di Paolo Febbraro
Sembra un’ossessione. O forse meno, una moda, o una maniera di autoassolversi. Qualche anno fa, Giulio Ferroni ha pubblicato un libro intitolato Gli ultimi poeti. Giovanni Giudici e Andrea Zanzotto. Lo scorso settembre 2014 Paolo Di Stefano ha ricordato il decimo anniversario della scomparsa di Giovanni Raboni designandolo come l’«ultimo maestro». E sul recente numero 285 della rivista «L’immaginazione» Romano Luperini ha salutato un benvenuto Oscar Mondadori delle poesie di Franco Fortini, ovvero dell’«ultimo fra i grandi poeti-intellettuali del secondo Novecento», anzi «una figura di poeta intellettuale che oggi non esiste più».
Lo stesso Luperini, del resto, in una nota apparsa sempre su «L’immaginazione» (n. 283, settembre-ottobre 2014), aveva attirato l’attenzione su una poesia di Valerio Magrelli, «poeta fra i maggiori, forse il maggiore, degli ultimi trent’anni», intitolata Invettiva sotto una tomba etrusca, che a suo dire comunica «una impressione di chiusura senza scampo, di un orizzonte tappato, di una morte che si reclude in se stessa e non lascia intravedere alcun possibile spiraglio di vita e nessuna alternativa. È l’alfabeto dei padri che è morto, è morta la lingua della poesia. Che la poesia e il suo linguaggio appartengano al passato, a un mondo scomparso o in via di scomparsa è stato detto più volte, da Leopardi sino, per esempio, a Fortini».
Sulla sequenza Leopardi-Fortini-Magrelli è impossibile pronunciarsi. Dico solo che argomentare sulla morte della poesia grazie ai versi di un autore che si ritiene “forse il maggiore degli ultimi trent’anni” è quantomeno paradossale. Tanto da farmi tornare subito alla contagiosa ossessione per “gli ultimi”, alla sua aura di tramonto romantico, alla sua enfasi nobilitante, al suo hegelismo insieme catastrofico e sbandierato.
Quando non si ha il desiderio, o l’elementare buon senso, di leggere i pochi “poeti”, i pochissimi “poeti-intellettuali” e i rari “maestri” che persino oggi riescono ad agire nel presente, si dice che quelli vissuti in precedenza sono stati “gli ultimi”. Ma non si certifica la sparizione di una figura, quanto la fine della propria capacità di seguirne le metamorfosi. Così, con dolente e inalberato orgoglio, alcuni nostri letterati gettano noncuranti palate di terra ancora fresca sui semisommersi, ma vivi, protagonisti della nostra cultura militante. Cento anni fa, sui primi libri di Saba, Gozzano, Rebora, Sbarbaro, Palazzeschi e Campana, i critici arricciavano il naso e magari, con Croce, sostenevano il loro Carducci o dedicavano severe attenzioni a Pascoli. In ogni caso, però, fossero Crepuscolo o Decadenza, si tentava un’analisi del presente. Oggi, invece, si preferisce il canto nostalgico per già lontani eroi, il gesto solenne e liquidatorio che chiude il Grande Libro.
Questo atteggiamento piangevole non è soltanto ingeneroso; è anche il sintomo di un provincialismo asfissiante; ma soprattutto, è un errore al tempo stesso storicistico e personale. Luperini, ad esempio, dovrebbe spiegarci perché «la lingua della poesia è morta», quando nel mondo esistono poeti eccellenti, certo in numero non amplissimo, ma capaci di rigore e ampia visione. La lingua della poesia è morta soltanto in Italia? E perché? Forse perché in Italia il letterato è impregnato di ideologie, al tramonto delle quali nulla più conosce e riconosce?
Fortini è stato l’ultimo poeta-intellettuale? Forse è stato l’ultimo poeta-intellettuale comunista, il che fa una certa differenza. E questa differenza andrebbe indagata, invece che rimpianta. Può darsi che la colpa sia dei poeti odierni. Può darsi invece che sia del comunismo. Non solo: un poeta è anche un intellettuale se questo doppio ruolo riesce a interpretarlo e se allo stesso tempo gli viene riconosciuto. Ma se non si fa che ripetere la giaculatoria sulla morte della poesia il problema non sta nel poeta, ma in chi gli nega a priori ogni udienza per via di incontrovertibili, profondissime, indiscutibili ragioni storiche.
Quando le hanno chiesto “se la poesia ha un futuro”, la poetessa irlandese Eavan Boland ha risposto che si tratta di una domanda quantomeno irriguardosa. Io direi meglio: è una domanda che va ritorta contro coloro che la pongono. Se fosse morta la lingua della poesia, sarebbe in primis la cultura critica a pagarne le peggiori conseguenze. Se fossero già scomparsi “gli ultimi poeti”, la responsabilità di ciò cadrebbe sugli intellettuali. I quali inutilmente tenterebbero di scaricarla sulle famigerate “condizioni oggettive”, o sullo “spirito dei tempi”, ovvero esattamente su ciò che essi hanno il dovere di influenzare. In molti intellettuali italiani manca la gioia sostanziosa della trasmissione, della viva tradizione, quella capacità di prendere dal passato, di dialogare con i morti, in vista di coloro che ci succederanno. Manca la capacità di affondare nel duro presente per consegnarlo, chiarito a sé stesso, al futuro. Come si fa a non capire che lingua, visione poetica e cultura critica sono consustanziali? Perché rinunciare a un’opera di interpretazione esigente che non si limiti a seguire delle vicende, ma tenti di crearle? E soprattutto, perché non spiegare le ragioni di un possibile e pericoloso tramonto, invece di contribuire a realizzarlo, con l’anima intonsa e l’armatura ben lucida? La nostra è una terra desolata, ma la vera novità è che lo è da millenni, seppure in forme ogni volta diverse, che vanno falsificate e comprese in modi altrettanto diversi. Invece di intrattenersi con dei “poeti maggiori” che ci fanno pensare alla morte della poesia – e che per questo forse non sono poeti maggiori –, certi nostri letterati farebbero bene a prendere con sé la lanterna di Diogene e mettersi a cercare, sfidando l’incertezza, i pericoli del viaggio, i probabili abbagli. Poesia ed errore, scriveva proprio Fortini.
[Immagine: Jeff Wall, Overpass (gm)].
S’ODE A DESTRA UNO SQUILLO DI TROMBA;/A SINISTRA RISPONDE UNO SQUILLO?
(trascurando l’indecidibilità della distinzione tra destra e sinistra oggi…)
A.
“Manca la capacità di affondare nel duro presente per consegnarlo, chiarito a sé stesso, al futuro. Come si fa a non capire che lingua, visione poetica e cultura critica sono consustanziali?” (Febbraro)
B. 1.
“Insomma, pur pronto a essere seppellito dalla giovane poesia contemporanea che si è fatta già avanti sul proscenio dei dodici quaderni di Marcos y Marcos (e perché no delle riviste e poi di Manni, Pordenone legge, Nazione indiana, ecc.), sarei curioso di capire a che punto è un vero lavoro critico (e autocritico) sul sempre agitato *mare magnum* da cui ciascuno degli anziani (per forza di cose autorevoli) tira fuori i propri giovani pesciolini.”(Abate 19 marzo 2015 a 18:44)
B. 2.
“Credo di trovare una certa somiglianza tra la prospettiva di studio di Luigi Matt sulla narrativa “che si va facendo” e le ipotesi che, da isolato, ho affacciato senza ricevere alcun riscontro (anche su LPLC) sulla poesia “che si va facendo” (Cfr. ad es. http://moltinpoesia.blogspot.it/2012/06/ennio-abate-una-riflessione-per-la.html#more). Guardo dunque con simpatia a questo indirizzo di ricerca, anche se di narrativa mi occupo poco. E ritengo troppo rigida la contrapposizione che Miche Dr stabilisce tra criterio della critica letteraria e criterio storico-sociologico, che riecheggiata, senza nominarla, la distinzione tra monumenti e documenti. Che non può certo essere annullata. Mi chiedo però se non sia necessario stabilire una qualche relazione tra questi due livelli del discorso, proprio per non gerarchizzarli e rendere incomunicanti le rispettive istanze della qualità e della quantità.” (Abate 7 febbraio 2015 a 15:24)
Et cetera a ritroso qua e là sempre nello spazio di serie B dei commenti…
grazie. sono cose che Febbraro, da quel che ho letto in giro, va ripetendo da anni, ma non smetto di trovare grande lucidità nel suo pensiero: nello specifico, su Luperini critico della contemporaneità (letteraria e non) la penso più o meno uguale – in modo più diretto e netto l’aveva scritto Carla Benedetti, nel 2003. Sarei curioso di sapere se ci sono altri spunti, oltre a quelli citati nell’intervento (Ferroni, Di Stefano), che hanno spinto Febbraro a gettare questa nota.
Ottimo articolo. E’ bene diffidare dai nostalgici…
Anche la foto è giusta, ben scelta per un articolo opportuno.
Potrebbero essere dei poeti che a furia di sentir dire che è tutto finito, lasciano il paese. Eccoli in cammino verso l’aeroporto.
Il miglior invito ai critici attempati non poteva che essere questo: allargare il proprio campo visivo e avere il coraggio di leggere il presente senza apparati critici pregressi.
Che bell’articolo!
