di Alberto Casadei
[Questo contributo è stato ricavato da uno più ampio, a firma di Alberto Casadei e Veronica Ribechini, in corso di stampa sulla rivista “Italianistica” (fascicolo 1/2015)].
1. La questione dell’autenticità del Diario postumo di Eugenio Montale, che aveva suscitato così tante polemiche soprattutto a partire da un articolo di Dante Isella del 20 luglio 1997, quindi a distanza di poco più di un anno dall’uscita integrale delle poesie, in un volume a cura di Annalisa Cima e con apparato critico di Rosanna Bettarini[1], è rimasta piuttosto sopita sino a pochi anni fa, quando sono stati indicati per la prima volta nuovi elementi degni di valutazione. È stato definitivamente accertato che l’idea di una preparazione in vita per un’opera postuma era già contenuta in vari racconti montaliani di difficile reperibilità prima dell’edizione nei Meridiani: e per ironia della sorte, come ricordava Angelo Marchese nella sua ancora ignara Prefazione al Diario (p. xv), proprio a Dante Isella Montale, nel 1969, aveva confessato che avrebbe voluto pubblicare Satura solo postuma[2]. Tutto ciò non è peraltro sufficiente a garantire che l’intera raccolta del Diario sia stata organizzata dall’autore. Molte infatti erano e sono le incongruenze materiali e stilistiche che restano inesplicabili: in particolare, gran parte dei presunti autografi esibiscono una vistosa somiglianza con i testi giovanili montaliani, e una notevole diversità con tutti quelli dell’ultima fase, quanto meno dalla fine degli anni Sessanta in avanti. Naturalmente, la possibilità di controllare la situazione dei presunti autografi, di fatto mai concessa dalla Cima, sarebbe una premessa indispensabile per qualunque ulteriore considerazione; tuttavia, almeno alcuni casi interessanti possono essere già segnalati in base ai materiali a disposizione. Per esempio, si possono considerare due testi di Emily Dickinson, I Have no Life but this e To see her in a Picture, che sarebbero stati tradotti insieme dal poeta e dalla Cima: la riproduzione dell’‘autografo’ è presente nella nuova edizione del volumetto Incontro Montale, curato dalla stessa Cima e pubblicato per la prima volta da Vanni Scheiwiller nel 1973, e poi, dopo la pubblicazione integrale del Diario postumo, nel 1996[3]. La riproduzione si trova a p. 41 e mostra due grafie apparentemente diverse, ma in realtà accomunate da tratti del tutto simili. I due testi compaiono uno di seguito all’altra e sono firmati in calce a sinistra “E.Montale / 1975” e a destra “Annalisa Cima / 1975”. Si nota subito che i numeri 1 e 9 della data hanno la stessa configurazione nei due casi. I versi presentano alternativamente due grafie, prima quella presunta di Montale, poi quella della Cima, ma non possono nascondere tratti similari, per esempio nella fattura delle m, n, r, u minuscole. Un’analisi capillare di questi elementi potrebbe risultare molto significativa, soprattutto quando verranno messi a disposizione gli originali[4].
Va ora segnalato che, dopo un lungo silenzio, interrotto solo da qualche intervento di cui si dirà più avanti, nel 2012 Annalisa Cima è finalmente tornata sulla questione, proponendo le sue ‘verità’ in un volume, Le occasioni del “Diario postumo”. Tredici anni di amicizia con Eugenio Montale[5], che non ha forse suscitato reazioni adeguate. Nel volume, l’ispiratrice del Diario rievoca l’inizio della sua consuetudine con il poeta, nel 1967-68, e poi i loro rapporti anno per anno, sino alla morte di Montale nel settembre del 1981. Le informazioni fornite sono in buona parte inedite, specie per quanto riguarda la genesi di quasi tutti i testi del Diario postumo: con una precisione a dir poco sorprendente, essendo passati più di quarant’anni, vengono citati eventi minimi che avrebbero fornito a Montale l’occasione per scrivere i componimenti. La Cima ha più volte affermato di possedere numerose registrazioni delle sue Conversazioni con Montale, e anzi qui promette una prossima pubblicazione (p. 100; e cfr. anche pp. 42-43), come peraltro aveva fatto più volte sin dal 1986: ma perché, con i mezzi tecnici attuali, non mettere in rete almeno alcune parti di questo importante materiale? Forse l’autrice ha attinto da quel patrimonio, del quale in vent’anni o più non è mai stato fornito neanche un campione; in ogni caso, nemmeno in questo volume si dà notizia esatta riguardo alla sua consistenza, e di certo le parti virgolettate, che riprodurrebbero parole esatte di Montale, non sembrano rientrare quasi mai nella tipologia di frase orale pronunciata durante una conversazione.
Le occasioni del “Diario postumo” vuole invece rispondere direttamente o indirettamente alle numerose obiezioni che sono state mosse alla Cima, ma lo fa in modi perentori e idiosincratici, che lasciano molti dubbi a un vaglio ravvicinato. Un esempio. Dal libro si verrebbe a sapere che un giudizio piuttosto negativo espresso da Gianfranco Contini sulla prima edizione del già citato Incontro Montale, pubblicata da Scheiwiller nell’aprile del 1973, sarebbe da ricondurre a uno scherzo ordito da Montale stesso al suo grande critico, al quale avrebbe detto telefonicamente, in presenza della curatrice, che si trattava di repêchages da Auto da fé, e Contini avrebbe riprodotto questo giudizio nel suo Una lunga fedeltà (Torino, Einaudi, 21 settembre 1974, secondo il colophon: si veda in effetti p. 109). Tuttavia, il critico vide il volumetto, come è dimostrato dal riferimento allo schizzo di Marino Marini che si trova sulla sua copertina, e sembra singolare che, a distanza di un anno e mezzo dall’uscita, non abbia controllato minimamente il contenuto; la Cima avrebbe poi immediatamente contestato il giudizio in una lettera (riportata nel volume: p. 57) del 9 settembre 1974, cui il critico avrebbe risposto, ma il 20 maggio 1976 (p. 58), riferendosi a quella missiva come se gli fosse arrivata qualche giorno prima anziché da quasi due anni. Insomma, nella ricostruzione proposta parecchie cose sembrano piuttosto singolari: il ricordo esatto delle parole dette da Montale in una telefonata del 1973, che infatti sono virgolettate (p. 56), sinora mai citata in nessuna occasione dalla Cima (ma se fosse stata conservata in una registrazione, dovrebbe essere possibile ascoltarla); il testo della sua lettera, riportato per esteso, di cui evidentemente l’autrice doveva aver tenuto una minuta (ma l’originale spedito non sembra essere stato conservato fra le carte continiane); il fatto che questa lettera sarebbe addirittura antecedente all’uscita in libreria di Una lunga fedeltà, che è stato distribuito a partire dalla fine e non dall’inizio del settembre 1974, e di fatto fu disponibile da ottobre; la risposta di Contini, che forse si riferisce a un contatto successivo.
