di Claudia Crocco
[La poesia del Novecento di solito viene presentata e insegnata come qualcosa di statico e vagamente museale. La poesia italiana del Novecento. Il canone e le interpretazioni (Carocci) di Claudia Crocco, uscito questo mese, cerca di integrare una breve storia della poesia dell’ultimo secolo con l’analisi di riviste, antologie, saggi critici e siti letterari, cioè i luoghi in cui il dibattito critico si è svolto. Lo scopo è quello di evidenziare lo scontro fra diverse interpretazioni, non quello di indicare un canone unico. Il libro dà eguale spazio alla prima e alla seconda parte del secolo, proponendo una nuova mappatura per gli ultimi venticinque anni. Proponiamo un estratto dall’Introduzione.]
1. Quando nel 1978 esce Poeti italiani del Novecento, molte riviste di letteratura (“Alfabeta”, “Belfagor”, “Filologia e critica”…) e alcuni quotidiani nazionali (“la Repubblica”, “l’Unità”) accolgono recensioni e articoli polemici verso l’antologia curata da Pier Vincenzo Mengaldo. Si criticano, in particolare, i criteri della selezione, le scelte metodologiche e l’ordinamento dei testi. Se per alcuni si tratta di una raccolta reazionaria o di impianto «snob- filologico» (Ramat), altri vi leggono una mancata attenzione ai fatti storici[1].
Attraverso le discussioni che seguono la pubblicazione dell’antologia di Mengaldo vengono articolati alcuni dei principali motivi di confronto della critica contemporanea: i confini letterari (e, soprattutto, il punto di inizio) del Novecento; i momenti di cesura all’interno del secolo; il ruolo delle poetiche e dei movimenti letterari; l’impatto delle avanguardie; il rapporto fra testo e storia nella ricostruzione critica. Anche le polemiche sui poeti inclusi ed esclusi, ad esempio quelle con Sanguineti e Luperini a proposito di Gian Pietro Lucini e Dino Campana, in realtà sono tasselli di un dibattito critico più ampio. Assenze e presenze di singoli autori non contano di per sé, ma in quanto contribuiscono a creare una tradizione e a esprimere diverse o opposte visioni della letteratura.
Poeti italiani del Novecento viene spesso indicata come l’ultima antologia poetica ad avere proposto un canone condiviso. Capita di leggere, ad esempio: «dopo […], oltre quelle colonne d’Ercole, come mostrò l’antologia di Cordelli e Berardinelli, non v’era che il mare magnum dell’oggettività. In effetti, le antologie che vennero poi ridussero la lotta per il canone a quella tra le diverse poetiche»[2] . Ma cosa si intende con «mare magnum dell’oggettività», perché Onofri riprende la definizione di Calvino, e in che senso il canone della poesia si interrompe o cambia dopo l’antologia di Mengaldo?
Facciamo un passo indietro. Se guardiamo all’etimologia, κανών indica uno strumento di misurazione. Nel significato originario della parola greca è già implicita un’ambivalenza semantica; da qui derivano due accezioni del termine, entrambe presenti nell’uso contemporaneo. Da un lato, il canone è l’insieme delle norme che fonda una tradizione, determinandone i confini passati e futuri. Quando in un’opera o in un gruppo di opere omogenee vengono identificate caratteristiche con valore fondativo, si sta indicando un canone che potrebbe influenzare la creazione delle opere successive: è quel che Pietro Bembo fa nel 1525, quando presenta il Canzoniere di Petrarca come modello linguistico per la tradizione poetica italiana. Dall’altro, il canone può essere considerato dal punto di vista della ricezione. In questo caso non vengono riconosciuti uno o più archetipi, a partire dai quali si selezionano i testi successivi; i criteri di esclusione e di inclusio- ne dipendono, piuttosto, da una tavola di valori riconosciuti all’inter- no di una comunità. Come spiega Romano Luperini:
Le due accezioni tendono a sovrapporsi, sin quasi all’identificazione: in età neoclassica, per esempio, la fedeltà alle regole classiche del canone fonda an- che una certa tipologia della ricezione e dunque una determinata gerarchia delle opere, e altrettanto fa quella romantica, che pone nuovi autori, Omero, Dante e Shakespeare, al posto di quelli prima canonici, Orazio, Virgilio e Petrarca. Tuttavia la prima considera il canone diacronicamente, nello sviluppo – continuità e rottura – della tradizione fondata sulla successione di opere accomunate dagli stessi tratti letterari; la seconda lo considera sincronica- mente: fissa le scelte di gusto e di valore affermatesi in una certa comunità in un determinato momento storico, quali risultano dai codici o dalle antologie, dai programmi scolastici, dalla politica culturale dei governi, dagli indirizzi dell’editoria ecc. La prima mira a stabilire l’identità delle opere; la seconda l’identità culturale della comunità che in esse si riconosce. L’una ha a che fare con lo specifico letterario; l’altra con i conflitti interpretativi e con le questioni di “egemonia” culturale (qui il termine gramsciano è insostituibile).
