alle BR e alle fabbriche occupate. Ma può essere che mi sfugga il punto per incapacità e ignoranza mia e resto in ascolto. Il secondo, e ben più grave, è che bisogna essere degli idioti totali per pensare che l’arte pop possa esorcizzare alcunché. L’arte pop e tutto il nostro benessere è possibile *grazie* alla serializzazione, per cui più che un esorcismo dovremmo fare preghiere quotidiane. L’emancipazione è avvenuta prima dai campi e poi dalle fabbriche, mentre diminuiva la forza lavoro in quei settori, forza comunque presente, grazie alla serializzazione e al miglioramento tecnologico, che permette a tante persone, oggi la maggioranza, di lavorare nel settore dei servizi, di mangiare cibi migliori e di vestire meglio. La generazione dei ventenni trentenni che è scesa in piazza vi è scesa nel momento in cui era la generazione di giovani più ricca di sempre nell’Italia unita. Non si sono emancipati facendo arte, si sono emancipati stando lontani dalle fabbriche, grazie a chi nel frattempo ci ha continuato a lavorare.