Tutto il libro si basa su affermazioni difficilmente verificabili, anche perché gli eventuali testimoni chiamati in causa sono deceduti: da ultimo, purtroppo, Cesare Segre, che peraltro non si era mai espresso sulla questione dell’autenticità del Diario postumo, pur avendo varie volte collaborato con la Cima per iniziative editoriali montaliane. Soprattutto sorprendono, in tanta abbondanza di riferimenti minuti, alcune strane omissioni. Non si dice, per esempio, quando esattamente il poeta avrebbe concepito l’idea della pubblicazione postuma, e nessun accenno viene fatto a quei testi che, come si è detto, avrebbero potuto senz’altro corroborarla. Possibile che Montale abbia rinunciato a far presente, fra così tante, infime notizie fornite, la lontana matrice del progetto, mentre invece esso sembrerebbe derivare da un’idea sorta all’improvviso (e oltretutto prima alla Cima), quella di un diario parallelo fra l’anziano poeta e la sua giovane interlocutrice (cfr. p. 34)?
In realtà, su tutti gli snodi essenziali della vicenda pesano incertezze e incongruenze. Il ‘piano’ di Montale, che in sostanza sarebbe consistito nel far pubblicare alla Cima le poesie postume e poi addirittura l’opera omnia, avrebbe avuto un’incubazione nel 1969, si sarebbe precisato nel corso del 1972, quando il poeta avrebbe cominciato a scrivere alcune lettere-legato in cui designava l’amica come sua curatrice, e poi avrebbe avuto varie tappe nel 1975-76 (cfr. pp. 96-98) e una conclusione nel 1979, quando il ‘piano’ sarebbe stato perfezionato con il notaio Raffaello Meneghini e l’avvocato Blasco Morvillo, “per uno strano gioco del destino” già consulenti di fiducia della Cima (come lei stessa si premura di farci sapere: cfr. p. 50).
A quanto si ricava dal volume (cfr. p. 137), la curatrice delle poesie postume non sarebbe stata al corrente di tutti i dettagli, e ciò era stato da lei dichiarato anche a Viviana Kasam in un’intervista per il “Corriere della sera” uscita l’8 aprile 1997 (p. 13):
Annalisa Cima aveva ereditato i diritti sulle poesie postume, che le furono lasciate in undici buste d’aprirsi, per volontà testamentaria, una all’anno a partire dal quinto anniversario della morte […]. Ora il fulmine a ciel sereno: sarebbe lei l’erede poetica universale. Ma come mai ha deciso di rivelarlo solo oggi? “Perché nemmeno io ne ero al corrente: secondo le volontà di Montale, solo nel settembre del 1996 abbiamo aperto le buste che contenevano le ultime lettere – legato, e perciò abbiamo potuto solo ora far conoscere tutti i testamenti ai soci della Fondazione Schlesinger. Li abbiamo pubblicati sia perché dicono molto sul carattere di Montale, sia perché spiegano le ragioni del suo modo di procedere. Quello che mi stupisce, però, è che si possa dubitare dell’autenticità dei documenti, visto che sono autografi e controfirmati dal notaio. Nel mio contratto stipulato con la Mondadori nel 1988, sia la Casa Editrice che Bianca Montale prendevano atto delle prime dodici lettere – legato, e i contenuti di quelle lettere, soprattutto di una datata 1978, non differivano affatto, nella sostanza, da queste ultime”. […] “Comunque, come per Diario Postumo, in ogni caso i diritti andrebbero alla Fondazione Schlesinger che li rispenderebbe per onorare Montale con traduzioni, simposi e altre forme”.
Tuttavia, in un articolo di Paolo Di Stefano, Mondadori, bufera con la Musa, uscito sempre sul “Corriere” del 30 luglio 1997 (p. 25), ossia dopo l’inizio del ‘parapiglia’, si leggono varie precisazioni, soprattutto da parte del direttore editoriale della Mondadori Gian Arturo Ferrari:
Il 22 marzo ’88, quando fu firmato il contratto per la prima edizione parziale, Ferrari non si trovava alla Mondadori, ma ricostruisce le vicende attraverso la sterminata documentazione che rimane sui rapporti Cima – Mondadori. Ecco, innanzitutto, la copia del contratto, controfirmata da Bianca Montale, la nipote designata dal poeta come erede letteraria nel testamento del ’75. (Il nome di Bianca Montale compare nel contratto con la qualifica “erede”). Ma il contratto è molto interessante per le premesse: vi si citano in primo luogo le “scritture” (due del 28.10.1972 e due del 26.10.75) in cui “il Poeta Eugenio Montale concedeva alla Poetessa Annalisa Cima i diritti su alcune proprie poesie manoscritte”. Sono, come e’ ormai noto, le prime lettere – legato pubblicate nell’aprile scorso, con le altre, nell'”Annuario della Fondazione Schlesinger”. La poetessa Cima ha dichiarato qualche giorno fa all’Ansa che prima di scrivere il suo saggio, Isella avrebbe potuto correre alla Mondadori per verificare la scrittura di Montale sulle tredici delle ventiquattro lettere – legato depositate in casa editrice nell’87 e “ampiamente verificate e approvate dall’ufficio legale che stese il mio contratto”. Abbiamo chiesto a Ferrari di mostrarci questi documenti, ma non ve n’è traccia. Tutto quel che Ferrari riesce a trovare nell’archivio sono tredici fotocopie, tratte dall’“Annuario”, che riproducono altrettante lettere – legato (dal ’72 al ’78). Nient’altro.
Ora, la conoscenza parziale delle lettere contrasta con quanto affermato nel volume (p. 99), nel quale si legge che un non meglio specificato giorno Montale alluse “alle lettere-testamento con le quali m’istituiva erede”, ma soprattutto con quanto dichiarato dalla Cima in una delle prime interviste rilasciate nel 1986 (“Corriere della sera”, 10 ottobre, p. 3), nella quale venne dichiarato che “Montale non cambiò mai idea, anzi perfezionò il suo piano scrivendo altre lettere di legato che mi consegnava” (corsivo nostro).