Un modello di canone come quello implicito nelle Prose della volgar lingua non è immaginabile oggi, in quanto presuppone un sistema culturale molto diverso da quello in cui siamo immersi. Il concetto di “classico” non può che vacillare in una dimensione internazionale del discorso letterario, e ancora di più alla luce dell’impatto che post-strutturalismo e studi postcoloniali hanno avuto sulla teoria della letteratura negli ultimi decenni. […]
La presenza di una tradizione come sinonimo di normatività estetica è scomparsa da qualsiasi orizzonte critico, se non come persi- stente retroguardia, già a partire dal romanticismo.
Per questo motivo spesso prevale la seconda accezione della parola canone, ma calata nel contesto critico plurale al quale si è accennato: non esiste più una tradizione privilegiata, ma esistono molte proposte concorrenti fra loro.
Il dibattito sul canone è stato molto intenso negli Stati Uniti nel corso degli anni Ottanta e Novanta: qui la pressione dei cultural studies, il rapporto fra canone universitario e identità nazionale, il dibattito scatenato da posizioni neoconservatrici come quella di Allen e Harold Bloom[3] hanno alimentato una riflessione ampia e articolata.
Il contesto italiano è, però, molto diverso. Innanzitutto, un modello di canone (come sinonimo di tradizione) monolitico o binario si è imposto nella letteratura italiana più facilmente e più a lungo che altrove per motivi storici: fino a metà secolo, come riepiloga Remo Ceserani, la tradizione ha rappresentato un mezzo per «fare gli italiani», ovvero per rafforzare l’identità nazionale; per questo Ceserani paragona addirittura il canone letterario alla leva militare obbligatoria[4]. I testi e gli autori destinati a creare una storia della letteratura contemporanea vengono discussi attraverso un serrato dibattito critico, e ne derivano contrapposizioni talvolta molto rigide (ad esempio, quella fra tradizione e avanguardia). Spesso ciò conduce a riconoscere con ritardo l’importanza di autori non immediatamente assimilabili a una corrente ritenuta dominante. È quanto accade a Saba, Pavese, Noventa, Rebora, Caproni, per i quali Pasolini parlerà di “antinovecentismo”, non senza forzature; ma anche a Svevo per la storia del romanzo. Una delle motivazioni, che richiederebbe un ulteriore spazio di approfondimento, è senz’altro che la moderna storia della letteratura italiana si basa su fondamenti storicistici e idealisti.
In Italia i concetti di classico, di canone e di tradizione di fatto non vengono messi in discussione fino agli anni Novanta. Quando questo accade, la crisi investe soprattutto la tradizione che nel corso del Novecento è sembrata più solida, cioè quella della poesia. Il luogo in cui appare con più evidenza è lo stesso deputato a essere sede privilegiata del canone novecentesco, cioè l’antologia.
2.
Anfibio genere letterario, l’antologia oscilla naturalmente tra il museo e il manifesto: ora, come attraverso ordinate sale, invita il visitatore che legge a percorrere la galleria delle sue pagine; ora invece, tendenziosa e provocante, propone una linea di ricerca, non soltanto critica, ma direttamente operativa, e in funzione di tale linea organizza il tutto. Per solito, tenendo dell’una e dell’altra categoria, la crestomazia è così destinata ad apparire insieme troppo archeologicamente conservatrice e troppo anarchicamente contestante[5].
