cropped-crime-scene.jpgdi Massimo Rizzante

«Tra gli anni trenta e quaranta del secolo scorso, epoca in cui elaborò e scrisse Finzioni (uscito nel 1944), Borges visse nella sua persona e nella sua opera una delle conversioni letterarie ancor oggi decisive: la nozione di originalità si convertì in quella appunto di “finzione”. Egli, come afferma Alan Pauls nel suo El factor Borges (un saggio non ancora tradotto in Italia), si sentì libero di «trasportare un certo materiale già esistente dal suo contesto e inserirlo in uno nuovo». La frontiera tra finzione e realtà da allora si è fatta sempre più irrisoria e i confini tra originale e copia sempre più labili. La grande fame di realtà, tuttavia, non si è spenta. Anzi. Solo che oggi ci troviamo di fronte a un sentiero che si biforca: da una parte non riusciamo più a immaginare la realtà se non attraverso “finzioni” di prima, seconda, terza mano, dall’altra voltiamo le spalle all’immaginazione, preferendo affrontare la realtà all’arma bianca. Un tempo non molto lontano – ancora in quegli anni trenta e quaranta del secolo scorso –, ad esempio, il romanzo inglobava il saggio. Oggi, sembra avvenire il contrario: è il saggio che ingloba il romanzo. Mi chiedo: ciò dipende dal fatto che la nostra immaginazione non riesce più a concepire un romanzo come luogo ludico? La serietà dei fatti ha vinto sulla non serietà dell’arte? È per questa ragione che gli scrittori oggi preferiscono il saggio narrativo, il reportage, il memoir, l’inchiesta, il racconto documentaristico? Bisognerebbe anche chiedersi se questa riduzione del romanzo a cronaca e a registrazione dell’attualità non sia la conseguenza del nostro disincanto rispetto alla possibilità di dialogare con le forme letterarie del passato. O forse il bisogno dell’arte di nutrirsi di realtà documentaria è da intendersi come una forma di moralità, di testimonianza: un desiderio di dimensione autenticamente tragica contro l’irresponsabilità degli effetti speciali di una cultura altamente disneyizzata. O come una nuova forma di engagement… Siamo davvero sicuri poi che un reportage ci dica di più sulla realtà di quanto possa fare un romanzo?». Così scrivevo qualche anno fa. Non ho cambiato avviso. Anzi.

Quel che è certo è che man mano che avanziamo verso il futuro, sembra che l’unica preoccupazione degli scrittori sia quella dei fatti. Del resto Saul Bellow, già nel 1962, affermava che negli Stati Uniti stava avvenendo qualcosa di nuovo: «lo stimolo intrinseco dei fatti si è intensificato» creando una specie di romanzo giornalistico, «un romanzo specializzato in informazione», ricco di fatti e cose, ma del tutto privo di «immaginazione artistica» che, affermava ancora Bellow, per sua natura è impaziente di scoprire e superare «gli ostacoli costituiti dai fatti se vuole arrivare al nucleo del suo tema»: l’enigma di ogni individuo. Dobbiamo pensare che oggi più di ieri la sfida della letteratura è stata vinta dal giornalismo? Ritornando agli anni trenta del secolo scorso e rileggendo Impiegati, un saggio scritto all’epoca della Repubblica di Weimar, agli albori del nostro mondo, da Siegfried Kracauer, grande fenomenologo del concreto, amico di Adorno e Benjamin, trovo: «Cento rapporti su una fabbrica non si lasciano sommare così da dare come risultato la realtà della fabbrica, ma restano cento vedute della fabbrica. La realtà è invece una costruzione». E aggiungerei: una costruzione letteraria. Ma oggi il codice letterario interessa sempre meno. Oggi, come mai in passato, è il codice penale che si impone con una forza che neppure il protagonista del Processo di Kafka avrebbe mai immaginato. Che cos’è in fondo il Processo se non un romanzo poliziesco dove l’autore del crimine coincide con la vittima, dove la colpa precede il crimine e perciò il criminale alla ricerca della sua colpa bussa in eterno alle porte della legge senza che nessuno gli apra. E nessuno può aprirgli, pena la perdita dell’enigma. Kracauer, lettore attento di Kafka, in un altro suo saggio del 1925, Il romanzo poliziesco, fu tra i primi a leggere il nesso moderno tra una società sempre più razionale e scientifica e la volontà di potenza dell’indagine poliziesca che, mentre cerca a tutti i costi di adeguare i fatti alla ragione, non riesce a penetrare l’esistenza umana, cadendo così nel Kitsch di voler spiegare l’enigma individuale invece di comprenderlo. Che cosa significano le valanghe di noir, gialli, polizieschi che ai giorni nostri riempiono le librerie a tutte le latitudini del pianeta? Abbiamo spalancato definitivamente le porte della legge? Penso di sì. L’abbiamo fatta finita con l’enigma. Siamo tutti incolpevoli, e la letteratura è diventata un gran tribunale dove si giudica quello che succede o è successo: non è più quel luogo in cui si sospende il giudizio sui fatti e si mette in moto quella che Bellow chiamava «immaginazione artistica». Di più, la libido per i fatti criminali criminalizza «l’immaginazione artistica». Ma, a mio avviso, oggi c’è qualcosa di ancora più straordinario. Tale criminalizzazione sta traghettando l’arte del romanzo sul terreno egualitario della legge, sta affrancando il romanzo dalle sue gerarchie e dalla sua storia, sta trasformando il romanzo in diritto. Una volta aperte le porte della legge, gli incolpevoli ballano. Si sentono tutti uguali, tutti con lo stesso diritto di scrivere il proprio romanzo fuori dalla storia del romanzo. Chi potrà mai criticarli?

[Immagine: Crime scene do not cross (gm)].

 

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