Romeo Castellucci, il volto di Dio, i cattolici
di Carmen Gallo
[Dal 20 al 30 ottobre al Théâtre de la Ville, e dal 2 al 6 novembre al Théâtre 104, è andato in scena a Parigi lo spettacolo di Romeo Castellucci Sul concetto di volto del Figlio di Dio, prodotto dalla compagnia Socìetas Raffaello Sanzio, e da altri numerosi co-produttori internazionali. Le proteste di alcune associazioni cattoliche integraliste, con tanto di denunce e tentativi di boicottare le rappresentazioni ritenute blasfeme, hanno accompagnato tutte le repliche e non accennano a placarsi sul web, mentre si è appena costituito il comitato di sostegno Le théâtre contre le fanatisme, che ha già raccolto moltissime adesioni].
Parigi. “Comité de soutien à la liberté de représentation du spectacle…”. Dieci camionette, una trentina di gendarmi col mitra e un dedalo di controlli e perquisizioni. Il Théâtre de la Ville sembra lo spazio più militarizzato della città quando in cartellone c’è lo spettacolo di Romeo Castellucci Sul concetto di volto del Figlio di Dio. Si arriva nella sala senza borsa né cappotto, completamente disarmati. Lo schieramento di forze serve a scongiurare le incursioni degli integralisti cattolici che, alla prima dello spettacolo, hanno lanciato fumogeni e uova sulla gente in fila per entrare, riuscendo persino a occupare il palco per esibire uno striscione con la scritta “La christianophobie, ça suffit”. Non sembrano invece mirare ad abbassare la tensione gli avvertimenti dei responsabili del teatro che si scusano per il ritardo, e raccomandano a tutti di “non reagire con violenza, qualunque cosa accada”. E così, con questo monito a porgere l’altra guancia, e con l’ingresso di un’altra trentina di minacciosi bodyguard ai lati del palco, comincia lo spettacolo.
In un salottino-miniappartamento da naturalismo ai tempi dell’interior design, si svolge per una cinquantina di minuti la vicenda nuda e cruda (la passione, il calvario, se volete) dell’incontinenza dissenterica di un vecchio padre in vestaglia, e delle cure solerti di un giovane figlio in giacca e cravatta a cui tocca ripulire a più riprese l’uomo e l’ambiente da escrementi che sembrano invadere pian piano tutto lo spazio, fino allo spargimento-climax di una tanica di liquido marrone che chiude, tra le lacrime e la disperazione di entrambi, la performance dei due attori e l’illusione realistica.
Fin qui la trovata potrebbe non sembrare delle più interessanti, se non ci fosse sullo sfondo l’immagine enigmatica e perturbante del volto di Cristo, particolare del Salvator Mundi di Antonello da Messina, che in effetti sì, cambia tutte le carte in tavola, ed è così potente e carismatico da far dimenticare, o ripensare, gli escrementi e il forte fetore in sala. E non perché, semplicemente, riscatti la banalità disgustosa della situazione, inscrivendo nel discorso teologico la relazione padre-figlio, ma piuttosto perché il suo sguardo fisso interroga gli spettatori su quanto avviene in scena, imponendo loro di leggere e rileggere la situazione in una chiave allo stesso tempo intima, personale, e metafisica. Il volto di Cristo chiama in causa tutte le implicazioni della sfida del messaggio cristiano – la pietà, l’amore per il prossimo –, rispedendo al mittente (al Dio Padre e al pubblico) la rappresentazione della condizione umana più disperante, dall’umiliazione profonda dell’anziano, alle reazioni contrastanti, di amore e frustrazione rabbiosa, del Figlio che non abbandona il Padre.
In una performance quasi abbandonata dalle parole, il Verbo è costretto a farsi sola carne – in senso totalmente letterale – di un’umanità decrepita, incontinente, di cui Castellucci intende mettere in scena, in chiave metaforica, la perdita di sé come perdita della propria sostanza, richiamando il sacrificio del Figlio sulla croce, ma anche l’esperienza comune, fisica, della vita e della morte. In scena e sullo sfondo, dialogano due profili apparentemente antitetici della religione e del sacro, quello iperrealistico su cui spesso indugia la teologia medievale, e quello sublimato della pittura rinascimentale che dà all’irrappresentabile un volto umano, ma ambiguo, indecifrabile, che nel corso dello spettacolo sembra oscillare tra la compassione, l’indifferenza, e nel finale sfociare persino in impietoso sarcasmo.