ROBA DA ARCHIVI QUASI SOLO PERSONALI
A. Alcuni esempi di come si discute oggi della poesia italiana
Terzo esempio: Genealogie della poesia nel secondo Novecento. Giornate di studio, Siena, Certosa di Pontignano, 23-24-25 Marzo 2001, in Moderna, III, 2, 2001, Istituti editoriali e poligrafici internazionali, Pisa-Roma
Il convegno ha ripensato la poesia del secondo Novecento alla luce dei concetti di moderno e postmoderno interrogandosi su questioni generali: se sia davvero concluso il Novecento, se la modernità sia stata soppiantata del tutto dalla postmodernità e se la poesia possa o debba avere “commerci” con la comunicazione di massa. È sicuramente la riflessione accademicamente più agguerrita fra quelle che ho potuto leggere mentre preparavo queste note. Ma la qualità critica delle relazioni, l’intelligenza e incisività di molti interventi, lo spessore raro dell’inquadramento storico dei problemi sono posti al servizio di una inaccettabile logica da après nous le déluge che sembra dominare l’intero convegno. Come ha fatto notare giustamente Antonio Prete, in esso «si è delineato un arco funereo in cui il linguaggio [letterario] muore».[1] E il bilancio conclusivo di Guido Mazzoni, che, a chiusura del volume, sottolinea che dopo la stagione di Officina e dei Novissimi non sembra esserci più nulla d’interessante nella ricerca poetica italiana, sembra una pietra tombale. Mentre la poesia contemporanea viene “declinando”, il cartello hic sunt leones è collocato appena fuori la soglia della poesia consacrata dalla ricerca universitaria, dove «prolifera la poesia selvaggia: migliaia di libri stampati a pagamento e centinaia di piccole riviste che pubblicano autori più o meno sconosciuti» [2] . Qui nessuno si vuole inoltrare. Non resterebbe che arroccarsi sugli ultimi baluardi anti-postmodernismo: la poesia di Edoardo Sanguineti e quella di Elio Pagliarani, non a caso ospiti d’onore di queste giornate senesi. Oppure riproporre für ewig l’Avanguardia, come fa il suo nume tutelare e intramontabile, Edoardo Sanguineti [3] . Di lui colpiscono la lucidità ora borghesemente cinica, supportata da un’erudizione letteraria scoppiettante [4] , e la pervicacia da don Giovanni di fronte al Convitato di pietra. Il suo “realismo” (materialistico certo) non si libera però di questo cinismo: ci ricorda che viviamo in una società capitalistica (c’è bisogno?), che questa dispone del “nuovo” (il mercato) e del “vecchio” (il museo), che il cinema è stato importantissimo per il Novecento insegnando il montaggio tra parole e immagini fino ad arrivare ad una contrapposizione frontale fra un «pensare in termini di sintassi» e un «pensare in termini di montaggio», che «la natura non c’è più», ecc.
Ma di chi e per cosa oggi l’Avanguardia potrebbe essere avanguardia? Sanguineti sorvola. Approfondisce anche lui il solco fra la «generazione di ferro» (quella delle avanguardie all’opposizione) e l’attuale «generazione di paglia», fatta da poeti che piagnucolerebbero sulla loro emarginazione, colpendo persino quello che si va facendo nelle vicinanze degli istituti universitari da parte di poeti “giovani”. E con tono papale[5] si isola nell’autocelebrazione epocale delle avanguardie in una sorta di orgogliosissimo “volli, fortissimamente volli essere all’avanguardia dal Romanticismo in poi”. Nessun ripensamento dei loro limiti storici (lo scollamento dai linguaggi comuni ad es.) e del fatto che una comune sconfitta ha ormai sfumato certe contrapposizioni viperesche del passato (Si pensi al suo scontro con Officina).
Il conflitto si presenta in forme generazionali anche in queste giornate di studio. Per Ermanno Krumm, «molti giovani scrittori stanno ripartendo come se il Novecento non esistesse».[6] E allora? Affannarsi, come lui fa, a ricordare che il Novecento è stato «un secolo di una ricchezza e di una singolarità forse ancora tutta da esplorare»? Ricordare che Novecento non significa solo avanguardie, ridimensionando il ruolo di queste ultime e facendo i conti con una storia complessiva in cui far rientrare sia «la tradizione del nuovo» (le avanguardie) sia «la tradizione secolare della nostra letteratura»?[7]
Negli interventi dei giovani il baratro generazionale sottolineato da Sanguineti è ancor più enfatizzato: in Gabriele Frasca viene giustificato con l’esistenza di un «nuovo tempo della comunicazione di massa» che avrebbe costruito un mondo percettivo-linguistico a sé stante[8] ; in Rosaria Lo Russo prende toni da battaglia femminista «contro la schiavitù del gender e i feticismi del patriarchismo letterario».[9] Facendo di questa immersione nella cultura di massa un emblema “generazionale”[10] o agitando in un ambito specialistico e accademico un fantasma femminista socialmente esaurito non si va – mi pare – molto fuori dalle convulsioni endoaccademiche.
Da nessuna delle due generazioni (vecchie glorie, giovani speranze) che si sono misurate a Pontignano è venuta una proposta di lavoro “intergenerazionale” o “metagenerazionale”. Manca, anche qui, ogni “collante politico”.[11]
Luperini, che pure ha ricordato nel convegno l’esigenza di «mettere in rapporto il letterario con l’extraletterario» e «il poetico con l’extrapoetico», quando s’affaccia sui nostri giorni, nasconde egli pure a stento il disappunto. Il quadro che dà del presente è di un pessimismo troppo lucidato di amarezza per essere utile anche solo a ricostruire un’idea di poesia “critica” o la figura del poeta-critico che egli non ha abbandonato[12] . Se dei vecchi colpisce l’orgoglio e l’amarezza, dei giovani, ammantati di citazioni raffinate o di un femminismo manierato (indispensabili “corazze ideologiche” per aggredire il clima pesante dell’accademismo odierno?), stupisce la limitatezza del concetto di «extraletterario» che sembra combaciare esclusivamente con il massmediale. Fuori del letterario sembra non esserci che il massmediale, in cui si sono “formati”[13] . Fine dell’esperienza? Ne siamo davvero convinti? Una conoscenza non letteraria di quello che si è andato modificando nel lavoro e nel Capitale permetterebbe forse di uscire dalle secche di una contrapposizione Moderno-Postmoderno che rischia di essere letta esclusivamente in termini letterari, come fa, ad esempio, Berardinelli.[14]
Solo in leggera controtendenza al prevalente discorso sul «declino della poesia» si pongono gli interventi di Pusterla e Cataldi, entrambi sostenitori di una funzione ancora positiva dello stare ai margini della poesia. Il primo ne parla con autoironia: i poeti contemporanei sarebbero ormai dei membri di una sorta di «sacra corona unita della poesia» o coatti di una «resistenza catacombale» al «linguaggio [che] diventa il luogo della produzione»[15] . Il secondo insiste sul fatto storico che nella modernità il posto della poesia è stato sempre ai margini, perché «parla una lingua antica in mezzo ai moderni», anzi fa sua «la necessità di rivolgersi ai morti in una lingua morta» e, perciò, pur «percepita come un’attività arcaica», essa sarebbe «in alternativa al mercato»[16] . Cataldi diffida perciò di ogni poesia che oggi tenti di «stare al passo coi tempi», finendo per farsi invadere dalla «seconda natura» troppo marcata dai «segni del potere», come succede a quella che diventa «l’ingrediente pervasivo e innocuo della pubblicità», inserendosi nella «koiné mercantile della produzione-consumo» e alimentando così soltanto un nefasto «surrealismo di massa»[17] . Di conseguenza nell’attuale fenomeno della diffusione di scritture in versi, vede esclusivamente una falsa «apoteosi della democrazia espressiva»: la poesia ridotta a un «bene di consumo cui tutti possano accedere… senza filtri e senza pedaggi», essendo saltato ogni canone, sarebbe diventata «un immenso corpo acefalo». La sua «polverizzazione» avrebbe portato solo disimpegno e disgregazione sociale e ideologica o un «sogno di coesistenza pacifica». I poeti-massa costretti come sono a «cibarsi di poetese pubblicitario e di simbolizzazione massmediale» non troveranno nella poesia nessun «residuo di autenticità». Con la fine del canone, la crisi del moderno, il doppio mercato di letteratura classica e leggera, in assenza di maestri, Cataldi sembra suggerire solo, richiamandosi a Celan, il silenzio contro un ormai insopportabile rumore di fondo.
Note
1. Antonio Prete, in Genealogie etc., pag.220.
2. Guido Mazzoni, Per un bilancio, in Genealogie etc., pag. 225
3. Edoardo Sanguineti, Avanguardie e non, in Genealogie etc., pag.143.
4. Esempi: Baudelaire «è il primo poeta che si rende conto di una situazione di concorrenzialità tra gli autori» (pag.144); «Il futurismo, come una ditta, vive di pubblicità» e Marinetti passa gran parte della vita non a scrivere versi ma a inviare telegrammi ad agenzie di stampa (pag. 144); delNovecento restano solo le avanguardie (pag. 144) che stando dentro il mercato lo farebbero anarchicamente “esplodere”, per «assenza di modelli, assenza di regole, sovversione di regole e di modelli ereditati».
5. «La mia tesi è che, del Novecento, in letteratura, come su qualunque altro terreno, non sopravviva altro che quello che le avanguardie, vecchie e nuove, hanno fatto: il resto non esiste», in Genealogie etc., pag.144
6. Ermanno Krumm, in Genealogie etc., pag. 77.
7. Giorgio Patrizi, in Genealogie etc., pag. 134.
8. Gabriele Frasca, Le forme fluide, in Genealogie etc., pag. 35. Egli elenca«sette varietà di lingue intermedie (fra uso quotidiano e istruzione, pragmatica performativa e virtuosismo chirografico) che occorre presupporre “formative” per ogni scrittore nato fra gli anni ’50 e gli anni ‘60» (idem, pag.40).
9. Rosario Lo Russo, in Genealogie etc., pag. 165.
10. Sottolineando il distacco fra «una generazione di scrittori rivolti più a modelli di comunicazione extraletteraria rispetto a quanti hanno avuto o hanno un’esperienza esclusivamente o soprattutto letteraria», come fa Giorgio Patrizi, in Genealogie etc., pag. 134.
11. L’assenza nel convegno di ogni richiamo anche problematico a Fortini, che pure a Siena ha lasciato segni non cancellabili del suo magistero politico-culturale e sulle questioni proposte a Pontignano ha detto cose storicamente chiarificatrici o almeno non eludibili, sembra una pecca incolmabile di queste giornate di studio.
12. Nel suo «catalogo riassuntivo per formule» elenca :«fine delle poetiche, scomparsa della conflittualità, tradizione come rapporto sincronico, prevalenza del poeta-poeta e del critico-critico, scomparsa del rapporto tra letterario e extraletterario, assenza di qualsiasi legittimazione dell’atto poetico»; e più avanti dichiara: «È la fine del canone». Cfr. Romano Luperini, in Genealogie etc., pag.217.
13. E ha ragione – mi pare – il vecchio Sanguineti a ricordare che «non è vero…che il fatto di essere nati con la televisione acumini la comprensione del mondo» (Edoardo Sanguineti, in Genealogie etc. pag. 176)
14. Alfonso Berardinelli, Poesia e genere lirico. Vicende postmoderne, in Genealogie etc., pag.81. Il critico sostiene che in letteratura si è verificato nel Novecento un processo che ha portato anche la poesia verso la prosa. Ma nessun legame è stabilito fra questo processo endoletterario e le vicende extraletterarie del Novecento.