Come la definizione di Sanguineti mette in evidenza, l’antologia vive di un’ambiguità di fondo, analoga a quella di cui si è parlato per il canone: da un lato si propone di trasmettere un testo per garantirne la durata, dunque svincolandolo da coordinate storiche; dall’altro si basa su un giudizio di valore, cioè su una scelta critica condizionata dal tempo in cui l’opera viene allestita. L’intenzione di presentare un documento storico il più possibile analitico e obiettivo si scontra con il fatto che ogni ricostruzione darà più visibilità a una tradizione piuttosto che a un’altra. La parzialità ineludibile e il rischio della vicinanza storica tra curatore e testi studiati si complicano soprattutto nel Novecento, quando si afferma il modello dell’antologia d’autore. In questo tipo particolare di crestomazia [6] la struttura saggistica dell’opera è ciò che dà coerenza ai testi inclusi; inoltre l’orientamento critico del curatore è più evidente che in altri casi. Ancora Sanguineti scrive che:
Un’antologia ha senso se è finalizzata ad una tesi e quindi costituisca un racconto e non semplicemente una crestomazia, ovvero una scelta del meglio (anche se il significato di antologia è lo stesso). Naturalmente deve avere un valore documentario, ma credo sia come un saggio e costituire una tesi. Anche quello che entra come episodio divergente rispetto a certi esiti da cui si parte, deve giocare almeno dialetticamente dentro una linea che si propone.
Il paradosso dell’antologia d’autore è lo stesso del saggio: non ricava novità dal nulla, ma dà nuovo ordine alle cose già esistenti, per ricorrere a una definizione icastica di Lukács. Quando i testi poetici vengono inseriti in un’antologia entrano a far parte di un nuovo quadro, cioè di una diversa operazione artistica e intellettuale, acquisendo una nuova forma[7]: lo conferma il fatto che uno stesso testo può generare interpretazioni critiche diverse, a seconda dell’antologia nella quale è incluso. È questo il caso delle poesie di Frontiera e Diario d’Algeria di Sereni, per fare un esempio concreto. La loro presenza nell’antologia di Anceschi Linea lombarda, infatti, alimenta una lettura molto diversa rispetto a quella che gli stessi testi creano, quando letti in Poeti italiani del Novecento di Mengaldo. Questo rende comprensibile che Sanguineti definisca l’antologia un genere letterario a sé stante, confermando una prassi diffusa nella critica letteraria italiana. Altri, invece, parlano di metagenere. A metà tra la poesia, il saggio, la storia della letteratura (soprattutto nella sua versione novecentesca), in quale spazio di una ipotetica topografia dei generi letterari può essere collocata l’antologia?
La storia del canone della poesia del Novecento – anche come conseguenza della spinta storicista e idealistica che caratterizza la maggior parte delle ricostruzioni letterarie a partire da De Sanctis – si è intrecciata soprattutto a raccolte di questo tipo.
Aprendo un’antologia poetica della prima parte del secolo, si notano caratteristiche costanti. Il punto di partenza sono Pascoli e D’Annunzio, sia nel caso in cui vengano assimilati al contemporaneo, sia quando posti al di là della selezione, come suo discrimine. La poesia è già «storia del cuore dell’uomo»[8], tanto in versi quanto in prosa. Nei Poeti d’oggi di Papini e Pancrazi (Vallecchi, 1920), per alcuni la prima antologia d’autore del secolo (cfr. ad esempio Asor Rosa 1999), infatti, sono inclusi anche testi nei quali non si va a capo se non quando termina il rigo tipografico.