In un’intervista apparsa su Le Monde del 27 ottobre, Castellucci ha dichiarato che l’icona a fondo scena serve a illuminare “come un canto d’amore la trivialità della situazione”. E fin qui ci siamo, l’operazione tiene, anzi, la sintesi è impeccabile. “Quand on est dans la merde jusqu’au cou, il ne reste plus qu’à chanter”, scriveva Beckett.
Ciò che invece si apre davvero a infinite interpretazioni – e che ha scatenato le ire degli integralisti – è l’epilogo della performance, la caduta dall’alto di un liquido scuro che cancella il volto delle mille domande, e a cui segue il gesto – di cui Castellucci nega l’intenzione iconoclasta – di sfigurare dall’interno l’immagine del volto di Cristo, lasciando posto alla scritta: You are not my shepherd, dove not è in controluce, non allineato con il resto, quasi un’aggiunta dell’ultima ora alla famosa frase del Salmo 22 rivolta a Dio pastore.[1]
Il volto imbrattato, quasi bruciato dall’effetto delle luci, e poi sfigurato sulle frequenze della musica di Scott Gibbons; il liquido nero, che facilmente rimanda agli escrementi in scena; la provocazione di quel non – rivolto a chi, perché. In sala, gli integralisti si limitano a indignarsi abbandonando in modo plateale gli spalti, qualcuno ci prova con la gag dei topi e urla per un po’ nel silenzio generale, sfidando non senza coraggio la reattività delle guardie. Tuttavia, fanatismi a parte, il problema in realtà non è difficile da capire. Castellucci ragiona, medita, anatomizza il concetto di volto del Figlio di Dio, ne esplora la figura, ma non crede al mondo di cui quell’immagine è la più diretta e intima espressione. È un suo pieno diritto e, infatti, parte del mondo cattolico ha accettato di dialogare con lui sui contenuti dello spettacolo. Non convincono però, a questo proposito, le dichiarazioni di Castellucci sul foglio di sala, in cui si legge che il liquido che cala sul volto è il nero, “colore dell’universo infinito”. Il telo stracciato è il passaggio “attraverso” l’immagine, “l’identificazione completa con il Cristo”. Sarà, ma – fermo restando il legittimo sostegno “à la liberté de représentation du spectacle” dei parigini – la rappresentazione del “concetto” appare, nel suo insieme, decisamente più complessa. Di spazio per interpretazioni più inquietanti ce n’è, ma anche per una parola mai definitiva. Padre e figlio scompaiono dietro la scena portando con loro le contraddizioni di una teologia poco lucida, che si arrovella su un divino reificato all’estremo, e su un’umanità che trova nell’arte più che un rifugio, l’ennesima, debole e paradossale argomentazione sulla possibilità di un senso oltre se stessa.
[1] La performance è inserita in un progetto più ampio intitolato J., e costituisce un dittico con Il velo nero del Pastore, ispirato a un racconto di Hawthorne, che debutterà nell’ambito del RomaEuropaFestival al Teatro Vascello il prossimo 10 novembre.
Sono molto grata a Carmen Gallo, perché questa recensione, oltre che molto bella è, soprattutto, molto utile.
Anzitutto per una discontinuità di competenze, sono sempre rimasta incerta davanti ai lavori dei Raffaello Sanzio. mi sembra, per es, che incarnino un concetto di avanguardia molto italiano, ovvero tutto orientato – ossessivamente orientato – all’eversione formale come gesto unico, che si basta, ma che appunto rischia di implodere.