15. Fabio Pusterla , in Genealogie etc., pag.139.
16. Cataldi, in Genealogie etc., pag. 154:«Non pensavano forse antico Dante e Leopardi in mezzo a due svolte radicali di modernizzazione?» . Resta il dubbio: non tutto ciò che è marginale è davvero in alternativa (se non ideale forse) al mercato.
17. Pietro Cataldi, La fine del canone. I poeti e il postmoderno, in Genealogie etc., pag. 148.
(da E. Abate, “Poesia moltitudine esodo” in «Inoltre» n.7, inverno 2003/2004, Jaca Book MIlano)
La faccenda sembra connaturata all’accrescersi dell’esperienza e delle letture, allo svanire dello stupor di fronte ad un testo inedito. Non posso biasimarli: su questo stesso sito, ho / abbiamo detto peste e corna dei poeti di trent’anni. Ogni generazione racconta e qualche volta reinventa il proprio mondo ma il mondo è sempre uguale, le dinamiche umane sono le stesse nonostante i cambi di scenario portati dall’avanzamento tecnologico. Resta almeno a me la curiosità di che tipo di poesia scriverebbe un esiliato su Marte, ad esempio, o anche AstroSamantha se ne avesse formazione specifica, talento e visione.
È chiaro che quando Luperini o Ferroni parlano di “ultimi” si riferiscono a una concezione ormai estinta della poesia e non (solo) al singolo poeta, per questo trovo insensato contrapporsi alle loro tesi (pure per molti versi differenti e in contrasto) rivendicando l’esistenza di ottime individualità poetiche attuali, evidenza su cui dubito che tanto Ferroni che Luperini abbiano nulla da eccepire. Quel che Luperini e Ferroni lamentano è il tramonto di un’idea di intellettuale-scrittore implicato nelle dinamiche sociali, politiche, culturali, in un’epoca come la tarda (o l’iper) modernità che non ha effettivamente ancora nessun vero interprete in poesia, se non in forme disperse o occasionali. Ma soprattutto: il poeta Pasolini o il poeta Fortini potevano intervenire e di fatto intervenivano sui fatti di cronaca, sulle vicende politiche, facendosi interpreti, per l’appunto, dei tempi in cui vivevano. Avevano quel che si diceva un “mandato”, parlavano in nome di qualcuno, non (solo) di loro stessi. Non credo sia possibile smentire Luperini su questo punto: nessun poeta viene mai invitato in televisione oggi e i poeti che compaiono nei film sono poeti-macchietta con la sciarpina gay e l’attitudine malinconica e contemplativa di risulta. Se in queste forme di rappresentazione si perpetua una replica ottusa del sentire comune e se il sentire comune non viene scalfito minimamente da ciò che può pensare l’intellettuale della poesia e del suo ruolo conoscitivo, non è solo colpa dell’attitudine vittimistica o catastrofista degli intellettuali stessi, ma del fatto che i poeti sono e restano la minoranza delle minoranze, ridotti a pubblicare (spesso autofinanziandosi) in collanine circolanti in 800 copie quando va bene, mentre una trasmissione televisiva che non abbia almeno 6-7 milioni di spettatori viene considerata un flop. Il poeta ha qualcosa da dire, interessa a qualcuno, la sua voce può contrapporsi all’orizzonte mediale e merceologico contemporaneo, in cui nessuno che abbia meno di trent’anni ha bisogno di entrare in libreria o di possedere un oggetto materiale chiamato libro per conoscere quello che si scrive nel mondo (la gita a Chiasso, ma anche a Chicago, si fa oramai agevolmente con l’iphone)? Mentre accusa Luperini di non accorgersi di ciò che accade intorno e di rimanere ancorato al suo passatismo ottuso, Febbraro dimentica di farsi un giro non dirò in libreria, ma almeno nel(la) Chiasso dell’internet.
Mentre leggevo mi veniva in mente: “Ho visto le menti migliori della mia generazione mendicare una presenza al varietà del sabato sera. Il loro aspetto trasgressivo, il loro pallore, si sposava alla perfezione con l’argomento della puntata”. (“Fausto”, Massimo Volume). Questo articolo è interessante, per gli interrogativi che pone e per come li espone. Sì, diffidare dei nostalgici, dell’ansia di usare la parola “ultimo”, di creare finti vuoti o finti pieni. E ogni volta che parliamo di morte della poesia mi pare che stiamo perdendo tempo.
Il padre di tutti i becchini è Berardinelli, che ha preceduto Luperini e Ferroni, e molti altri: è lui l’avanguardista seppellitore. Ma lo sport della vanga è diffusissimo, e ben si comprende che lo sia particolarmente negli intellettuali della terza età, con pensioni possibilmente dignitose. Ma io ne conosco anche che a settant’anni sono in piena adolescenza. Gente che vede primavere dappertutto. In genere NON sono ex professori universitari, ma pimpanti poeti e romanzieri.
Mi sorprende sempre trovare articoli un po’ piatti su LPLC. Qui non c’e’ argomentazione che possa definirsi tale, ne’ si aggiunge qualcosa di significativo ad un dibattito esploso piu’ di un decennio fa – se non la dimostrazione di quanto esso sia ancora sentito, che magari di per se’ puo’ essere interessante.
Febbraro lamenta il catastrofismo dei Luperini e Ferroni pur riconoscendone la natura ciclica, quasi inevitabile nell’avvicendarsi delle generazioni. Tralascio la semplificazione a cui sottopone le analisi sviluppate dai critici di cui sopra – anche questa probabilmente inevitabile in un breve post – di cui ha gia’ scritto Policastro. Noto (ma forse c’e’ dell’ironia che non ho colto?) che il malefico vortice della nostalgia si sta impadronendo dello stesso Febbrero (‘In ogni caso, però, fossero Crepuscolo o Decadenza, si tentava un’analisi del presente. Oggi, invece, si preferisce il canto nostalgico per già lontani eroi, il gesto solenne e liquidatorio che chiude il Grande Libro.’)
L’unico aspetto che mi colpisce, e su cui non puo’ non soffermarsi il mio sguardo (ingenuo? o forse insensibile?) di ventenne, e’ il paradosso per cui poeti e professori sulla cinquantina, ormai integrati nel sistema culturale italiano e non solo, vivano ancora con acredine e sofferenza il mancato riconoscimento da parte dei loro padri.
La mia speranza e’ che fra trenta o piu’ anni la generazione a cui appartengo, magari temprata dalle difficolta’ materiali che ne’ i nostri fraterlli maggiori ne’ i nostri padri hanno conosciuto, avra’ da tempo accettato la sfida posta dal conflitto con i fantasmi del passato e con i loro portavoce. Spero che invece del chiacchericcio lamentoso e autoreferenziale, del rinfacciare i rimproveri ( e addirittura la pensione, come fa Inglese) a chi si aggira sui 70-80 anni, saremo a buon punto nel costruire un dialogo che preveda del sano conflitto, un lascito per le generazioni successive, la consapevolezza dei nostri errori e delle nostre conquiste.
Personalmente non rimpiango il tempo in cui i poeti “potevano intervenire e di fatto intervenivano sui fatti di cronaca, sulle vicende politiche, facendosi interpreti, per l’appunto, dei tempi in cui vivevano”.(Gilda Policastro) Né, credo, lo rimpianga Luperini. Davvero vorremmo che i poeti fossero invitati da Fazio o all’”Isola dei famosi” (ah, uno scrittore ci è andato, Aldo Busi)? Ma poi: una volta c’erano davvero tutti questi poeti a intervenire sulla cronaca? Fortini scriveva sul “Corriere” articoli spesso oscuri (amava citare Foscolo quando dice che il futuro lo schiarirà…), in cui – pedagogicamente – ricordava ai lettori borghesi del quotidiano che la loro esistenza si fonda su sfruttamento e privilegi di classe. Pasolini come opinionista sul “Corriere” è un caso a sé. Quello era il suo modo di continuare a fare poesia. Ora, la sua forza non proviene da alcun “mandato”. Già a metà degli anni ’60 Fortini aveva segnalato la fine di qualsiasi mandato sociale. Deriva invece dalla sua straordinaria trasparenza, dal legame così stretto, vibrante, anche drammatico, che c’è in ogni sua riga tra pensiero ed esistenza, tra idee ed emozioni. Perciò è stato un insuperabile comunicatore. I nostri maestri eretici del ‘900 – Simone Weil, Orwell, Camus, Hannah Arendt , Chiaromonte, Ivan Illich – non pensavano di essere “portavoce” di movimenti, interpreti privilegiati di una Dialettica della Storia, avanguardia autoeletta di soggetti sociali. Erano irriducibilmente “individui”, tra gli altri : inappartenenti, ostinati e indocili. Partivano dalla loro esperienza personale, dal loro disadattamento, dalla loro refrattarietà all’esistente. E proprio per questo nelle loro parole si riconobbero e si riconoscono tante persone. A contrapporsi poi all’orizzonte merceologico è proprio il linguaggio della poesia (non quello che dice eventualmente un poeta): estraneo a qualsiasi logica utilitaristica. Forse che la poesia era tenuta in maggior conto negli anni ’60? Ho qualche dubbio. In Italia i libri di poesia, al contrario (per esempio) che in Grecia, non hanno mai venduto trentamila copie! Ci infastidiscono i “poeti-macchietta con la sciarpina gay e l’attitudine malinconica” del nostro cinema? Se andate a vedere “La notte” di Antonioni (1961), beh, non ricordo se alla festa finale ci fosse un poeta, ma gli scrittori erano tutti macchiettistici e ridicoli.
Infine: obiettivamente tira un’aria un po’ cimiteriale, da “ultimi poeti”, “ultimo regista”, “ultimo scrittore”… Non dubito che ci sia una interruzione nella trasmissione della tradizione, che ogni idea dell’umanesimo debba oggi essere ripensata e riformulata (penso anche alla interruzione nello scambio generazionale: per la prima volta i nonni hanno pochissimo da insegnare ai nipoti in un mondo mutato troppo in fretta). Credo però che la tradizione culturale si sia svuotata e depotenziata da molto tempo, diciamo da quando ha “tradito” le sue promesse (come sa bene Luperini). E anzi oggi si tenta, forse confusamente, di reagire a quello svuotamento. L’umanesimo mi sembra continuamente e felicemente messo alla prova – magari da parte di minoranze – , sia nella scrittura (dentro e fuori il Web) che nei comportamenti, sia nella poesia che nel quotidiano. Per prenderne atto basta avere un po’ di curiosità.