Da una serie di acide Repliche pubblicate nel 1999[6], si ricava più esattamente che la Cima poteva essere a conoscenza di una parte delle lettere e non di tutte; tuttavia, è evidente che, a seconda delle circostanze, la conoscenza o meno dei legati montaliani è stata affermata o smentita senza chiarezza. In ogni caso, ogni assunto relativo all’attribuzione dei diritti alla Cima contrasta con le azioni concrete poi svolte da Montale: prima l’edizione completa delle poesie pubblicata, con contratto ventennale di cessione dei diritti, per Mondadori nel 1977; poi l’affidamento della cura dell’Opera in versi a Gianfranco Contini nel 1978, seguito dalla lunga fase di preparazione con il critico e con Rosanna Bettarini, sino all’uscita alla fine del 1980 (ma il 10 di ottobre di quell’anno, inspiegabilmente, la curatela futura sarebbe stata affidata alla Cima)[7].
In ogni caso, non è stato mai chiarito sino in fondo un punto fondamentale, ossia la modalità di confezionamento delle famose buste contenenti i presunti ‘autografi’. Nel libro della Cima, essa viene descritta come macchinosa e addirittura modificata nel tempo:
Montale aveva percorso una strada precisa ma tortuosa, degna d’un nipote di notaio. All’inizio aveva deciso di porre le poesie in una cassetta a tre firme (congiunte a due): di Montale, del notaio, e la mia.
Lo stesso Montale poi le sigillò in buste che consegnò al notaio nel 1979. A parte consegnò le lettere-legato e due schede nelle quali il poeta precisava di aprire le buste a [sic] quattro o cinque anni dopo la sua morte (p. 97).
Dunque, il poeta avrebbe organizzato nei dettagli la pubblicazione, e per questo doveva avere tra le mani tutti i singoli testi che nel corso del tempo, e a partire dal 1969, aveva affidato alla Cima (cfr. pp. 33-34, e già la Premessa al Diario postumo, pp. ix-x, dove pure si rievoca succintamente il “macchinoso disegno”). Fra l’altro, esiste una dichiarazione di Maria Corti contenuta in un’intervista uscita su “Repubblica” il 4 settembre 1997 (tuttora rintracciabile in rete:http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/ 1997/09/04/montale-dopo-il-parapiglia. html): nell’autunno del 1973 la Corti avrebbe visto consegnare un “notevole gruppo di fogli manoscritti”, che dovevano costituire una buona parte del futuro Diario: ma questo evento, in apparenza così importante (ma ora esaminato e ridimensionato da Condello), non viene mai menzionato né nel periodo dedicato al 1973 (pp. 55-65) e nemmeno in altre pagine del volume della Cima. Ma allora, quando Montale ha chiesto all’amica di restituirgli tutti i componimenti? Ciò sarebbe dovuto accadere nel 1979, visto che, come si è detto, il ‘piano’ sarebbe stato perfezionato proprio alla fine di quell’anno, peraltro dopo un periodo in cui la Cima si era assentata da Milano per ragioni di salute (cfr. p. 131). Così si legge a p. 137 del volume cimiano:
Rividi Montale al ritorno da Nervi. Mi raccontò che il notaio Raffaele [sic] Meneghini era andato da lui e che con l’avvocato Blasco Morvillo avevano perfezionato il suo piano. Gli dissi: “Non pensi alla morte e ai testamenti”, ma compresi che Montale, per scaramanzia, scriveva testamenti nuovi, perché gli prolungassero la vita. Diffidava dei parenti: diceva che erano gretti e solo interessati, provinciali e attaccati al denaro.
Tentando di ricapitolare, si dovrebbe concludere che Montale e la Cima abbiano preparato in un momento non meglio precisato i materiali per le pubblicazioni postume, ma che poi il poeta abbia completato l’intera e complessa macchina (buste delle poesie, lettere-legato ecc.) di sua iniziativa, benché con consulenti di fiducia dell’amica: la quale in teoria non sapeva niente dei contenuti ‘extra’, ma senza dubbio intuiva (“Non pensi alla morte e ai testamenti”) che riguardavano anche un (ennesimo) testamento, con buona probabilità a sfavore dei parenti così “gretti”. Del necessario momento di riconsegna di tutti i materiali via via donati all’amica non si ha però traccia fra le tante circostanze citate nel volume. Dagli accenni sopra riportati, gli unici utili, bisognerebbe pensare che la Cima raccogliesse tutti i materiali donati da Montale nella cassetta a firma congiunta: ma dove era conservata questa cassetta? Presso il notaio Meneghini o l’avvocato Morvillo? Nell’intervista rilasciata al “Corriere della sera” il 10 ottobre 1986, già citata, la Cima sostiene che “il materiale [era conservato] in un luogo accessibile a entrambi”, ma non specifica quale. In ogni caso, il poeta avrebbe recuperato questi materiali nel 1979 per predisporre le buste con le poesie e le lettere-legato. Ma dalle Occasioni del “Diario postumo” con certezza si ricava solo che, dal 1977 al tardo autunno del 1979, non ci sarebbe stato nessun contatto significativo fra l’autrice e Montale: quindi, è escluso che la Cima abbia partecipato alla realizzazione e alla suddivisione delle buste, mentre invece sembrava esserne informatissima, in base a quanto si legge nella Nota introduttiva di Rosanna Bettarini all’apparato critico del Diario postumo (p. 189):
Di fatto Montale stesso, secondo quanto testimonia minutamente Annalisa Cima [cors. nostro], ha diviso le poesie di undici anni in undici buste, chiuse nel 1979: dieci buste di sei numerate da I a X di sua mano, più un undicesimo plico più grande e non numerato, contenente ancora una busta di sei (il numero XI), più un pacchetto di diciotto componimenti sciolti per altre tre virtuali buste di sei.
Certo, è parecchio problematico valutare la plausibilità di ogni tipo di ipotesi, viste pure le notevoli difficoltà generate da alcune affermazioni sicuramente erronee: per esempio, ancora a p. 131 del volume si legge che l’ultimo incontro del 1979 fra il poeta e la Cima sarebbe avvenuto quando stava per uscire L’opera in versi curata da Gianfranco Contini e Rosanna Bettarini, che in effetti uscì per Einaudi un 29 novembre: ma era quello del 1980. E purtroppo non sono poche le confusioni in cui incorre la Cima anche altrove: tanto per citarne una un po’ inquietante, nel suo sito ufficiale si legge che nel 1977 avrebbe incontrato Pier Paolo Pasolini (cfr. http://annalisacima.com/n biografia.htm).
Di sicuro molte affermazioni non trovano riscontri in altre opere poco conosciute e però affidabilissime. Un paio di esempi. Nel volume, la Cima si incarica di screditare Giorgio Zampa e addirittura la fedele governante Gina Tiossi in un colpo solo:
Mi ricordai che certe malelingue avevano inventato il pettegolezzo, tanto infame quanto incredibile per chi lo conosceva, che Montale avesse sposato la sua cameriera Gina. “Un pettegolezzo così infondato e sciocco non poteva essere stato inventato che da Giorgio Zampa” disse Montale quando gli giunse all’orecchio, “da quel malato di sesso e di presunzione: Zampa, Zampone, ladrone, come lo chiamiamo Gianfranco Contini e io”.