L’immagine non convenzionale e scandalosa del rapporto Padre-Figlio sulla scena mi ha ricordato l’ultima, incompiuta, ricerca di Francesco Orlando dal titolo provvisorio “Uno scandalo cristiano. Il marito tradito”. Lì, a partire da molte costanti testuali, viene avanzate un’ ardita ipotesi antropologica oltre che letteraria: il simbolo ridicolo e degradato delle corna, la figura tradizionalmente comica del marito tradito viene messa in rapporto con l’avvento e l’affermazione del cristianesimo, col figlio in croce. Il marito deriso forse qui viene “svelato” nelle sue radici lontane e segrete e occulte. Chissà, se Francesco avesse fatto in tempo a pubblicare questo libro, se gli integralisti cattolici avrebbero dato in escandescenze? Certo, per lui, sarebbe stata una gioia, un segno che la freccia ha colpito il bersaglio…
Ringrazio anch’io per la recensione a questo nuovo lavoro della Societas che vien voglia di vedere subito. Mi incuriosisce soprattutto il finale che, almeno nelle parole della recensione, mi ricorda l’atto finale della Divina Commedia, messa in scena qualche anno fa. Un paradiso che problematizzava parecchio la nozione di ascesi e di pace e di ricongiungimento con l’assoluto, visto che si entrava in una stanza piccola, buia, il pavimento bagnato, l’aria quasi irrespirabile per l’umidità, uno schermo sui cui veniva proiettata una colata – o una risalita? – senza termine. This must be the place ? verrebbe da dire. Mi ha sempre colpito negli spettacoli della Societas la sedimentazione iconografica, la capacità di trasformare le immagini da statiche a narrazioni in corso sulla scena, e la maestria tecnica nell’uso della luce, dei corpi scenici. In Italia si fa prevalentemente teatro di parola, ma non per questo direi che la Societas sia improntata all’eversione formale a tutti i costi, anzi ha trovato un’alternativa vera al manierismo del parlato, mettendo sullo spazio scenico molto altro delle parole. Il fatto che siano stati apprezzati come compagnia all’estero, molto prima che in Italia, credo sia anche sintomatico di quanta sintonia ci sia fra la loro ricerca e quella della danza e del teatro contemporaneo internazionale, che l’avanguardia sembrano averla digerita da tempo.
… dal rifiuto del senso alla banalità del senso …
Sarchi,
hai proprio ragione: la cacciata del corpo dal teatro è una faccenda che sin dai tempi di Goldoni ha prodotto effetti spesso nefasti, e non solo sul teatro, o sulla letteratura in strictu sensu. dunque son più che d’accordo e convinta; sulla Societas un po’ meno, ma evidentemente anzitutto per un difetto di esperienza che mi hai convinto a riconsiderare.
Mi fa sorridere lo sfondo sociologico: a Parigi c’è ancora oggi un cinema d’essai che manda il Salò di Pasolini come fosse l’ultima saga dei Puffi, e poi si scandalizzano per questa messa in scena. Aveva ragione Carmelo Bene, ci sono cretini che credono alla madonna e cretini che non credono alla madonna.
Per Alessandra Sarchi:
il finale lo si trova facilmente su youtube; basta scrivere:
ON THE CONCEPT OF THE FACE, REGARDING THE SON OF GOD, VOL. I – (3° extract)
Dà l’idea di un effetto specialissimo, che non è un effetto speciale, e dal vivo, naturalmente, siamo in teatro, e senza molti trucchi e tanta musica. Ma questo è il monitor. Il teatro è ben altra faccenda. Toccherebbe andare, questo sì. Da ex spettatore abbastanza assiduo di teatro debbo dire che l’effetto, di nuovo, che mi ha fatto è forte. Mi ha fatto pensare, ma non so assolutamente perchè, ai macchinari di Ronconi in Medea. Ma è solo un pensiero. Un saluto, Adelelmo Ruggieri
Questo spettacolo conferma la mia idea di fondo: un giudizio unilaterale sulla Societas è impossibile. Sono multiformi, contraddittori, sospesi tra genialità e banalità sconcertante. Di certo, non è azzardato dire che hanno perso mordente, che si sono distaccati da quell’idea di teatro come aggressione del segno, come scarto, come contraddizione, per privilegiare una idea più accomodante – e “postmoderna” – di differenza. Ma sono così. Io li amo, pur odiandoli. Amo i loro “concerti” (Celine, le voci e i suoni della “tragedia”, il lavoro della Guidi sulla voce, la loro radicale ricerca dell’alterità sonora); li odio per come affrontano banalmente la storia (la Storia, nel senso degli eventi storico-sociali, non certo in quello della “vicenda” da narrare) e i significati.
Nutro poi parecchi dubbi sull’abbandono della parola, ma questo è discorso antico, cominciato con i vecchi Magazzini Criminali. Se differenza c’è all’interno di questo percorso, direi che in questo la Societas si distingue in positivo. Quando i Magazzini approdarono alla parola, dopo anni di sua negazione, ripresero la tradizione più vieta, come se Leo o Carmelo Bene non fossero mai esistiti; almeno la Societas cerca un’altra strada.