Questa cartografia troverà coronamento in Lirici nuovi (Hoepli, 1943), raccolta curata da Luciano Anceschi (1911-1995). Il nucleo della crestomazia più importante di Anceschi è la poesia pura, cioè l’ermetismo, della quale fanno parte Montale, Ungaretti e Quasimodo. La centralità della lirica pura ha alcune conseguenze: poeti come Bertolucci e Sereni vengono precocemente affiliati all’ermetismo; altri autori che non possono esservi assimilati, ad esempio Pavese e Saba, sono posti alla periferia delle antologie e della discussione critica di questi anni. Quasimodo risulta uno dei migliori poeti italiani; fino alla fine degli anni Sessanta avrà lo stesso spazio critico e antologico di Ungaretti e di Montale. Quando termina la Seconda guerra mondiale, le sue poesie diventano simbolo dell’unione fra letteratura e impegno civile, questione che intanto alimenta i dibattiti letterari; la sua fama aumenta, nel 1959 riceve il premio Nobel per la letteratura. Dieci anni dopo, in Poesia italiana del Novecento (Einaudi, 1969) di Sanguineti, il suo contributo più significativo è considerato quello delle traduzioni dei classici. Se oggi anche questo ultimo merito vacilla, e Quasimodo è considerato un autore minore, è perché nel frattempo le discussioni critiche, la pubblicazione di nuove raccolte, la circolazione di poesia straniera, i cambiamenti dell’editoria e della cultura da metà anni Cinquanta in poi hanno modificato il canone. La poesia pura non è più al centro della sensibilità contemporanea, e la poesia civile, se ancora esiste, non ha toni così espliciti come quelli di Giorno dopo giorno (Mondadori, 1947).
Le immagini della poesia che le storie letterarie tramandano ancora negli anni Dieci del XXI secolo nascono durante gli anni Settanta del Novecento. Le opere che le hanno presentate e cristallizzate sono due antologie contrapposte: Poesia italiana del Novecento di Edoardo Sanguineti (1969) e Poeti italiani del Novecento di Pier Vincenzo Mengaldo (1978). Sanguineti, come Contini in un’altra importante antologia pubblicata poco prima (Letteratura dell’Italia unita, Sansoni, 1968), considera sullo stesso piano Ungaretti, Montale e Saba, ai quali aggiunge anche Cardarelli, ridimensionando per la prima volta Quasimodo. Ma la sua antologia presenta un elemento nuovo: il canone della poesia è interpretato in modo binario, in quanto a questa prima tradizione è contrapposta una seconda, che ha come esito la Neoavanguardia. Poesia italiana del Novecento ricostruisce una genealogia poetica finalizzata a dimostrare la modernità del Gruppo 63, escludendo o riconducendo a una periferia ciò che non vi è assimilabile. Per questo motivo individua come iniziatore del Novecento Lucini e dà molto peso alle esperienze del movimento futurista, ma ridimensiona Saba e Sereni. La provocazione della forma diventa il parametro più importante della selezione, e si combina con un’altra tendenza critica, «il pregiudizio della modernità» (Fortini), dove questa è intesa come inseguimento nell’innovazione formale.
[…]
Se Sanguineti organizza i testi in funzione di una meta finale, coincidente idealmente con la selezione fornita da un’altra antologia, i Novissimi (a cura di Giuliani, Rusconi e Paolazzi, 1961), Mengaldo riconosce molti centri e non ha alcun approdo. Al contrario, la caratteristica principale di Poeti italiani del Novecento è l’equilibrio tra policentrismo e militanza critica. Mengaldo allestisce l’ultima antologia d’autore del secolo, e vi espone un canone accettato ancora oggi. Le esperienze di Montale, Sereni e Saba hanno un ruolo centrale, ma anche la poesia dialettale ha per la prima volta uno spazio molto ampio, e lo stesso si può dire per alcuni autori della Neoavanguardia (Pagliarani, Porta e Sanguineti stesso), nonché per Luzi, Ungaretti, Caproni, Bertolucci. Questa selezione, tuttavia, si ferma ai poeti nati negli anni Trenta; intanto, intorno al 1978, c’è almeno un’altra generazione già attiva.
3. Negli ultimi quarant’anni l’immagine del Novecento letterario nelle antologie si è progressivamente sgranata, ed è diventato molto difficile ricostruire un canone condiviso, soprattutto per quanto riguarda l’ul- timo quarto del secolo. Per fare un esempio concreto, si possono considerare tre antologie relativamente recenti, pubblicate tutte nel 2005: Dopo la lirica, a cura di Enrico Testa (Einaudi); La poesia italiana dal 1960 ad oggi, a cura di Daniele Piccini (Rizzoli); Parola plurale, a cura di Giancarlo Alfano, Cecilia Bello Minciacchi, Andrea Cortellessa, Massimiliano Manganelli, Raffaella Scarpa, Fabio Zinelli, Paolo Zublena (Sossella).