Montale, così elitario, infastidito anche solo dal dover dipendere da una cameriera, era certamente la persona più lontana da questo prototipo maschile (p. 36).
Ma, persino senza citare tanti altri documenti ben noti (come la biografia montaliana di Giulio Nascimbeni), chi legge Con Montale a Stoccolma, il minuzioso diario tenuto dal giornalista e consulente mondadoriano Domenico Porzio tra il novembre e il dicembre del 1975, durante il periodo dei preparativi e poi del soggiorno a Stoccolma per la consegna del Premio Nobel[8], sa invece che non solo Gina restava il punto di riferimento per l’esistenza quotidiana del poeta, ma che a lei era riservato un trattamento di confidenza e gratitudine, del resto ampiamente dimostrato nelle poesie delle ultime raccolte nonché dai quaderni autentici rimasti in suo possesso[9]. Ancora dal volume di Porzio, ma ovviamente pure da innumerevoli altre testimonianze ed evidenze, si ricava che Zampa si mantenne sempre in ottimi rapporti con il poeta, tanto da essergli vicino durante il periodo trascorso a Stoccolma, e da curare poi varie edizioni delle sue opere, a cominciare da Sulla poesia nel 1976[10].
Viceversa, la Cima dimostra di essere poco e male informata riguardo a un evento così cruciale come la vittoria del Nobel (cfr. pp. 91-92, dove si afferma che Montale avrebbe desiderato un’impossibile divisione del premio con Ungaretti, poeta caro alla Cima ma notoriamente non troppo all’autore degli Ossi di seppia) e comunque non risulta avere in nessun modo partecipato alla fase dei preparativi. Ciononostante, una poesia del Diario postumo (Telefoni per ricordarmi…) riguarderebbe proprio il Nobel e anzi, a distanza di appena tre giorni dalla notizia dell’assegnazione, precisamente il 26 ottobre 1975, nel turbinio delle interviste e delle attività da svolgere immediatamente, Montale avrebbe pensato di scrivere questa breve ma chiarissima lettera-legato:
Lascio ad Annalisa Cima sia la cura che i diritti delle poesie che le affido e affiderò, da pubblicare dopo la mia morte, ciò varrà per tutte le varie edizioni, ivi compresa l’opera omnia. – Eugenio Montale
La lettera-legato del 26 Novembre 1975 è ancora più esplicita e dettagliata:
Milano 26. XI. 1975
Cara Annalisa, – pubblicherai le poesie che ti dono e donerò, quattro o cinque anni dopo la mia morte, inizialmente sei ogni anno, riunendole poi in un solo libro, al quale apporrai un titolo di tuo gradimento ed una prefazione (nella tua limpida prosa poetica).- Curerai quest’opera anche nelle successive edizioni e i relativi diritti saranno tuoi. Le note filologiche le affiderai a Contini o ad altri in grado d’assolvere questo compito. Ricorda che di queste poesie sei l’ispiratrice e l’interlocutrice: epifania che congloba le precedenti apparizioni e proprio per questo hai doppiamente l’obbligo di non sottrarti in alcun modo all’incarico, pur gravoso, di rispettare le mie volontà. Perdona l’intonazione di comando e non volermene, ma più volte hai tentato di sottrarti all’impegno. – Scritto, in piena facoltà, da Eugenio Montale e affidato, perché sia osservato, ad Annalisa Cima, in ricordo dell’amico[11].
Si noti che, leggendo il volume di Porzio, non si trova nessun accenno a contatti con Annalisa Cima nei giorni di ottobre e di novembre del 1975.
Un altro aspetto più specifico merita di essere considerato. Quando si tratta di giustificare la notevole differenza di tratto rispetto agli autografi sicuri degli anni Sessanta e Settanta, la Cima segnala che Montale scriveva ancora spedito quando si trovava in una condizione psicologica di sicurezza, in particolare con lei e con Vanni Scheiwiller (p. 35). Ora, a parte il fatto che bisognerebbe trovare altri autografi, oltre a quelli del Diario postumo, con le medesime caratteristiche, il che per ora non pare sia accaduto, risulta singolare che l’autrice non segnali che questa stessa affermazione era stata fatta da Maria Corti nell’intervista sopra menzionata: la studiosa ricorda appunto un incontro con il medico di Montale che supponeva che egli non fosse affetto dal morbo di Parkinson, bensì da una forma di tremolio nervoso in presenza di estranei o di persone poco gradite. È esattamente quanto ricorda anche la Cima, solo che la diagnosi sarebbe stata chiesta appositamente a un non meglio precisato “amico medico” (p. 36).
Ciò tuttavia comporta alcune difficoltà: per esempio, bisognerebbe accettare che tutti gli altri autografi di poesie dell’ultima fase siano stati scritti in momenti di particolare tensione, visto che in genere appaiono molto tremolanti. Ma una diversa notizia ci viene trasmessa dalla cronaca di Domenico Porzio sopra citata (cfr. n. 10). A p. 25 si legge che il medico curante di Montale era il professor Enrico Poli, il quale garantiva sulle buone condizioni di salute del poeta ma raccomandava l’assunzione “(tre volte al dì) del bradicardico prescritto per il tremore”. Dunque il ‘tremore’ era un fatto fisico stabile e ben noto alle persone più vicine al poeta, non un fatto estemporaneo e riducibile. Una conferma si ricava dai ricordi di molti amici estivi al Forte, che addirittura scherzavano con il poeta rivolgendosi a lui con un “Conobbi il tremolar della manina”. La formula parodica si legge nel volume Montale a Forte dei Marmi curato da Dominique Papi, che va citato pure per un’altra rilevante testimonianza.
Infatti, alle pagine 65-96 viene pubblicata una parte dei Ricordi di Eusebio scritti nel 1985 da Laura Papi, l’ispiratrice della suite in otto strofe Dopo una fuga, dell’epigramma Non si nasconde fuori e di Primo gennaio, poesie risalenti al 1969-70 e pubblicate in Satura (cui va aggiunta una nona strofa, cassata dalla suite, Piròpo, per concludere, edita in OV, pp. 1034 s.). Fra molte informazioni, a volte parecchio controcorrente rispetto alle varie testimonianze di conoscenti montaliani, troviamo queste notizie di un certo rilievo per la presente indagine:
Doveva aver deciso di aver trovato in me una vera amica, un lumicino che gli era caro e cui lui a suo modo aggiungeva olio perché non s’avesse a spengere. L’olio furono le sue lettere, otto o dieci in tutto, e ognuna conteneva una poesia dove la sua nuova amica era esaltata ora con note struggenti ora con ritratti cattivi nel loro realismo senza appello.