I miei dubbi, comuque, sono di natura estetico-politica, per così dire; e non riguardano certo la qualità del loro lavoro. Alcune trovate (non mi dimenticherà mai il cavalluccio marino che irrompe sulla scena del Giulio Cesare) sono davvero geniali. Se dovessi sintetizzare criticamente il loro percorso, ripeterei quello che ho scritto in precedenza: dal rifiuto del senso alla banalità del senso. Questo itinerario approda, non a caso, al recupero della rappresentazione (il concetto viene messo in scena, rappresentato), mentre in precedenza la rappresentazione era meticolosamente smerdata. Solo che, come ho già scritto, quell’insistenza sul concetto come cosa da rappresentare li espone alla banalità. Dietro l’immagine forte io intravedo l’incapacità di interpretare con una certa profondità il senso del presente. Ma c’è sempre la possibilità che sia il mio sguardo incapace di cogliere la loro complessità …
NeGa
grazie ng: ho imparato molto.
Grazie per il link ad Adelelmo, e per le osservazioni a Daniela.
Capisco le perplessità di Ng, solo mi domando: non sarebbe più corretto parlare di sospensione del senso, anziché banalità del senso? Un’immagine forte, o meglio un atto performativo forte come quello in cui si risolvono i loro ultimi lavori, a me sembra lontano dalla banalità, casomai si sente un sovraccarico che poi rimane sospeso e ambiguo. Bisognerebbe fare un catalogo serio del loro percorso iconografico.
@ Alessandra
quando parlo di banalità del senso mi riferisco non all’immagine, ma al concetto che ci sta dietro. Potrei farti decine di esempi ripresi, in particolare, dai diversi Episodi della Tragedia Endogonidia; mi limito a quello delle Tavole della Legge che si colorano di sangue a significare il potere ecclesiale che si trasforma in potere poliziesco. La traduzione in immagine teatrale di quel concetto non nasconde il fatto che il concetto in sé sia privo di originalità, scontato, trito e ritrito. Non è forse banale aggiungere il “non” alla frase biblica “io sono il tuo pastore”? Ma è l’immagine priva di parola che porta – direi costitutivamente – a questo risultato. Non a caso, le loro migliori immagini sono quelle che si distaccano dal referente. Poi, certo, puoi anche chiamarla “sospensione del senso”, come alcuni critici hanno fatto; quanto dipende, questa differente nominazione, dalla “sensibilità” di chi nomina? Io ritengo impossibile – umanamente impossibile – sospendere il senso; e potrei portare a testimonianza di questa impossibilità centinaia di saggi, a partire dagli studi di Ferruccio Rossi-Landi. Sospendere il senso è puntare tutto sulla sua intraducibilità: lo spettatore può interpretare come crede ciò che vede. Questa presunta (e falsa) democrazia dell’interpretazione è stato il cavallo di battaglia del “pensiero debole” e di gran parte del cosiddetto “postmodernismo” (di quella che F. Jameson chiamò “l’ideologia astorica”), che in realtà nascondeva l’incapacità di aggredire criticamente il presente. E poi, insomma, dicendo che il senso è sospeso stai dicendo che tutti i sensi sono possibili e quindi, a conti fatti, che non c’è nessun senso. Ecco, queste sono le mie perplessità “fisolofiche” sul fondo delle loro opere; resta, al contempo, la mia ammirazione per alcuni caratteri della loro ricerca.
NeGa
@Nega
Ho capito e in parte condivido. Sono d’accordo con te che il “non” aggiunto alla frase biblica sia, a questo punto, meno della maglietta con stampato il quadro e la scritta di Magritte: ceci n’est pas une pipe. Ma il pensiero debole non c’entra, secondo me. C’entra il fatto che qui hai almeno tre codici che interagiscono – visivo, verbale, e sonoro (e forse anche altro), ognuno risponde a convenzioni e regole diverse, forzandoli e intrecciandoli in questo modo ottieni un risultato contraddittorio e implosivo. Di qui la sensazione a chi partecipa che ci sia più di un senso, o che questo appaia controverso e inafferrabile. Comunicare l’ambiguità e molteplicità del reale e dell’immaginario non mi sembra operazione di chi rifiuta di aggredire criticamente il presente.