A parte che Luperini non dice praticamente altro da dieci anni a questa parte (vedi ad es. l’articolo apparso sull’Unità nel febbraio 2004, Intellettuali non una voce, che suscitò un vivo dibattito: uno degli ultimi flame cartacei che io ricordi, prima che la polemica culturale transitasse pressoché interamente nel web), quindi sì, rimpiange eccome, ma poi, Filippo, sei completamente fuori tema quando mi obietti che Busi è andato all’Isola dei famosi. 1) Busi è andato all’Isola come poeta? 2) C’è andata pure Melissa P., se è per questo. Ma non stiamo parlando del fatto che l’intellettuale non vada a cucinare le uova fritte a Masterchef o a farsi deturpare la faccia dai mosquitos (in e fuor di metafora) della Marcuzzi. Cioè dell’alternativa tra intellettuale buffone e canaglia, come secondo Žižek si poneva ancora qualche anno fa. No: stiamo (stavo) parlando dell’evidenza per cui il poeta non ha, nel panorama mediale attuale, nessun tipo di autorevolezza riconosciuta e non è ai poeti che si rivolgono i giornali per commentare che so la pazzia di Lubitz, come accadeva a Pasolini rispetto al massacro del Circeo negli anni Settanta (pensa alla ben nota polemica con Calvino, sui cui vedi di nuovo Luperini) e dell’evidenza altrettale che Fazio se può invitare uno scrittore invita Carrère e non Gabriele Frasca o Vincenzo Ostuni (per citare un poeta della generazione di Febbraro, la cui lagnanza del post da cui partiamo sa molto di perorazione pro domo sua, a dirla tutta). A me piacerebbe, e molto, che non solo gli sparuti studenti precettati da un seminario universitario ma un pubblico più vasto potesse sentir parlare Frasca della messa in crisi dell’idea borghese di letteratura a partire da Joyce e Gadda, a te no? Io appartengo alla stessa generazione di Febbraro, leggo, conosco e frequento molti poeti che stimo e apprezzo, scrivendo a mia volta. Non per questo non mi accorgo della immane differenza di contesto, e anche di opportunità, tra quegli anni (gli ultimi cosiddetti) e i nostri. Anni in cui pubblicare voleva dire Garzanti, Einaudi, Mondadori, mentre adesso quelle case editrici non sono (non vogliono essere) un riferimento per nessuno che oggi scriva avendo meno di quarant’anni e al contempo tutti quelli che scrivono, a qualunque età, possono pubblicare la plaquettina con l’editore amico. Allora: in un contesto in cui la poesia conta zero (nessun poeta e nessuna raccolta può penetrare nell’immaginario dei molti o dei pochi con la forza e la permanenza garantite da un mondo certamente più selettivo, in cui il gusto non era il capriccio del mi piace su Facebook ma un fatto culturale discusso e di volta in volta rivalutato) e in libreria trovi più Alda Merini che Amelia Rosselli, che cosa abbiamo da obiettare a chi dice “ultimo” di Pasolini o di Zanzotto? Che ci sono tanti bei libri oggi? A parte che no, non ce ne sono o non così tanti che siano belli (cioè importanti) come Laborintus, Variazioni belliche o La ragazza Carla (e in questo sono anche più passatista dei passatisti di cui sopra), ma poi, ripeto, non è quello il punto: è che in un mutato contesto, il poeta dove non sia inesistente o sgradito, risulta comunque ridicolo. A me se uno oggi mi dice che fa il poeta a sessant’anni mi viene da compatirlo, fossi nata un trentennio prima non sarebbe certamente così.
«Che cosa abbiamo da obiettare a chi dice “ultimo” di Pasolini o di Zanzotto?» (Policastro)
Ad uno che mi dicesse: Vedi, una volta c’era la grande fabbrica, c’era il posto fisso e l’etica del lavoro, obietterei: oggi si è costretti a campare col telelavoro, con i lavori precari e neri. Parliamo seriamente di questa nuova condizione.
In modi analoghi ad uno/a che mi dicesse: Vedi, non ci sono più Garzanti, Einaudi, Mondadori, ma una miriade di medi e piccoli editori, presso i quali « tutti quelli che scrivono, a qualunque età, possono pubblicare la plaquettina», rusponderei: oggi si è costretti a tentare di fare poesia in condizioni mutate e culturalmente peggiorate. Ragioniamo su queste.
E chiederei a mia volta: perché rispetto a ieri o a ier l’altro il lavoro conta zero e «la poesia conta zero»?
Sì, in un certo senso è indubbio. Ma per chi?
Mi pare evidente che la constatazione ha un senso diverso per chi non deve lavorare per campare e per chi deve. O per chi misura il valore della poesia dalle copie vendute o dalla circolazione nei mass media o da chi vuole difendere la *funzione poesia* (o la *funzione critica della poesia*).
E poi: ci sono state o no scelte, responsabilità che hanno indirizzato i processi reali in un senso piuttosto che in un altro?
Una certa politica ha svalutato il lavoro (si è potuta permettere di farlo grazie a molte complicità dei sindacati e della sinistra…).
Una certa politica culturale/editoriale ha lasciato svalutare ancor più che in passato la poesia. Se n’è disinteressata, non ha voluto più occuparsene *criticamente*; ed ho, in un precedente commento, riportato le voci del Convegno di Pontignano, che – sbagliando? – a me parvero la ratifica di una deriva, un tirare i remi in barca, un abbandonare a se stessa la folla confusamente vociante dei nuovi “poetanti” o “scriventi versi” (Majorino).
E non vorrei che, invece di valutare questi aspetti, ci si accanisse addirittura – per insistere sull’analogia che ho proposto – da un lato contro quanti sono costretti a cercare lavoro o ad accettare lavori precari e in nero (“siete troppi”, “ siete bamboccioni”); e dall’altro contro quanti hanno continuato a cercar di fare poesia in condizioni mutate e culturalmente peggiorate o proibitive. Fino allo sberleffo («se uno oggi mi dice che fa il poeta a sessant’anni mi viene da compatirlo»).
Qui, al di là di serpeggianti malumori personali o generazionali e polarizzazione tra contrapposti snobismi (elitari o populistici), si stanno confrontando due modi di guardare a questa trasformazione/ peggioramento (non certo caduta dal cielo, ripeto) delle *condizioni del far poesia*:
– quello di chi si ferma all’epoca di Pasolini e di Zanzotto (+ qualcun altro: magari Magrelli, come suggerisce Luperini) e delle *fu* Garzanti, Einaudi, Mondadori o ad un’idea del bello incentrata su «Laborintus, Variazioni belliche o La ragazza Carla»;
– e quello di chi vorrebbe (il condizionale è obbligatorio) esaminare seriamente l’insieme della produzione successiva – contraddittoria, ambivalente, confusa, sporca, di massa, come volete – e studiare anche una selezione adeguata per questa nuova situazione.
Proviamoci a farlo al meglio.
Ma Pasolini credo avesse la sua importanza non in quanto poeta, ma in quanto intellettuale in grado di cimentarsi con varie forme, soprattutto il cinema, e i romanzi, il reportage televisivo; senza contare l’aura scandalosa che si portava addosso, e il contesto di scontri in atto. Oggi trova il suo corrispettivo in Saviano, più in piccolo in De Luca e gli altri intellettuali che sono legati alle varie lotte sul territorio. Ma pensiamo anche al reportage di Zerocalcare. Un poeta oggi che volesse entrare nel discorso pubblico non potrebbe farlo attraverso chiavi di lettura che appartegono a pochi, e credo che non fosse possibile neanche anni fa. Questo non solo perché la poesia è stata affiancata da altre forme e non ha più il ruolo di prima, ma perché manca piuttosto la volontà di cercarsi un pubblico maggiore. Su youtube sono disponibili un sacco di letture e conferenze di molti scienziati e divulgatori, e le sale sono sempre gremite di gente di varia estrazione. Ci sono giornalisti che sfruttano la musica pop per raccontare fatti storici. Non penso che sia impossibile realizzare uno spettacolo che tenga assieme una riflessione seria di Frasca su Gadda Joyce e compagnia cantante e che sia fruibile da tante persone.
Certi mondi proprio non si parlano, a partire dai linguaggi: perché se dico A poi qualcuno mi obietta non B? Ho detto A, certo: A è non B. Se dico ‘’condizioni mutate’’, ‘’società mediale’’, perché Abate mi parla di lavoro, precariato, gente che non deve guadagnarsi il pane e capitalizzazione dei saperi? Condizioni mutate, appunto. Condizioni materiali, soprattutto. E condizioni per cui dire oggi ‘’faccio il poeta’’ fa ridere (o muove a pietà), perché la poesia, a parte nelle antologie, non esiste. Non è vero che è irrilevante, non esiste proprio. Non appartiene alla formazione della classe egemone meno che mai delle masse, a Renzi fanno schifo pure i Promessi Sposi figuriamoci Magrelli. I poeti si leggono e recensiscono tra loro (ma poi dove? Sui giornali che non compra più nessuno? Una recensione come quella di Pasolini a Laborintus o di Zanzotto ai Novissimi potevano fare epoca, quella di Luperini a Magrelli l’abbiamo letta io e Febbraro o comunque non ha suscitato il dibattito che avrebbe meritato, fuori da questo thread). Qualche sera fa al Palladium uno dei più apprezzati poeti contemporanei, Durs Grünbein, leggeva alla presenza di dieci persone. Non a Rivisondoli di sopra: a Roma. Quello che mi colpiva era soprattutto l’età media di questo pubblico, direi 45-50 anni a essere generosa. Non c’erano venti-trentenni, o sparuti. Perché? Perché guardano Fabio Fazio? No, nemmeno. Sono proprio altrove, come diceva lo stesso Frasca ai tempi del dibattito sul Verri in merito alla cosiddetta bibliodiversità, la letteratura è stata pensionata da altre forme di conoscenza, da altri media più veloci, più fruibili: ‘’ci sono dei programmi televisivi che vale la pena di vedere, una produzione cinematografica di gran lunga meno omologata di quella libresca, dei fumetti fantastici, per non parlare della radio”. Ma soprattutto c’è la rete, lo scrolling che ha soppiantato la lettura, che ha cambiato la percezione della scrittura, l’autorialità (su questi temi interviene tra l’altro da anni Gherardo Bortolotti, un poeta dell’area di ricerca che non dico Fazio, ma nemmeno una eventuale trasmissione televisiva espressamente dedicata alla poesia contemporanea inviterebbe mai, perché non mette in rima uccelletti e ruscelletti). E uno come Aldo Nove, che nell’ultimo libro s’interroga sul tempo, indagandone i mutamenti di concezione dal medioevo ai quanti, no, non lo consideriamo perché è ‘’cannibale’’ per sempre. Perciò quello che dice in chiusura Abate lo condivido, studiamo effettivamente le forme migliori del presente e probabilmente accettiamo anche che di poesia non si tratti più (qualche anno fa per un periodo si parlò di prosa in prosa). E dunque? Gli ultimi, dai quali eravamo partiti nella discussione, sono stati probabilmente, evangelicamente i primi. I primi ad averlo compreso, in alcuni casi anche favorito, questo mutamento paradigmatico. Quell’idea di poesia auratica rimane salda probabilmente solo nella nostalgia o nell’ambizione di alcuni veri e fieri reazionari e quando dicevo di provare pietà avevo in mente l’episodio del tale, critico affermato, recensore à la page, corteggiatissimo da stampa ed eventi, che dopo avermi per anni identificata con “la parte ostile”, “l’avversario ideologico”, mi chiede tra rossori e (simulate) esitazioni se per caso può mandarmi per mail dei suoi sonetti per un parere spassionato. Non so se più il riso o la pietà, in effetti.