(“So che si può vivere nel fuochetto di paglia dell’emulazione senza che dalla tua fronte dispaia il segno timbrato”).
Lettere che lui volle segrete. “Nascondile bene – mi disse un giorno al telefono – che non abbia a trovarle nessuno… neanche la fantesca nel suo curiosare in casa!”.
Io, docilmente divertita dell’intrigo infantile, le nascosi così bene che poi non mi riuscì per molto tempo ritrovarle. Mi arrivarono quasi a scadenze fisse, come se l’olio alla lanterna finisse dopo periodi uguali e per me, Montale si firmava con ironia “your underdog” (il tuo sottocane)[12].
Come si intuisce, le analogie con quanto poi potrebbe essere accaduto nel caso del Diario postumo non mancano, ma con una sostanziale differenza: Montale si limita ad affidare qualche poesia all’interlocutrice privilegiata del momento, chiedendo una sorta di complicità solo nel mantenere un modesto segreto. Anche nel caso di Laura Papi andrebbe verificata la consistenza dei materiali inviati, ma in ogni caso si tratterebbe di un piccolo lascito, compatibile con un rapporto a suo modo intenso ma certo non molto duraturo, perfettamente testimoniato dalle poesie di Satura sopra citate.
Un ultimo accenno deve riguardare la postfazione scritta da Montale per il primo libro di poesie di Annalisa Cima, Terzo modo, pubblicato nella collana “Il quadrato” (n. 33, in 300 esemplari) delle edizioni scheiwilleriane All’insegna del pesce d’oro nel dicembre 1969, e riedito nel 2006 dal Nuovo Melangolo di Genova, appunto con il testo montaliano (ora leggibile anche nel sito dell’autrice: http://annalisacima.com/n_presentazioni 12.htm). Secondo un aneddoto ripetuto pure in Le occasioni del “Diario postumo” (cfr. pp. 32-33), Montale avrebbe fatto leggere il pezzo alla Cima e a Vanni Scheiwiller il 12 ottobre 1969, sostenendo che era pronto a pubblicarlo sul “Corriere della sera”; la Cima avrebbe declinato l’offerta, conservando però i “due foglietti dattiloscritti”, che sono stati editi nel volume citato. Tuttavia Montale avrebbe visto in un primo tempo soltanto le bozze del libro, e perciò risulta piuttosto strano che pensasse subito a un intervento in favore di un testo non ancora edito. Inoltre il lungo pezzo montaliano non corrisponde affatto a una normale recensione giornalistica, sia per la sovrabbondanza di citazioni, sia per il tono di incondizionato sostegno alla recensita: difficilmente un giornalista esperto come Montale avrebbe potuto scrivere frasi come le seguenti: “Auguro ad Annalisa Cima di continuare la sua fuga, lontano dall’incolore opacità delle scuole contemporanee, di restare ancorata al suo modo-mondo nel quale la poesia non si fabbrica, nasce dentro; è una grazia che si manifesta all’improvviso, in Annalisa s’è manifestata.” Sembrerebbe al limite trattarsi di una generosissima presentazione, forse predisposta per la serata dedicata al libro presso la Libreria Cortina (15 dicembre 1969)[13], oppure per un’eventuale nuova stampa del volumetto, che in effetti esiste ed uscì in 300 esemplari con colophon 20 gennaio 1970 (senza il pezzo montaliano): a quell’epoca Scheiwiller poteva avere in cantiere anche il successivo libro della Cima, Genesi (1971), al quale Montale accenna come “in preparazione”. Anche in questo caso la visione del dattiloscritto originale, che dovrebbe essere stato conservato, sarebbe discriminante per sciogliere i dubbi (per esempio riguardo a quelli che sembrano riadattamenti poco felici di passi ricavati da testi montaliani già editi: autocitazione frettolosa o riuso poco accorto?); per intanto, essi sono addirittura amplificati dalla Cronistoria di una postfazione scritta dalla stessa Cima per la riedizione del 2006 (pp. 39-41). Si viene di lì a sapere che il poeta, l’editore e la giovane autrice avrebbero concordato di tirare tre copie (una per ciascuno) della prima edizione di Terzo modo con la postfazione montaliana acclusa: tutte e tre sarebbero ora almeno in teoria disponibili alla Biblioteca del fondo autografi della Fondazione Schlesinger a Lugano (cfr. p. 41; perché sia arrivata lì quella di Montale, che avrebbe dovuto conservarla gelosamente fra i suoi volumi più preziosi, non viene però spiegato). Di certo, il ridottissimo formato della collana, stabilmente di 32 pagine di mm. 120×120, rendeva assai problematico l’inserimento di questa lunga postfazione: sarebbe perciò indispensabile un’attenta indagine bibliologica (ma si noti che di queste tre copie non si fa cenno nel volume del 2012).
Tutte queste osservazioni vanno ora integrate con quelle documentarie, da me esposte nel contributo Come ha lavorato la Cima, leggibile nel sito laboratoriodiletteratura.it e in corso di stampa. Ma gia il volume di Federico Condello, I filologi e gli angeli ha segnalato in maniera sistematica e inconfutabile tutte le incongruenze tra le dichiarazioni di Annalisa Cima e le evidenze testuali e documentarie. Questo lavoro sarà imprescindibile per ogni futura considerazione sulla genesi e la ‘confezione’ del Diario, nonché per smorzare alcuni dubbi che tuttora circolano tra gli studiosi: per esempio, sarebbe certo istruttivo ascoltare le conversazioni registrate fra il poeta e la sua Musa, da cui potrebbero essere stati ricavati spunti o interi versi leggibili nelle 84 poesie postume, ma ciò non cambierebbe in nulla lo status complessivo della raccolta, che nel suo insieme dovrebbe essere considerata, in mancanza di nuove e sicure testimonianze, un falso.
Lo stesso Condello ha riassunto le ulteriori evoluzioni rinvenibili nelle ultime interviste concesse dalla Cima, rispetto alle versioni fornite nel 2012[14]: ma ancora non sono emersi chiarimenti comprovati o attendibili su nessuna delle questioni più imbarazzanti.