Innanzitutto, queste tre raccolte non concordano neanche sulla periodizzazione. Dopo la lirica presuppone una frattura all’inizio degli anni Sessanta, con le opere di Sereni, Caproni, Giudici, Bertolucci, Luzi, Porta, Erba, Fortini. Ciò che segue viene considerato postumo rispetto alla lirica, e assume 19una fisionomia precisa a partire dagli anni Ottanta. Anche Poesia italiana dal 1960 ad oggi considera gli anni Sessanta un momento di rottura e di intensa evoluzione della poesia italiana; tutta- via di questa evoluzione non fanno parte, ad esempio, Fortini, Zanzotto, Pasolini. La generazione successiva è molto più rappresentata, e vi compaiono molti autori dei quali si trovano poche tracce nel dibattito degli ultimi decenni (Piersanti, Rondoni, Mussapi). Parola plurale, invece, individua una cesura nel 1975, termine post quem dell’antologia. Assumendo la collegialità come punto di forza, Parola plurale si propone di non rinunciare alla trasmissione di un codice e alla costruzione di discorsi critici che lo sorreggano. Tuttavia la pluralità ha un suo prezzo: sessantaquattro poeti per trent’anni sono molti, probabilmente troppi, e questo rischia di inficiare la ricostruzione; inoltre, per quanto sia dato spazio a esperienze poetiche molto diverse, l’antologia è organizzata soprattutto in funzione della terza sezione. Gli autori riconducibili al Gruppo 93 e a forme di epigonismo avanguardista hanno uno spazio maggiore rispetto ad altri; in quelle pagine la selezione si fa meno rigorosa. Se, da un lato, Parola plurale è una delle antologie più ambiziose degli ultimi vent’anni, dall’altro partecipa a pieno titolo alla lotta fra poetiche.
La varietà di posizioni fra queste tre antologie corrisponde a uno stato di cose in cui la pluralità è inevitabile, ormai costitutiva del cam- po letterario contemporaneo. La situazione in cui ci si trova a metà anni Dieci non è nuova, ma nasce, come accennato, a metà anni Settanta. Le sue caratteristiche sono descritte già in modo molto lucido in un’altra antologia, Il pubblico della poesia (Lerici, 1975), curata da Alfonso Berardinelli e Franco Cordelli. Per riferirsi al nuovo panorama poetico postsessantottesco, Berardinelli parla di Effetti di deriva. La discussione sul canone non può più essere confronto e scelta di tradizioni, perché nella pratica della poesia queste sono diventate molto più fluide, sfilacciate, intersecate fra loro; di rado corrispondono a scelte ideologiche.
Molte antologie degli ultimi anni, infine, sono «cataloghi di tendenza», per usare un’altra espressione di Sanguineti. Alla magmaticità del canone si affianca il topos critico della sua non mappabilità. Se le categorie critiche del passato sembrano inutilizzabili e insufficienti per descrivere il nuovo panorama letterario, nella maggior parte dei casi non vengono proposte nuove coordinate, bensì un’apertura indiscriminata (il catalogo) o la rinuncia all’astrazione storiografica. Queste raccolte – così come alcune storiografie coeve – non tentano di ricostruire e sostenere una tradizione, ma si limitano a esporre argomentazioni, in favore dell’impossibilità di un impegno critico, spesso debolissime. In alcuni casi si tratta di antologie di impianto secolare, che però non aggiornano il canone, limitandosi a ribadire quello della generazione nata negli anni Trenta (è il caso di Segre, Ossola, 2003; cfr. cap. 8). Altre si concentrano su un arco di tempo molto breve, di dieci o quindici anni, ma sono sgranate e poco selettive; spesso raggruppano poeti messi insieme quasi unicamente da interessi “di cordata” [9].