@ Policastro
Gentile Gilda Policastro,
forse i nostri rispettivi mondi non si parlano, semplicemente perché dicono cose diverse e sono mossi da passioni diverse. Possiamo però lo stesso confrontarci, se le va. Poi ognuno porta a casa sua qualcosa di più (si spera).
A me pare che per lei la poesia esisterebbe solo se uscisse dalle antologie, fosse nel curriculum di formazione della cosiddetta classe dirigente, circolasse tra le masse o arrivasse almeno al salotto di Fazio. Se fosse, cioè, ammessa in qualche modo nell’area di potere (e da lì, opportunamente confezionata secondo gli standard massmediali «più veloci, più fruibili», arrivasse ad essere consumata dalle masse). E continua a portarmi esempi che «conta zero» (sorvolando molti punti del mio precedente commento su cui mi aspettavo
qualche risposta…).
Io, al contrario, di questo contar zero della poesia nell’area del potere mi rallegro e apprezzo poeti di valore che da una vita scrivono nelle catacombe – reali e virtuali, per costrizione esterna e per scelta etica – anche se i mass media o i critici universitari, che non trovano il tempo per occuparsene, non se ne curano (perché non possono o non vogliono); e continuano a lavorar sodo, sì, leggendosi e recensendosi seriamente tra poeti senza lasciarsi ipnotizzare dalle ribalte televisive, dalla stampa di disinformazione, dal successo decretato dagli intrattenitori/imbonitori.
No, non faccio l’elogio della vita nelle catacombe. Non vi sono rose e fiori lì sotto. Vi sono, come ho detto, ambivalenze, risentimenti, meschinerie. Considero però oggi il rimanerci una dura necessità, se siamo convinti che bisogna salvaguardare, come monaci medievali durante le invasioni barbariche, certi valori ( la *funzione critica della poesia*).
Poi non so. Alla fine avrà ragione lei. O, chissà quando, avrò ragione io.
Se però, quello che ho detto «in chiusura» lo condivide, «studiamo effettivamente le forme migliori del presente» e smettiamo di darci la zappa sui piedi. Chi vivrà, vedrà.
P.s.
Una curiosità. Se lei stima Bortolotti e Nove, che pur essi, poveretti, parlano solo agli amici poeti magari in catacombe più attrezzate e ariose, perché se la prende tanto con gli altri che fanno lo stesso in condizioni peggiori?
Non dubito, caro Ennio Abate, tanto per mimare un celebre attacco, che la poesia catacombale, quella coi quattro lettori/interlocutori scelti, possa avere un valore di resistenza, ma una resistenza fiacca, che alla lunga non avrà nessuna eco, perché se il valore resistenziale della poesia minore di quarant’anni fa (laddove quella maggiore era Montale laureato dal Nobel, tra l’altro), stava nella forza di incidenza e nella risonanza che poteva avere nella cosiddetta “società letteraria”, quella di oggi si muove nel silenzio e nella indifferenza generali (quale società letteraria, dovrebbe preservarla/valorizzarla? Quella dei premi? Rida con me, per piacere). Nel 2005 uscì per Sossella un’antologia (meritoria) che si chiamava Parola plurale e che dava voce a sessantaquattro poeti contemporanei, introdotti da 8 critici. Sessantaquattro poeti, caro Ennio Abate. Dei quali oggi si contano più i sommersi che i salvati. Allora, lo voglio dire ancora più rasoterra: non è che io impazzisca per il salotto di Fazio (moltiplicatore eccezionale, a tutt’oggi, di vendite e di consensi) o di chi per lui, ma è un segno dei tempi che Fazio nel suo salotto inviti la qualunque (dai fisici ai romanzieri dai politici ai cuochi) tranne i poeti. Mai. Nessuno. Una volta per sbaglio Magrelli, ma era una puntata speciale con una caterva di ospiti, in cui ognuno leggeva un pensierino (e al nostro toccò ”la poesia”). Però se si deve pensare a un intellettuale, a uno scrittore, a uno che possa dire la sua (criticamente, provocatoriamente, controcorrente: se lo ricorda l’intervento di Sanguineti in difesa della Costituzione e dell’antifascismo all’indirizzo dell’allora presidente del Senato Marcello Pera durante la diretta del Campiello?) no, non c’è nessuno che abbia sostituito, per autorevolezza di presenza e risonanza pubblica, quegli “ultimi” lì. Chissenefrega, i poeti hanno le loro plaquettine e gli amici fedeli? Nossignore, Ennio Abate: perché “per la contraddizion che lo consente” (stravolgendo il maestro di color che scrivono), proprio quei poeti che hanno i quattro amici fedeli e le plaquettine non aspirano altro che al consenso, all’essere conosciuti e apprezzati ‘’per quei sonetti che vorrei farti leggere”.
Il salotto di Fabio Fazio, che mi piace poco, ospita di tutto e parla di tutto, basta che si tratti di medietà, dunque anche di medietà poetica (recente l’expoit di vendite a seguito della predica fatta da Roberto Saviano proprio nel salotto di Fazio a favore dei libri della Szymborska). Del resto Fazio ospitò anche Edoardo Sanguineti, più volte.
Ringrazio Paolo Febbraro per la sua nota accorata e appassionata che ha dato vita a un dibattito molto interessante. Leggendo non ho potuto fare a meno di ripensare alla celebre poesia di Palazzeschi, lasciatemi divertire “gli uomini non domandano più nulla ai poeti”… erano i primi del Novecento, l’aura era caduta nella belletta del boulevard già da parecchio, eppure abbiamo avuto un secolo di grandissimi poeti; il Novecento è stato in Italia indubbiamente il secolo della poesia, più di tutti quelli che lo hanno preceduto nella storia letteraria.
Non penso sia questione di primi e ultimi, di padri e figli: ogni etichetta ha la sua plausibilità se è giustificata da una visione critica e certamente quelle di Luperini e Ferroni sono sostenute da una ben riconoscibile e coerente lettura della nostra storia culturale.
Ma chi, ma quale pubblico, quali lettori, quali strumenti sono atti oggi a riconoscere e diffondere la voce dei poeti? Sembra che la poesia si sia persa nella palude di internet, disseminata e dissolta in mille voci vane. È difficilissimo discernere la poesia tra le migliaia di versi da cui siamo invasi, senza alcun vaglio, senza alcun pudore. Dipende dalle case editrici disattente, dipende dai lettori sempre più ineducati? Forse, anche se, insegnando, assicuro che la voce dei poeti commuove pure le pietre, oggi come un tempo, tale e quale. A mio avviso dipende anche dai poeti. Penso che un poeta, se davvero pensa di essere tale, non dovrebbe vergognarsi, dovrebbe invece farsi carico, assumersi la responsabilità, parlare in qualità di poeta, anche per dire ciò che non è e che non vuole. Non si capisce il perché questa lamentazione, questo risentirsi per un mancato riconoscimento, laddove i primi a non riconoscersi per tali sono loro stessi. Insomma essere poeti, anche senza aureola, è una bell’impegno. Si detengono le parole, si ha un enorme potere. E invece si fa finta di nulla, aspettando qualche improbabile pigmalione in forma di editore o critico o presentatore televisivo.
Petrarca brigò non poco per essere incoronato poeta sul Campidoglio e magari all’epoca qualche contemporaneo ne sorrise. Oggi non ne ridiamo più. Io se incontro un sessantenne che mi dice di essere un poeta non rido, perché la poesia è una cosa seria. Magari è un pessimo poeta, ma chi sono io per valutarlo? Ho solo il mio gusto.
Avrei dunque preferito che Febbraro dicesse apertamente: sono un poeta, ho scritto cose pregevoli, mi dà sui nervi questa lamentazione sulla fine della poesia, eccomi, ci sono io, c’è Gilda Policastro, ci sono tanti altri. Leggeteci
@ Policastro
Cerchiamo di intenderci:
1. Poesia catacombale. Valore di resistenza. Un osservatore esterno – posso fare l’esempio recente dei kurdi a Kobane assediata dall’Isis o quello della Grecia d’oggi sotto tallone UE/Germania, accantonando toni retorici o propagandistici? – può valutare (comodamente o freddamente) un moto di resistenza e trovarlo fiacco o saldo o incerto. Chi, però, *è costretto a resistere*, e cioè non ha altra scelta e rifiuta di essere asservito, ha, secondo me, solo due doveri: – accertarsi di resistere per qualcosa che davvero è vitale, essenziale (per lui ed altri); – pensare a come migliorare la sua resistenza (il che comporta anche una valutazione dei rapporti di forza e non lasciarsi ipnotizzare dagli avversari, che non mancano mai). Guai se si mettesse a speculare astrattamente se quella sua resistenza avrà o non avrà eco o successo. Vale per la politica. Vale per il fare poesia oggi.
2. “Società letteraria”, “patrie lettere”, “mandato degli scrittori”, ecc. La cesura c’è stata. È innegabile. Proprio il curatore di “Parola plurale” del 2005, Cortellessa, fissò persino una data simbolica: 1975, anno del Nobel a Montale, della morte di Pasolini e dell’uscita de “Il pubblico della poesia” (p. 18) . E convengo che i sommersi di continuo aumentino (nell’indifferenza o nell’impossibilità della critica di occuparsene?) e i “salvati”, come al solito, sono pochi; e neppure loro se la passano bene. Siamo, dunque, in un deserto. Siamo sotto la «dittatura dell’ignoranza» ( Majorino, poi Viale). Siamo al renzismo anche in poesia.