È comunque fondamentale cercare ulteriori riscontri documentari alle affermazioni della Cima, indipendentemente da quelli da lei divulgati, sui quali purtroppo non è al momento mai praticabile un controllo diretto. Ciò potrebbe consentire qualche integrazione rispetto all’ottimo lavoro di Condello[15], eventualmente anche a livello microtestuale. Un esempio. Fra le lettere che Annalisa Cima avrebbe ricevuto da Gianfranco Contini, ce ne sarebbe una del 20 maggio 1976 che si conclude con la seguente frase: “il Nostro amico […] mi dirotta – con fare reticente – verso un’opera che non sia omnia”[16]. Si tratterebbe di Montale (ma non si ha un’assoluta certezza in proposito) il quale avrebbe preannunciato al suo grande critico e amico l’esistenza di poesie ‘nascoste’, che non entrerebbero a far parte della raccolta completa, e ciò sarebbe confermato da un’altra lettera di Contini, questa volta dei primi di ottobre 1986, nella quale il filologo avrebbe ricordato alcune frasi dettegli da Montale durante la fase di elaborazione dell’Opera in versi: “Non chiamarla opera omnia…, vi sono altre poesie,… come titolo proporrei: Opera in versi…, se sei d’accordo”. Ora, il fatto che Montale e Contini abbiano pensato di dare alla raccolta delle sole poesie del primo il titolo di Opera omnia è di per sé molto improbabile: chiunque, acquistando un volume con quel titolo, si sarebbe aspettato di trovare non solo le poesie ma anche tutti gli altri scritti montaliani editi, o almeno la cosiddetta “prosa di fantasia e d’invenzione”. Non a caso, in una lettera del 1° gennaio 1978, Montale ringrazia Contini di aver accettato di curare le sue “poesie ‘complete’”, non l’opera omnia; e del resto, quando invece è Contini a usare questa formula, in una lettera di felicitazioni per il conferimento del premio Nobel (23 ottobre 1975), la impiega evidentemente per intendere tutti gli scritti montaliani, anche i resoconti di viaggio: “Se non sei mai stato alla vecchia Uppsala (ma credo di no, altrimenti ci sarebbe traccia nelle tue opera omnia della pernice bianca…”[17]. Insomma, si noterebbe qui un’ulteriore contraddizione fra l’uso di “opera omnia” in testi autentici di Montale e di Contini, e quello che sarebbe attestato nelle lettere di Contini conservate dalla Cima, e inoltre (senza considerare numerose dichiarazioni della Cima medesima) nella lettera-legato di Montale del 26 ottobre 1975, nella quale si parla di poesie in “tutte le varie edizioni, ivi compresa l’opera omnia”: dove, sia pure con molta approssimazione, si deve per forza intendere “opera omnia” come edizione completa di tutti i testi poetici.
Non sarà inutile notare che, proprio nell’edizione approvata da Montale delle sue poesie ‘complete’, la formula “opera omnia” non compare mai. La Nota dei curatori dell’Opera in versi presenta: “tutta l’opera poetica” (OV, p. 831), “Libro poetico” (ivi, p. 833 e passim), oppure, ovviamente, i generici ‘opera’, ‘volume’, ‘edizione critica’. Non si parla mai di “opera omnia”, nemmeno con limitazione alla solo poesia, anche perché si ammette ripetutamente che parecchi componimenti inediti potrebbero essere ancora in circolazione. A questo proposito giova riportare un passo particolarmente significativo: “Sia ben chiaro, a ogni modo, che non esistono fuori di qui poesie approvate o ammesse dall’autore: certamente ci sono, anche a stampa (più o meno abusiva), e più autografe, e parecchie affidate alla sola memoria degli amici, altre poesie, di solito epigrammatiche: esse non appartengono al Montale poeta pubblico” (ivi, p. 836). Questa dichiarazione, che fra l’altro ci garantisce che esistevano poesie montaliane trasmesse per via orale, può essere letta in due modi: o Contini (la Bettarini essendo ignara dei materiali in possesso della Cima, per loro comune ammissione) ancora non sapeva e nemmeno intuiva niente del Diario postumo, e quindi tutto quanto ci viene ora detto in proposito dalla sua ispiratrice è se non altro inesatto; oppure sapeva, e allora sconfessava quell’opera o la riduceva a materiale non autorizzato. A meno che non si voglia addirittura pensare a un errore volontario, che certo occulterebbe benissimo l’intero progetto del Diario postumo, ma con la conseguenza di rendere mendaci le parole stesse del critico-amico e curatore editoriale. Una conseguenza che molto difficilmente Contini avrebbe potuto accettare.
[1] Cfr. Eugenio Montale, Diario postumo. 66 poesie e altre, Milano, Mondadori, 1996, da cui si citerà. Va ricordato che i testi previsti, con pubblicazione annuale a gruppi di 6 a partire dall’autunno del 1986 (e una tappa intermedia nel 1991, costituita da un volume dello Specchio mondadoriano contenente i primi trenta), doveva portare a un totale di 66: ma alla fine le poesie risultano essere 84, perché l’undicesima e ultima delle buste che le contenevano ne conservava in un pacchetto autonomo ben 18 soprannumerarie. Va ricordato che la responsabile dell’apparato critico del Diario postumo, Rosanna Bettarini, ha in varie occasioni dichiarato di non aver assistito all’apertura delle buste stesse. Gli articoli di Isella che hanno dato il via alla polemica sono riuniti in Dante Isella, Dovuto a Montale, Milano, Archinto, 1997, che propone anche varie riproduzioni di autografi e presunti autografi montaliani; per le risposte di Rosanna Bettarini si vedano i suoi Scritti montaliani, Firenze, Le Lettere, 2009, pp. 292-316, e da ultimo anche Ead., Lettori di Montale, Torino, Aragno, 2013, pp. 17-19. Per un’ottima disamina della situazione testuale sinora nota si veda Paola Italia, Editing Novecento, Roma, Salerno Ed., 2013, pp. 171-196, che fra l’altro mette in evidenza l’incongruità dei 18 testi soprannumerari, a meno di non pensare alla possibilità (poi abbandonata) di un’ulteriore aggiunta di tre gruppi di sei poesie, che avrebbe consentito di pubblicare un volume integrale nel 1999-2000. Altre osservazioni preziose riguardano la casualità delle somiglianze di inchiostri e grafie, le quali non seguono un normale andamento dal più al meno, come sarebbe ovvio sulla base dell’inevitabile peggioramento delle condizioni fisiche del poeta. Della stessa autrice e di Paolo Canettieri si cita sin d’ora Un caso di attribuzionismo novecentesco: il “Diario postumo” di Montale, “Cognitive Philology”, 6, 2013, disponibile on-line (http://ojs.uniroma1.it/index.php/cogphil/article/ view/11586/11448). Fra gli strumenti di lavoro, si veda soprattutto Giuseppe Savoca, Concordanza del “Diario postumo” di Eugenio Montale, Firenze, Olschki, 1997, con i facsimili dei manoscritti. Da notare che Savoca segnala (pp. 119-122) 510 lemmi usati solo nel Diario postumo: si tratterebbe (cfr. pp. xix-xx) addirittura di circa un decimo rispetto al numero totale di parole-occorrenze della raccolta (5472), e di circa un ventesimo rispetto al numero totale di lemmi dell’opera in versi montaliana (10.779). Davvero numeri impressionanti per una silloge di appena 84 brevi testi. Dopo la stesura di queste pagine è uscito il fondamentale volume di Federico Condello, I filologi e gli angeli (Bologna, Bup, 2014), che ha tenuto conto di questo contributo nella sua versione dattiloscritta.