@ Alessandra
Tutto il teatro presuppone l’interazione di codici diversi; tutto, non solo quello della Societas. La frizione tra i diversi codici, per di più, è pratica molto frequente, fin dal secolo scorso (Mejerchol’d e Brecht l’hanno teorizzata a più riprese, Carmelo Bene ne è stato maestro). Solo che il plurisenso che ne scaturisce è cosa ben diversa dalla sospensione del senso. C’è anche da dire che l’evento spettacolare è sempre “ambiguo” – e quindi, come scrivi tu, “controverso e inafferrabile”. E ciò perché presuppone la compresenza – fisica – di chi emette e di chi riceve. La “comunicazione” è quindi sfuggevole, non garantita, effimera; il senso è colto solo a pezzi, mai nella sua totalità (già soltanto la differenza di competenze tra due diversi spettatori porta a due diverse letture dell’evento). Se uno vuole, col teatro, “comunicare l’ambiguità e molteplicità del reale e dell’immaginario”, sta in realtà facendo un’operazione di tipo – mi si passi il termine – “naturalistico”: imito il reale. Chi non sa, oggi, che il reale, specialmente se mediato dal linguaggio, è ambiguo? E chi non sa, oggi, che il reale non si presta mai a una lettura unilaterale e che l’immaginario è “decentrato”? Offrire, con lo spettacolo, una molteplicità di punti di vista, è cosa buona-e-giusta; solo che io ho l’impressione che negli ultimi spettacoli della Societas non ci sia nessun punto di vista. Lo spettatore si “smarrisce” nella “confusione senza speranza”; quello che manca è l’occasione di confronto.
Ma ho l’impressione che diamo un senso diverso alle parole.
NeGa
per ng:
però se è come dice, e non appare improbabile che sia così: Se è così, allora viene interpretato pressoché alla perfezione o quasi “il senso del presente”: confusione senza speranza e inevitabili smarrimento e assenza di confronto che ne conseguono: insomma, pare proprio che si parli di qui e di ora. Un cordiale saluto. Adelelmo Ruggieri
Ringrazio tutti per le interessanti riflessioni nate qui nel thread, che superano senz’altro per competenza e acutezza quanto ho tentato di dire in questa recensione. Ringrazio Daniela Brogi per l’attenzione dedicata al testo, ed Emanuele per l’associazione con l’ultima ricerca di Orlando che davvero offre uno spunto di lettura interessante e molto molto complesso. Concordo con Ng che “quell’insistenza sul concetto come cosa da rappresentare li espone alla banalità”, e sul pericolo che una scritta/slogan come “Tu non sei il mio pastore” connoti la rappresentazione di sfumature al limite del demagogico, persino del pretestuoso. Cruciale anche la distinzione tra banalità e sospensione del senso di Alessandra Sarchi, che sono contenta abbia sottolineato anche l’aspetto implosivo dell’operazione che necessariamente non poteva esporsi al confronto, né tanto meno generarne le premesse.
Aggiungo solo che mi sembra importante riportare l’attenzione sul procedimento con cui Castellucci mette in scena qui la “banalità” del senso, ovvero la forte assonanza, non solo contenutistica, ma soprattutto formale, retorica, con la teologia medievale che talvolta nelle sue dispute o negli esercizi logico-argomentativi sembra “banalizzare”, all’occhio moderno, l’oggetto stesso del suo discorso: mi riferisco per esempio ai dibattiti sulla transustanziazione cattolica nei quali spesso la mosca che cade nel vino consacrato, o le discussioni su come smaltire le ostie avanzate, sostituivano il dibattito sulla “vera presenza” o sul valore del segno/simbolo eucaristico.
Abbiamo da una parte la rappresentazione di quella che è stata chiamata qui la banalità del senso, ma dall’altra anche la storicizzazione di un procedimento di ipostasi vertiginosa, capace di restituire l’ampiezza, la grandezza, la profondità di un senso che ha abitato un tempo fuori dal presente. L’interazione tra quest’effetto teologico e il “senso del presente” che ne vien fuori – chiamato giustamente in causa da Adelelmo Ruggieri (che ringrazio anch’io per il link) – mi pare davvero tra gli aspetti più interessanti di questo lavoro.