Ma, smessa la lamentazione, il punto è: se ne esce chiedendo qualche minuto di visibilità a Fazio, ricordando lei nostalgicamente «l’intervento di Sanguineti» a favore della (ormai stracciatissima) Costituzione o io quelli di Fortini?
Non credo. Ripeto: sono per lavorare bene nelle catacombe. Sì, tra poeti e critici (“di massa”, “precari”, “flessibili”) in vista di un progetto di poesia critica o esodante o non so come si chiamerà. Anni fa (1999) puntai in questa direzione e ai miei quattro amici (di Milano e dell’hinterland) proposi quanto segue:
«La forma provvisoria dei samizdat (dal foglio personale, alla rivista povera, al foglio volante, al sito anticonformista su Internet, alla rivista “carbonara” accolta in qualche piega istituzionale) è quasi d’obbligo oggi per i singoli o gruppi emergenti dall’intellettualità di massa, se non vogliono restare nella nicchia di un privato ampiamente colonizzato o aggregarsi ai potentati che controllano una sfera pubblica devastata.
Anche se è giusto restaurare e non radere al suolo quello che ancora regge (solo però quando regge!), è bene sapere che la rifondazione di vecchie e una volta gloriose istituzioni, che di solito viene preferita alla ricerca scalza o autofinanziata o periferica, confina all’ombra di un paternalismo istituzionale, sempre meno illuminato, esperienze che hanno bisogno di svilupparsi in serie forme cenacolari e diffondersi per quel che è possibile.
Si può e si deve, in queste forme cenacolari e “povere” approntare spazi per un paziente e amoroso lavoro di critica inter nos (non ipocrita, non diplomatico, severo, serio, argomentante, non cannibale/fratricida) per uscire dal guazzabuglio di marxismi residuali, psicoanalismi, ecologismi, estetismi postmoderni in cui di solito ci dibattiamo e avviarci verso un pensiero critico adeguato al paesaggio sconvolto in cui ci siamo venuti a trovare. Tale bonifica va fatta con tutti i sensi attenti all’extra nos.
Saranno elementari spazi di dialogo viso a viso, non virtuali (senza negare il valore della comunicazione virtuale in assoluto). Perciò: singoli o gruppi che s’incontrano, discutono, si scambiano possibilmente scritti privati ma tendenzialmente pubblici, vagliano qualità e contenuto dei medesimi, si ripuliscono dalle inevitabili tensioni, invidie, antipatie e simpatie, attrazioni e repulsioni, pregiudizi, avendo presente che l’obiettivo è di arrivare ai mondi, agli altri di cui si parla (e di misurarsi con i convitati di pietra che ci dominano)».
E continuo, quando posso e dove posso e con quelli che ci stanno. Ovviamente non sono rose e fiori. Ma le assicuro: poeti che non aspirano soltanto al consenso, all’essere conosciuti e apprezzati ce ne sono.
In realtà, nessuno impedisce a nessuno di mettere su un canale youtube di poesia e di provare a farsi strada dal basso come opinionista colto della materia. C’è giusto un ragazzino, ora sponsorizzato da Repubblica, Favji o come si chiama, che viene seguito da decine di migliaia di suoi coetanei ed è alla ribalta sostanzialmente parlando dei fatterelli suoi. Come lui, altri “opinionisti” della musica, del calcio, dei videogiochi, ecc. Mi pare un falso problema quello di Fazio. Voglio dire che mi pare un falso problema il modo romano di fare le cose, anche queste letterarie: mirare al bersaglio grosso, all’aggancio con l’alto, ecc. ecc. Nella mia vita ho conosciuto due tipologie di romani: quelli del popolo, in genere veraci e dal cuore d’oro, e quelli che gestiscono o vorrebbero gestire un minimo di potere, da evitare come la peste. Questo della visibilità della poesia è un problema tutto romano: a Milano non gliene importa nulla perché gli spazietti e le commissioni per lavorare li hanno; a Bologna non gliene importa nulla perché sul territorio sanno muoversi bene; a quelli del web importa ancora meno perché non hanno mai imparato a credersela o a sentirsi intitolati a qualche rappresentatività in pubblico.
GiuseppeC, non hai colto il punto: non è come farsi conoscere e se postare un video di Massimo Gezzi che legge il suo nuovo libro (tanto per citare il nostro “ospite”) per ottenere tot like. NO, non è questo il punto, la prospettiva (aiuto, è la centounesima volta che provo a spiegarlo: ritenta, sarai più fortunata?) va assolutamente rovesciata. Non sono io poeta che voglio andare da Fazio il problema, ma Fazio (e l’Italia che rappresenta: la fascia medio-colta, che legge i libri, il sabato sera va a teatro, al cinema o nei ristoranti buoni e vota Renzi) che non saprebbe citare manco mezzo poeta contemporaneo e non è tutta colpa sua/loro, se Sanguineti invece a Sanremo lo invitavano eccome, ancora dieci anni fa. Mi segui? Un problema di rappresentazione collettiva, simbolica, di sentire comune, di consapevolezze più o meno estinte. Non c’entrano le conventicole di questa o quella città o le ambizioni dell’uno o dell’altro: è un problema, mi segui?, di autorevolezza, di percezione pubblica. Il poeta (romano, milanese, sardo) oggi non rappresenta nessuno, né può farlo, perché non esiste (abbiamo almeno notato la sparizione dalle librerie, alla stregua del settore ‘’critica”, dello spazio deputato alla fantomatica poesia o nemmeno?). La professoressa che è intervenuta poco fa diceva che “commuove le pietre”, la poesia: ecco, se questo è il valore (assolutamente diffuso – e regressivo- fra i poeti che oggi contano quel minimo: i poeti che si leggono (tra di loro), si premiano (sempre tra di loro), si promuovono nei canali possibili, vanno alla radio etc.), sarà meglio continuare sanamente a rimpiangere quegli ultimi di prima, perché magari non scalfivano manco un grissino, però qualcosa da dire avevano, e a nome di qualcuno che non fosse il loro cuore (o, nei rari casi fortunati, il loro commercialista).
Però, come dire, c’è anche uno specifico della poesia, del dove la si fa e del come e del dove sta. Facciamo il caso, allora, che Campana e Rebora, due esempi, fossero qui, ora. Sarebbe bello, no? Ma ve li immaginate a “che tempo che fa”, o “a che tempo che non fa”, a rispondere alle domande carine del conduttore e poi, subito dopo ecco che ti arriva il cantautore poeticisssimo che schitarra le sue incertezze ultra-certe, e appena prima c’è stato il collegamento con l’ex super star non so che cosa che è tornato a fare i film? Boh, non lo so. Anche “il caso dei sonetti” che ci riferisce Gilda Policastro è parecchio esemplare. In pratica (molto in pratica, ma anche molto in teoria) un dispensatore di yes macromediatici cerca per i suoi (propri) sonetti un expertise micromediatico che gli tolga via il dubbio sui suoi (propri) sonetti. Non appare un caso di ultimità della poesia, no, direi di no. In tutto ciò consola il fatto che le poesie di Campana e Rebora, due esempi, stanno sulle antologie delle scuole superiori e gli studenti dell’ultimo anno le hanno su quei notevoli libri. E’ immensamente più complesso di così, non c’è dubbio; ma l’immensamente complesso lo si può anche un poco, almeno un poco, strecciare. Etc.
Con le eccezioni dei tragici-comici greci e dei bardi medioevali, credo che da millenni nessun poeta abbia un mandato sociale. Se crede di averlo, è un illuso. E se qualcuno glielo fornisce, è un equivoco, del quale il poeta vorrebbe liberarsi prima possibile. Non riesco a immaginare Ariosto con un mandato sociale diverso da quello di essere un buon segretario particolare, o Leopardi con una richiesta differente dall’essere un buon patriota, o un buon aristocratico reazionario.
Un poeta ha o vorrebbe avere dei lettori, dei critici, non un’autorizzazione, o un vessillo. E questo perché la dimensione del vero poeta è la confraternita di cinque o sei sodali, o due-tre volte l’anno un pubblico chiuso in una sala, o ancora sporadicamente gli ascoltatori di Radio Tre. Ma ogni giorno e in ogni istante, il suo vero orizzonte sarà l’immenso uditorio dei secoli a venire. Perciò, il poeta non sa che farsene di qualche milioncino di distratti contemporanei. Se scrive di cronache presenti, come Dante, lo fa perché gli torna utile; ma è in grado di capirle solo se le tradisce subito, inserendole in una scala di problemi ben diversa.
Se Luperini avesse scritto che oggi il poeta non ha un mandato sociale, non lo avrei certo accusato di nulla. Un secolo e mezzo ci separa dall’albatro di Baudelaire e un secolo pieno dal Tri tri tri di Palazzeschi: non è questo in discussione. Sappiamo bene, grazie a Majakovskij, che fine fanno i poeti che scommettono sulle masse, sia pure rivoluzionarie: vengono “suicidati” da un dittatore solissimo.
In realtà, Luperini ha scritto che la lingua della poesia è morta. Mi sembra una differenza decisiva. Non ha scritto che il poeta è ignorato dalle masse, o che l’alta borghesia delle professioni, il nuovo proletariato impiegatizio (di cui fa parte il 90% degli insegnanti) o il sottoproletariato di buon cuore lo hanno abbandonato. Non ha parlato della crisi delle collane storiche di poesia, del semi-silenzio della critica, dello sparpagliamento su internet di mille voci. Ha proprio detto che la lingua della poesia è morta. Con un maggior grado di complessità e dolorosa partecipazione, Ferroni ha affermato che dopo Giudici e Zanzotto la poesia non è stata più «presenza, passione e critica, piena disposizione esistenziale e intellettuale».
Tutto ciò è una generalizzazione, un’autoassoluzione, un vecchio assunto hegeliano indimostrabile e indimostrato, un frettoloso finale da parte di chi è stanco, anche legittimamente, di scrivere il proprio romanzo. Persino chi, duecento anni fa, avesse affermato la morte della poesia in latino avrebbe dovuto fare i conti almeno con Pascoli, Fernando Bandini, Michele Sovente. Solo chi misura L’INCIDENZA della poesia nella società, e non si commisura alla poesia in sé, può essere così superficiale da affermarne la fine, senza prima aver scrutinato decine e decine di autori e averne data pubblica e critica lettura. Ma un critico superficiale preferisce dire che la poesia è morta invece che provarsi nella lettura approfondita di un vero poeta, che potrebbe denunciare in lui tremende deficienze di gusto. La verità è che saper leggere e individuare la poesia – soprattutto oggi – è arduo e dirimente. Quando un critico dice ciò che ha detto Luperini, si suicida in quanto tale.