[2] Anche per la bibliografia pregressa, si veda Niccolò Scaffai, “Un apocrifo d’autore”: argomenti per il “Diario postumo” di Montale, in Montale dopo Montale. Persistenze e discontinuità a 50 anni dalla “Bufera”, Atti delle giornate di studio (Genova, 3-4 dicembre 2007), a cura di Ugo Fracassa, Genova, Assessorato alla Cultura della Provincia, 2008, pp. 81-103. Per una sintesi con alcune osservazioni specifiche, si veda Alberto Casadei, Montale, Bologna, il Mulino, 2008, pp. 112-114. Fra i testi montaliani che accennano al progetto specifico di preparare in vita pubblicazioni da far uscire post mortem, è stato citato nei contributi precedenti il racconto In un albergo scozzese, del 1946, particolarmente significativo perché si parla di uno scrittore che, dopo aver rinunciato alla gloria immediata, si chiude in un hotel di Aberdeen a curare le sue pubblicazioni “postume”. A esso vanno aggiunti Un tiro infernale (1952), nel quale un possidente creduto defunto si risveglia a sorpresa per cambiare il proprio testamento; La beffa (1952), un caro estinto impone agli eredi condizioni assurde per il lascito; in La gloria postuma (1963), si legge di poeti “cocciutamente decisi a durare oltre la morte”. Quest’ultimo testo era già stato citato da Rosanna Bettarini nel suo intervento alla presentazione fiorentina degli Atti del Seminario sul “Diario postumo” (Lugano, 24-26 ottobre 1997), in “Antologia Vieusseux”, n.s. V, 13, gen.-apr. 1999, pp. 85-112: 93-94 (ripubblicato in Ead., Scritti montaliani, cit., p. 313). Una laboriosa disamina del Diario postumo era stata approntata, prima ancora della pubblicazione in volume, da Paolo De Caro, Ludere pro eludere. Alcune agnizioni e qualche ipotesi a rischio per il cosiddetto “Diario Postumo” di Eugenio Montale, «Annuario», Fondazione Schlesinger – Lugano, nov. 1994, pp. 91-221.
[3] Il volumetto, per la precisione edito a Milano, All’insegna del pesce d’oro, 1996, contiene una premessa che “introduce due incontri” (p. 11), ossia quelli fra l’autrice e Montale, i quali vengono presentati come trascrizioni di dialoghi reali. Seguono due poesie del Diario postumo (20 gennaio o 30 anni e Ramo che i fortunali…), e le due traduzioni da Emily Dickinson (pp. 41-43), di cui si dirà a testo. Completano il volume una Nota di A.C. (pp. 45-47), con qualche informazione aneddotica, una Nota dell’editore (pp. 49-50), e una Notizia interamente dedicata ad Annalisa Cima (pp. 51-55). Presso il Centro Apice dell’Università di Milano, Archivio Vanni Scheiwiller (d’ora in poi: “Archivio Scheiwiller – Apice”), in corso di riordino, sono conservati materiali relativi a questa pubblicazione, e in particolare le bozze con correzioni rispetto al testo del 1973 (“Montale”, Ua provv. 2827: si noti che, a p. 13, viene appositamente eliminato un riferimento a Gina Tiossi); non sono invece presenti bozze per il volume del 1973 approvate da Montale, come dichiarato dalla curatrice in alcune occasioni. Si conserva poi (“Cima”, Ua provv. 1304) una lettera della Cima all’editore, datata 27 giugno [1972] e scritta su carta intestata “Villa Palma” – Cannes, da cui si ricava che i preparativi per il testo erano già in corso e che si prevedeva un intervento di Sergio Solmi o, più facilmente, di Paolo Milano, peraltro da non informare troppo specificatamente perché poteva dire qualcosa a Montale che rallentasse il tutto; le parti scritte dalla curatrice dovevano poi essere lette e redazionate solo dall’editore. Il libro sarebbe dovuto uscire in occasione del compleanno del poeta (12 ottobre 1972), ma venne poi posticipato, e comunque sembrerebbe trattarsi di un omaggio non concordato. Era in ogni caso un’iniziativa parallela a quella di Incontro Palazzeschi, volume curato dalla Cima per Scheiwiller in occasione degli 87 anni del poeta fiorentino (2 febbraio 1972): di esso sono conservati numerosi abbozzi e anche riproduzioni di autografi (Archivio Scheiwiller – Apice: “Palazzeschi”, Ua provv. 362).
[4] Va aggiunto che il volume dovrebbe proporre “due dialoghi” e introdurre “due incontri” (pp. 9-11), ma, come aveva già notato Dante Isella, la quasi totalità delle risposte di Montale è ricavata da brani ripubblicati in Auto da fé nel 1966. Di questo, però, il volume del 1996, che pure integra molte informazioni rispetto all’originale del 1973, continua a non dare alcuna avvertenza. Per una tavola di concordanze si veda Isella, Dovuto a Montale, cit., pp. 31-32. Si veda anche ivi, p. 44, per una riproduzione (purtroppo piuttosto scadente) della pagina con le traduzioni di Montale e Cima da Emily Dickinson.
[5] Milano, Ares, 2012. Si veda la Notizia relativa pubblicata in “Italianistica”, XLII (2013), 1, pp. 288-290.
[6] Annalisa Cima, Repliche mai pubblicate dal “Corriere della sera”, Milano, All’insegna del pesce d’oro, 1999, ora disponibili anche in rete nel sito http://annalisacima.com/prose/prosa_repliche.htm.
[7] Sulla questione legale, su cui si tornerà brevemente, si veda il contributo di Scaffai, art., cit., che sottolinea anche da un punto di vista giuridico la netta contraddizione fra le lettere-legato e le azioni intraprese da Montale sino alla sua morte. Sulle vicende dell’edizione dell’Opera in versi (a cura di Rosanna Bettarini e Gianfranco Contini, Torino, Einaudi, 1980 = OV) si veda Eusebio e Trabucco. Carteggio di Eugenio Montale e Gianfranco Contini, a cura di Dante Isella, Milano, Adelphi, 1997, pp. 269-279, lettere il cui inizio data proprio al giorno di capodanno del 1978. Da segnalare un dettaglio di p. 270, dove spiritosamente Montale afferma che “l’autografo [di alcune poesie solo dattiloscritte] si potrebbe fabbricare”. In un certo senso, potrebbe essere stata una boutade come questa a fornire uno stimolo per il ‘piano’ del Diario postumo (difficilmente però realizzabile da parte di Montale stesso).