Per fare un solo esempio, si consideri Il pensiero dominante, a cura di Franco Loi e Davide Rondoni. Si tratta di un’antologia pubblicata nel 2001 (Garzanti), che include più di cento poeti per trent’anni. Gli autori sono disposti in ordine alfabetico; per ciascuno sono inserite al massimo due poesie e una brevissima nota biografica. La prima è Antonella Anedda, l’ultimo Edoardo Zuccato: nel mezzo ci sono poesie di Fortini, Bertolucci, De Angelis, Montale, Pasolini, Sereni, nonché di moltissimi poeti dialettali, da Tomino Baldassarri a Franco Scataglini. Le scelte antologiche non vengono esposte né spiegate nell’Introduzione: «Il criterio che ha guidato le nostre scelte è sta- to soltanto quello di cercare di riconoscere tra le migliaia di poesie pubblicate negli ultimi trent’anni quelle che consideriamo belle, di valore» (p. 6). Per questo motivo non viene fatta alcuna distinzione «tra nomi più noti e nomi semisconosciuti, tra libri pubblicati presso editori cosiddetti maggiori o presso sperdute sigle, tra poesia scritta in lingua o in dialetto». Una scelta simile non è di per sé inaccettabile, tuttavia dovrebbe far seguito a un discorso critico argomentato. In Pensiero dominante, invece, c’è un rifiuto totale dell’argomentazione, e infine della stessa operazione di ricostruzione critica, a favore di un’idea della poesia impressionistica e irrazionale, rappresentabile e percepibile solo per via intuitiva. Per lo stesso motivo è assente qualsiasi tentativo di periodizzazione. La scelta del termine post quem e di quello d’approdo dell’antologia è dettata «da motivi editoriali e anche casuali» (p. 8). L’idea di proporre un canone è del tutto abbandonata, poiché non è riconosciuta la possibilità di condividere i criteri valutativi dei testi, benché rimanga l’ambizione a «dare il senso di una presenza individuale e collettiva, di una domanda dilagante di ascolto».
4. Le acquisizioni critiche e filosofiche degli ultimi decenni (dal post- strutturalismo alla teoria della ricezione di Jauss, da Foucault ai cultural studies, da Said agli studi sulla letteratura-mondo), rendono evidente che imporre modelli sarebbe anacronistico: non esiste una sola tradizione, in quanto molte e diverse sono in continuo conflitto fra loro. Tuttavia non rinunciare a individuare e a discutere le premesse oggettive e soggettive del proprio discorso è, forse, ancora possibile per porsi il problema del confronto con la letteratura contemporanea [10]. Una ricostruzione di questo tipo può essere utile per discutere il senso dell’attività storiografica nel presente, ma soprattutto per strappare la poesia sia alla disgregazione e alla identificazione con ciò che non può essere affrontato da un punto di vista critico, sia all’analisi come puro fatto formale proposta da alcune storiografie recenti.
Ogni tentativo di storiografia critica è, allo stesso tempo, un atto di costruzione e di ricostruzione: è importante non soltanto ai fini della memoria, della conservazione del passato, ma anche per la costruzione del presente. Le pagine che seguono sono un tentativo di ricostruire il canone della poesia del Novecento nei suoi momenti di formazione principali, identificandoli a partire dal dibattito critico (antologie, riviste, saggi, storie della letteratura, inchieste di sociologia della letteratura). La speranza è che un’operazione di questo tipo possa contribuire a una riflessione sui mutamenti del genere poetico negli ultimi quarant’anni, e sul senso che si vuole dare alla poesia oggi.
All’interno di una cartografia generale della poesia del Novecento, inoltre, alcune svolte interpretative non sono ancora state valorizzate: innanzitutto su queste sarà concentrata la mia attenzione. La più importante è l’introduzione della categoria di modernismo. A seguire, alcune questioni relative alla periodizzazione rimangono aperte: è più importante il cambiamento degli anni Sessanta, l’ultima «invenzione brevettata»[11] di un secolo di poesia, oppure la svolta nel campo, nella percezione del ruolo e nel rapporto con la tradizione del decennio successivo? E quanto quest’ultima trasformazione si collega a un fenomeno più generale che interessa la letteratura occidentale postmoderna o tardomoderna? Se una tradizione della poesia è ormai consolidata per la prima parte del XX secolo, ciò non è altrettanto vero per il suo ultimo quarto (in una situazione simile si trova la storiografia del romanzo). Quali autori creano genealogie negli ultimi trent’anni? Perché gli inserti di prosa all’interno di libri di poesia sono più diffusi all’inizio e alla fine del secolo?
Conoscere la storia della poesia del Novecento, analizzare le idee e le opere che si sono confrontate, individuare una tradizione senza la pretesa di indicare modelli, può rivelarsi utile per una nuova sistemazione critica della poesia più recente. Ogni stile comporta una scelta; e continuare una tradizione vuol dire metterne tra parentesi o rifiutarne altre reali o possibili.