La poesia non ha niente a che fare – quasi mi dispiace dirlo – neppure con l’Umanesimo, evocato da Filippo La Porta. Fra il 1370 e il 1470 l’Italia non ha avuto un poeta degno di nota. La crisi (definitiva?) dell’Umanesimo, fra il 1890 e il 1945, ne ha prodotto decine e decine in tutto l’Occidente. La poesia è una cosa terribile, misteriosa, molto difficile da fare e da riconoscere. Ti fa sentire un miserabile e un miracolato, è un’esaltazione in cui si concretizzano centinaia di letture, proprio nel momento in cui scompaiono in qualcos’altro. Il cosiddetto “cuore” ne è uno dei moltissimi ingredienti. Non credo che la poesia “resista”, ma che possa esistere, anche dopo di noi, perché non ha a che fare con l’Umanesimo, che è un’ideologia, ma con la sporca, bisognosa, musicale umanità.
La “fine della poesia” è stato il rompete le righe per centinaia di poetini astuti, fiocamente ispirati o retoricamente poco competenti, i quali hanno salutato la dichiarazione medico-legale di morte sul colpo per danzare la loro danza autoreferenziale. Morta la lingua della poesia, nessuno si prenderà più la briga di sbugiardare i falsi poeti, e tantomeno di distinguere e pubblicare sul serio quelli veri, da sempre molto scarsi di numero. La fine della poesia conviene ai più.
Gilda Policastro scrive in uno dei commenti al mio scritto che la mia «lagnanza del post da cui partiamo sa molto di perorazione pro domo sua, a dirla tutta». A parte la “lagnanza” (temo che la mia sia una pagina di critica della cultura, o un’accusa: “lagnarmi” non mi appartiene), Policastro dice una cosa palesemente vera, e ovvia, ma curiosamente col tono di chi fa un rimprovero, o pesca il colpevole di una marachella. Il mio piccolo scritto, o le centinaia di pagine in cui per vent’anni ho letto e valutato decine e decine di opere poetiche, hanno come condizione di esistenza la scommessa totale, decisiva, ultimativa, sulla mia statura di poeta. E parlo di “scommessa”, perché la certezza non potrò averla mai. Ma se anche io fossi l’unico poeta oggi vivente in Italia (e non è così), la lingua della poesia non sarebbe morta. Solo grazie al forte sospetto che io sia un poeta, e che lo siano alcuni altri autori che ho letto, posso sostenere che Luperini ha sbagliato, e che chiunque sia superficiale, difensivo, liquidatorio, succube di un miope storicismo, sbagli a sua volta. Così, invece di accusarmi di un fatto che io rivendico serenamente, Gilda Policastro potrebbe esprimersi sul fatto decisivo: se Paolo Febbraro è un poeta, o se lo sono Patrizia Cavalli, Gabriele Frasca o qualcun altro a sua scelta.
Con ciò, non sto dicendo “leggetemi!”. Non chiederei mai a qualcuno di leggermi, se già non l’ha fatto, o se non lo farebbe comunque incontrando i miei versi per puro caso. Non ho scritto il mio intervento per incrementare il mio pubblico; l’ho scritto per certificare che chi afferma la morte della lingua della poesia non è un critico letterario, è uno che non sa leggere, né me né altri, in Italia e all’estero. Non critica a fondo un contesto periclitante e difficile, ma lo crea.
Sottolineare il pessimo momento pubblico e pubblicistico della poesia non vuol dire doverne celebrare il funerale. Questa fretta di arrendersi allo strapotere della massa senza nome – quella massa che qualche tempo fa magari si voleva “salvare” dallo sfruttamento – è sospetta. Ricordando le sparute dieci persone che assistevano alla lettura di Durs Grünbein, e la loro età media, Policastro non riesce a sopportare che il pubblico potenziale del poeta corrisponda, con qualche approssimazione, a quel numero di persone. Io rifiuto di mostrarmi subalterno al sistema delle quantità, che detesto come la falsità più vistosa. Policastro afferma che «la poesia, a parte nelle antologie, non esiste». Luperini è autore di una di quelle antologie. È solo questo, il problema.
Febbraro, quello che non sopportano i Luperini è che a essere morta è la lingua dei professori di poesia. La mia impressione è che questi professori qua (e aspiranti professori), se venissero avvicinati da un vero poeta, si appresterebbero solo a fargli un autografo.
PS: so che conta poco, ma a me leggere questi interventi ha messo voglia di leggere i suoi versi.
Caro Paolo,
c’è nelle tue parole – ancora più qui che nel testo da cui sei partito – una passione, una passione di esistenza-in-vita, che non da oggi mi rende vitale il confronto con te. Senza la passione per l’esistenza (foss’anche minimale, foss’anche solo per il sussulto bioritmico che ci differenzia dalla selce che eravamo, e torneremo a essere) non c’è poesia come non c’è vita; banale dirlo – ancora più banale, però, dimenticarsene. Anche se, per il mio temperamento assai più che per la mia estetica, ti confesso che non mi pare così produttivo fondare un protocollo collettivo su una “scommessa” fatta anzitutto su se stessi (non sono un poeta, non sono uno scrittore; ma non mi azzarderei mai a fondare la tesi, assai meno impegnativa di quella qui in discussione, di una sopravvivenza della critica – o anche dell’insegnamento, così detestato da alcuni qui – sulla sopravvivenza del critico o dell’insegnante che so, o credo, di essere io stesso).
Però mi pare che tu non risponda all’obiezione più pungente fra quelle che ti sono state qui mosse, e che ha fatto Andrea Inglese, scrittore e intellettuale che pure so da te stimato: «Il padre di tutti i becchini è Berardinelli, che ha preceduto Luperini e Ferroni, e molti altri: è lui l’avanguardista seppellitore». Storicamente questa retorica della “fine”, o «sport della vanga» come lo definisce Inglese, ha un inizio che – storicisticamente o, spero, neo-storicisticamente – io collocherei nella seconda metà degli anni Settanta (Abate citava qui un mio scritto dove simbolicamente la fissavo al ’75: data eloquente ma, come tutte le date indicate a spartiacque epocale, solo simbolica appunto). È stata la generazione dei poeti (refoulés) “del ’68”, cioè appunto gli autori del «Pubblico della poesia» uscito proprio nel ’75, i due da noi così stimati Berardinelli e Cordelli, la prima a percepirsi come oggetto e insieme soggetto dell’atto del vangare la tomba della poesia: anche se l’immagine ha i suoi precedenti (il più squassante, a parer mio, è di un poeta che so tu non ami troppo, «Fuisse» di Zanzotto; ma «Il poeta postumo» è un titolo di Cordelli del ’78 che, come sai bene, ha un limpido precedente palazzeschiano), è in quella stagione che si assiste per la prima volta – dopo il ’68, cioè dopo l’universitarizzazione di massa – al fenomeo della “troppa poesia, dunque nessuna poesia” (l’angoscia della quantità che ti assedia, che ti soffoca, che si autocancella: l’angoscia che ha dettato a Ferroni le sue posizioni già degli anni Novanta, e poi del titolo ominoso «Gli ultimi poeti»). «Il pubblico della poesia» antologizza (sia pure virtualmente) 64 poeti, certo non a caso uno più di 63, tutti concentrati in un microscopico (storicisticamente valutando) lasso di spazio-tempo. Todos caballeros, fine della cavalleria; questo l’assunto implicito nel titolo del libro, non meno che luciferino.
A questo problema (che è un problema oggettivo), altri autori, più giovani ma giunti sulla scena quasi immediatamente dopo, danno risposte diverse. Sono Magrelli e Frasca (i quali infatti incarnano oggi la versione più attendibile del poeta-intellettuale, il poeta non-specialista che sa tante cose, padroneggia tante discipline, e interviene con costanza e coerenza su questioni infatti non specialistiche: sui «destini generali»). Il primo considera il disordine del secolo come un ordine paradossale (c’è una sua intervista assai ironica e quanto mai lucida nella quale paragona il sabotaggio permanente allora oggetto d’insegnamento all’Università al Partito Rivoluzionario Istituzionale che ha governato per decenni il Messico), il secondo considera l’ordine della tradizione come un disordine ancora spendibile (e travasa il disordine delle avanguardie nelle forme della tradizione più o meno “fluidificate”: cfr. il suo intervento al convegno di Pontignano evocato da Abate e al quale ebbi la ventura di partecipare; lì fra lui e Sanguineti circolava una quasi del tutto sottaciuta, ma quanto mai significativa, tensione). Sono due forme di manierismo postmodernista (anche se tale formulazione, specie nell’aggettivo, non piace a nessuno dei due) perfettamente rispondenti allo spirito del tempo. Ma sono anche due forme di poesia (oggi sostanzialmente e intelligentemente abbandonate da entrambi, anche se molta critica non pare volerne prendere atto) che hanno avuto successo, seguito, e direi anche una certa incidenza socio-culturale (quella oggi accessibile alla poesia: su questo non si può che rinviare alle pagine conclusive, e per me assai problematiche, di «Sulla poesia moderna» di uno dei nostri padroni di casa).
Questo ci dice due cose, credo. Primo: che la poesia, non solo come sussulto biointellettuale del singolo, alligna con persistenza tenace anche in condizioni quanto mai avverse. E, secondo: che la risposta stilistico-formale a un determinato tempo non necessariamente, lo sappiamo, è a quel tempo sintonica. (Anzi: non a caso il primo Frasca impugnava con decisione la «Dialettica negativa» di Adorno.) Ma se questo era vero all’inizio degli anni Ottanta, non credo che nel frattempo si sia prodotta una qualche catastrofe psicocosmica (per fare una citazione delle precedenti un po’ meno aurea) che lo renda impossibile oggi.
@ Febbraro
Gentile Paolo Febbraro,
non la conosco ma conosco Romano Luperini, con il quale in passato ho avuto scambi anche polemici che però mai hanno intaccato la mia stima per lui e la sua opera di critico. E intervengo, senza alcun “mandato”, perché non mi va di sorvolare su una polemica così personalizzata, per me – non so per gli altri – inaccettabile nel tono.