[8] Domenico Porzio, Con Montale a Stoccolma. Diario di Svezia, con un prologo a Milano e sedici fotografie dell’autore, Milano, Ferro Edizioni, 1976. Sulle vicende legate al Premio Nobel assegnato a Montale si rinvia al contributo di Alberto Casadei in corso di stampa nella miscellanea dedicata ai Nobel italiani (Bologna, Bup).
[9] Si veda Montale, La casa di Olgiate…, cit., specie pp. 68-70. Significativa una dedica che Montale aveva scritto nel 1973 per la sua governante: “Alla mia cara più che figlia / Gina / il suo più che padre / Eugenio Montale” (è la dedica di una copia del Diario del ’71 e del ’72: cfr. Da Montale a Montale, cit., p. 35, scheda num. 36, ma anche pp. 83 ss. e passim per numerose altre attestazioni costanti di affetto). Ma si veda anche la frase di Montale riportata in Marco Forti, Nuovi saggi montaliani, Milano, Mursia, 1990, pp. 143-160: 155: “La jeune fille ha fatto la terza elementare, ma è più intelligente della maggior parte dei letterati che io conosco” (il contributo Montale: ritratto milanese è del 1981-86 e ricostruisce con molti particolari la vita quotidiana di Montale tra Milano e Forte dei Marmi fra anni Sessanta e Settanta). Molto significativo anche Dominique Papi (a cura di), Montale a Forte dei Marmi, Firenze-Siena, Maschietto & Musolino, 1997, specie pp. 8, 45 ss. (con molteplici riferimenti alla Gina). Quanto infine alle voci sul presunto matrimonio pare che Gina Tiossi, direttamente interpellata, abbia replicato sostenendo che esse erano partite dalle ‘signore bene’ di Milano: cfr. Marco Sonzogni, La speranza di pure rivederti… Clizia, Montale e l’impossibilità di dirsi addio, Milano, Archinto, 2013, p. 51, n. 15.
[10] Cfr. Porzio, op. cit., pp. 29, 33-34, ecc., e Forti, op. cit., specie pp. 83 ss. e 142 ss.
[11] Le lettere-legato sono leggibili in vari contributi, compreso quello citato di Niccolò Scaffai. Si veda anche Annalisa Cima, Montale postumo e l’accademico spregiudicato, in Atti del seminario sul «Diario Postumo» di Eugenio Montale, Lugano, 24-26 ottobre 1997, Milano, All’insegna del pesce d’oro, 1998, pp. 17 ss.
[12] Papi, op. cit., pp. 78 s. Le lettere dovevano contenere le poesie della suite, e forse anche l’epigramma e Primo gennaio, da cui è tratta la citazione fra parentesi (sono i versi 32-34 del componimento): si noti però che Laura Papi li riporta come se si trattasse di una prosa, mentre in altri casi segnala i versi. Sarebbe in ogni caso importante poter visionare le lettere di accompagnamento per capire il tenore degli invii e le forme di ‘complicità’ effettivamente instauratesi.
[13] Ma i materiali disponibili presso l’Archivio Scheiwiller – Apice (“Montale”, Ua provv. 2863), sembrerebbero far pensare che la partecipazione di Montale alla serata sia stata concordata a ridosso della medesima e senza una particolare preparazione: in una prima bozza dell’invito compariva il nome di Alberto Lattuada, pure in buoni rapporti con la Cima. In ogni caso, non sono conservati materiali riguardo all’intervento montaliano, mentre rimangono alcune schedine di appunti dell’editore (quelle numerate da 14 a 17 contengono un ringraziamento al poeta, già sostenitore di Antonia Pozzi e altre autrici).
[14] Si veda soprattutto il testo edito nel sito “Le parole e le cose”: La dodicesima busta, ovvero: il Diario postumo di Montale è sotto accusa, e la sua storia allegramente cambia (https://www.leparoleelecose.it/?p=17068).
[15] Si veda in particolare il contributo di Vinicio Pacca Novità sul “Diario postumo”, in corso di stampa su “Italianistica” (fasc. 1 del 2015), dove fra l’altro vengono convincentemente segnalati elementi che portano a considerare falsificato il supporto materiale di almeno un componimento.
[16] Si veda Cima, Le occasioni…, cit., p. 58. Importanti, anche per quanto si dirà qui a testo, le osservazioni di Condello, I filologi e gli angeli, cit., pp. 277-280, specie 279 per la citazione successiva.
[17] Cfr. Eusebio e Trabucco, cit., pp. 269 e 261. A un riscontro condotto da Veronica Ribechini, che ringrazio, risulta che Montale usa raramente la formula Opera omnia, e di sicuro intende l’intera opera di un autore in un caso come quello di Farfalla di Dinard (in PR, p. 202): “Due o tre anni dopo, sempre a Trieste, visitai la mostra di un certo Giorgio Carmelich, morto da poco, di mal sottile, in un sanatorio tedesco. Il catalogo dava qualche ragguaglio su quell’artista, spentosi a vent’anni, e sulle poche opere da lui lasciate. Avevo dinanzi la sua opera omnia, una trentina fra pastelli, guazzi e disegni, ma soprattutto pastelli”. Analogo il caso di SM1, p. 1679: “[Dall’unica copia rimasta in salvo dei Mémoires di Caterina II] ne derivarono più tardi altre: quella stampata a Londra, incompleta, a cui si è accennato, e l’edizione quasi integrale che l’Accademia delle scienze di Pietroburgo ristampò nell’opera omnia di Caterina”. Riguardo poi al valore ‘monumentalizzante’ che Montale poteva attribuire all’espressione (perciò ancora meno adatta alla sua personale idea di poesia), molto chiaro è il seguente esempio: “Forse l’avvenire sarà per i pocket, per i libri da buttarsi via dopo la lettura: ferma restando la necessità delle monumentali opera omnia in cui sopravvivono i classici” (SM1, p. 2698). E si veda ancora, a titolo di esempio, SM1, pp. 2196, 2296, 2385, 2847 ecc.
[Immagine: Eugenio Montale]
Ho trovato molto interessante l’articolo del direttore della rivista Studi Cattolici e del poeta Matteo Veronesi pubblicato questo mese. È ancor più bello quello di Silvio Riolfo su Nuova Antologia ora capisco perché la poetessa Cima è soggetta a questi attacchi subdoli.