Anch’io, riferendo le mie impressioni sul Convegno di Pontignano del 2001, ho criticato quel collettivo tirare i remi in barca di un settore importante (per me) della critica letteraria italiana in un momento di crisi. Ma non capisco perché prendersela *soprattutto* con Luperini. Perché ha scritto che «la lingua della poesia è morta»? E tale opinione dimostrerebbe di per sé che chi l’ha espressa sarebbe « un critico superficiale» o addirittura «non […] un critico letterario, [ma] uno che non sa leggere, né me né altri, in Italia e all’estero» o denuncerebbe « in lui [Luperini] tremende deficienze di gusto»?
Posso ammettere in generale che «chi misura [soltanto] L’INCIDENZA della poesia nella società» (ma è il caso di Luperini?) lasci fuori qualcosa d’importante. E però sostituire questa visione sociologizzante con l’idea di una «poesia in sé» e farne un feticcio quasi insondabile («La poesia è una cosa terribile, misteriosa, molto difficile da fare e da riconoscere»») dove ci porta?
Forse non è esatto parlare di “fine della poesia” , ma una cesura c’è stata. E a me paiono legittimi e comprensibili anche i dubbi o le diagnosi più atroci. Perché allora svilire il suo avversario?
Infine lavorare solo per «sbugiardare i falsi poeti» non è uno sport eccitante. E in quanto a «distinguere e pubblicare sul serio quelli veri» (lasciando perdere se siano o meno «da sempre molto scarsi di numero» e quanto sia facile procedere a quest’operazione in assenza di criteri di giudizio solidi, lo si è continuato a fare, lei stesso afferma di aver continuato a farlo. Non l’hanno impedito né Luperini (né Mengaldo, o altri). E allora? Ci si può rammaricare del loro ritrarsi. E benvenuta sia pure la critica di questa scelta (comunque motivata anche se discutibile), ma perché un tal contorno di meschinerie non so se generazionali o intraccademiche?
Ennio Abate, dall’interno della generazione degli scampati al diluvio, glielo spiegherei come edipismo recidivante. Non riusciamo né a ammazzarli né a ignorarli, questi benedetti padri, zii, nonni che siano, mentre diventiamo padri, zii e nonni a nostra volta, tra livori e risentimenti immedicabili. Non ci resta che aggredirli come possiamo, senza centrare quasi mai il punto; pure l’intervento storicizzante e assai dettagliato di Cortellessa (perdonami Andrea) secondo me non è stavolta esattamente a fuoco: dove risponde al problema della poesia è morta/ viva la poesia (nella società reale, nelle coscienze, competenze, consapevolezze comuni)? Che è un problema grosso, serio, se un poeta-intellettuale come Febbraro maiuscola la poesia come molti della sua area, e come credo giusto gli orfici, quanto a sacralità. Diciamolo chiaro: c’è una generazione divisa in aree contrapposte tanto quanto Pasolini e Officina vs il Verri e Sanguineti ai tempi. Solo che adesso siamo, appunto, meno incisivi e a parte la limitata cerchia/nicchia dei piccoli e medi editori/recensori/promotori culturali, non importa realmente a nessuno che dibattiamo (anzi, che esistiamo. Esistiamo?). Da un lato ci sono quelli che la neoavanguardia vade retro, con l’ossessione del rinnovamento dei linguaggi, il sabotaggio a oltranza, il poetese ingiustamente turlupinato e così via. La reazione è stata prepotente, come e più che nella narrativa e con meno alibi (quali vendite?), se la poesia si torna a maiuscolare e si cita Leopardi ignorando quelle parole definitive dell’operetta del Parini, in cui una volta per tutte (“il mondo invecchia peggiorando”) si nega la funzione riparatrice della posterità, cui sarebbe chissà perché demandato di riscattarci: come mai, di grazia, quelli che verranno dopo (ci) capiranno, e questi di ora no? Il diluvio, appunto. Dall’altra ci sono poeti nuovi, nuovissimi, neonovissimi, li direi, che non si accorgono che l’avanguardia sì, d’accordo, ha rinnovato i linguaggi, ma è durata a dir tanto vent’anni, poi non ha attecchito, dici poesia oggi e la professoressa ti risponde che “commuove” e Febbraro che parla ai posteri. Ma li leggete i vostri fratelli e simili, diobono? Ma vi accorgete di come si dica poesia qualcosa che non deve più nemmeno configurarsi graficamente come tale, meno che mai rimare, meno ancora cuore, amore? No: perché per la residuale, mortifera, zombiale (passatemela) società letteraria POESIA è ancora e soltanto quella cosa lì, in barba a tutta la pluralità rivendicata da Cortellessa. D’altro canto le esperienze della cosiddetta ricerca o sperimentazione si autocondannano a una tale insignificanza, col loro chiudersi in situazioni minoritarie dai pochi adepti e nelle collanine che trovarne una in libreria peccarità, che proprio non si vede come possano aspirare a far passare nel senso comune un grammo del loro spirito rivoluzionario. Ecco, da un lato, caro Ennio Abate, c’è la rivoluzione col ciclostile e dall’altro la reazione grandi firme che se vuoi pubblicare con loro non ti dicono nemmeno del tutto di no, ma che devi aspettare fino al 2021 perché “non c’è posto”. Intanto quale sia il posto e occupato da chi, è tutto da considerare…di questo un critico lucido e lungimirante come Luperini (si pensi al recente Tramonto e resistenza della critica) dà conto da un ventennio almeno, con i suoi parametri (in parte) diversi dai miei, con il suo sguardo (in parte) diverso dal mio, ma alla fine convergiamo su un punto: non c’è (ancora? Mai più?) nessun poeta paragonabile a Fortini (io dico a Sanguineti, ma la stagione, se non la generazione, quella è), quanto a forza di incidenza e persistenza. Smentitelo/mi/ci (e Buona Pasqua).
Gentile Gilda Policastro,
visto che Paolo Febbraro sembra essersi eclissato dalla discussione, alcune obiezioni (ancora!) al suo ultimo commento. Vabbè, nessuno dei poeti oggi in circolazione o degli “scriventi versi” è paragonabile a Fortini, a Sanguineti (o ad altri da aggiungere a piacimento). E allora? Non possiamo continuare a roderci il fegato in lamentazioni da epigoni, in dispettucci da «edipismo recidivante», nella constatazione della situazione bloccata delle ex-patrie lettere.
Finché si tratta di difendere Luperini da attacchi ingiusti ci sto. Ma il punto non è una impossibile smentita della diagnosi da lui fatta in «Tramonto e resistenza della critica». Sta invece nell’accento da porre su uno dei due termini di questo titolo.
Su ‘tramonto’ o su ‘resistenza’?
Lei, riottosa come mi pare ad ogni logica da “resistenza catacombale” (la mia), insiste a porlo su ‘tramonto’. Che dirle più? Sommessamente, a correttivo di un certo orgoglio e in un dialetto che dovrebbe esserle ancora caro: Nunn’ o ssaje cche fatiche s’addà ffà/ e ccose piccirelle pe ffà campà?”.
@ Abate
mi permetto, intanto questo
http://www.ilpost.it/2015/04/04/mercante-ghiaccio-ecuador/
poi ecco, a naso, tramonto o resistenza sono atteggiamenti mentali, disposizioni d’animo; non si scelgono. Non è detto che ognuno viva solo uno o solo l’altro, ma questo è.
Caro Paolo, ho letto con interesse il tuo articolo e mi sono accollato fino all’ultimo la fatica dei commenti. Che dire? Mi sento molto lontano dalle ragioni di chi dibatte, così lontano da rimanere abbastanza disinteressato vuoi al tema vuoi alle prese di posizione suscitate. Affinché il mio non sembri un disinteresse lassista, chiarisco subito che nasce da questa semplice domanda: che peso hanno, sullo stato della poesia, i referti di cui si parla? E la risposta mi sembra così scontata da rendere la domanda retorica: nessuno. Qualunque dichiarazione sullo stato della poesia – che provenga da becchini, da tassidermisti, da fisiatri, da fedeli – quanto alla poesia lascia il tempo che trova. Può aprire utili o inutili dibattiti di tipo critico-storico-politico-sociologico, con profluvi di analisi e posizioni e foto(radio)grafie di questo o quel panorama poetico; in merito si possono enunciare verità scottanti e amenità indigeribili, si possono fare i conti col proprio punto di vista e con quello dell’altro, litigare o andare d’accordo, fare gruppo o procedere da isolati, sbandierare i propri maestri (senza dare prova di averne appreso la lezione) o nasconderli nelle pieghe del discorso, resta il fatto che lo stato della poesia, passato il ciclone delle parole su di essa pronunciate, rimane quello che è. E questo stato, vivaddio, sta lì, forte (o debole) delle cose scritte (che prescindono beatamente dalle recensioni ricevute, o dalle copie vendute, o dalle comparsate televisive) e forte (o debole), al contempo, di lettori che con esse prima o poi potranno interagire. È così solido, lo stato della poesia, che non si preoccupa nemmeno della prospettiva postuma. Chi scrive poesia sa che semina per un tempo difficilmente suo; ma è certo che a quella semina, se ha lavorato bene, seguiranno frutti (lo sa perché leggendo poesia ha trovato frutti nutrienti, e da scampato alla fame non dimentica). La poesia non dialoga coi suoi critici ed esegeti ma, su tempi così lunghi da sfidare ogni umana pazienza, solo con altra poesia. Quindi, per dire la propria in merito, bisogna leggerne, scriverne e sperare di fare al meglio entrambe le cose. Fermo restando che indizi della riuscita della propria sono reperibili solo in quel momento di verità con se stessi che accompagna come un’ombra il dovere d’autore.
Poi ci sono i mediatori, ma qui il discorso entra in un ambito che al momento, per mancanza di tempo e di energie, mi riguarda poco. Tieni conto, però, che in passato non sono rimasto con le mani in mano: dall’84 fino ai primi anni Novanta, grazie all’attività del “Circolo Sacchini”, fertile costola di Democrazia Proletaria di Arezzo, ho creato e curato “Confluenze”, che Luperini (plurichiamato in causa, nei commenti) conosce bene perché insieme a Cataldi e Muzzioli faceva parte del comitato scientifico; e ancora, negli anni Novanta, ho fatto parte della redazione della rivista “pagine”. Adesso è tutto un po’ più difficile, il tempo anagraficamente scarseggia, e come sai sono così preso dalla scrittura da non potermi concedere distrazioni; ma vedrai che tra un romanzo e l’altro, come ti ho annunciato in una lontana mail, prima o poi il quarto e ultimo libro di poesia riuscirà a vedere la luce. Sempre che la barbarie non ci metta lo zampino.