Note:
[1] Cfr. G. Spagnoletti, Poeti italiani del Novecento, in “Filologia e critica”, III, 1979, pp. 456-9; R. Luperini, I poeti italiani del Novecento: problemi di metodo e di merito, in “Belfagor”, II, 31 marzo 1979, pp. 189-205; E. Sanguineti, Poeti in ordine sparso, in “l’Unità”, 27 dicembre 1978, p. 7; S. Ramat, Terza cronaca di poesia. L’antologia snob-filologica del Mengaldo, in “La nuova rivista europea”, 12, pp. 152-55.
[2] M. Onofri, Il canone letterario, Laterza, Roma-Bari, 2001, p. 63.
[3] Per una storia del dibattito americano sono utili, fra gli altri, alcuni interventi pubblicati nel numero 29-30 di “Allegoria” che include una sezione dedicata al canone: cfr. soprattutto Battistini (1998); Ceserani (1998); Ferroni (1998); Segre (1998).
[4] R. Ceserani, Appunti sul problema dei canoni, in “Allegoria”, 29-30, maggio maggio-dicembre, pp. 59-76.
[5] E. Sanguineti in S. Verdino, Antologia come racconto a tesi. Intervista a Edoardo Sanguineti, in “Nuova corrente”, gennaio-giugno 2004, pp. 95-106.
[6] Per la classificazione delle antologie più recenti cfr. soprattutto S. Verdino, Le antologie di poesia nel Novecento. Primi appunti e materiali, in “Nuova corrente”, gennaio-giugno 2004; N. Scaffai, Altri canzonieri. Sulle antologie di poesia italiana (1903-2005), in “Paragrafo”, I, 2006.
[7] Cfr. anche C. Segre, i, in “Indizi”, 2, pp. 13-15: «Inutile dire che i dissensi possono dipendere, ed è giusto dipendano, da diversità nelle premesse ideologiche. […] L’ordine che lo storico cerca di apportare ai fatti storici è maggiore di quello con cui questi fatti si presentano. L’antologia come tale è, tra l’altro una, sia pur modesta, opera d’arte, e anche come tale dev’esser giudicata».
[8] Sarà definita in questo modo da Anceschi in Lirici nuovi: antologia di poesia contemporanea, Hoepli, Milano, 1943.
[9] Si servono di una definizione di questo tipo per le antologie di poesia, tra gli altri: A. Porta, Poesia degli anni Settanta. Antologia di poesia italiana dal 1968 al 1979, Milano, Feltrinelli, 1979; Lunetta, in Cavallo-Lunetta (1989); N. Lorenzini, Il presente della poesia, Bologna, Il Mulino, 1991; A. Berardinelli, Poesia e genere lirico. Vicende postmoderne, in Genealogie della poesia del Novecento, Giornate di studio, Siena, Certosa di Pontignano 23-25 marzo 2001, a cura di M. A. Grignani, in “Moderna”, III, 2, pp. 81-92; P. Cataldi, La poesia, il canone, il mercato. Riflessioni sulla letteratura classica e sulla letteratura leggera, in B. Bongiovanni et al., Un canone per il terzo millennio. Testi e problemi per lo studio del Novecento tra teoria della letteratura, antropologia e storia, a cura di U. M. Olivieri, Bruno Mondadori, Milano, 2001 pp. 57-63; G. Mazzoni, Per un bilancio, in Genealogie della poesia del Novecento, cit. pp. 225-229.
[10] Fra quelle più recenti, cfr. a questo proposito la riflessione presente nelle pagine conclusive di R. Donnarumma, Ipermodernità. Dove va la letteratura contemporanea, Bologna, Il Mulino, 2014 (cfr. soprattutto Storia del presente e critica militante. Una conclusione, pp. 225-240).
[11] G. Simonetti, Mito delle origini, nevrosi della fine. Sulla poesia italiana di questi anni, in “Le parole e le cose“, 01 giugno 2012.
[Immagine: Anish Kapoor, Sky Mirror (gm)].
Articolo molto interessante: mi domando in queste discussioni sul canone se non sia ormai superato il concetto di canone inteso come insieme di autori ritenuti di valore in un certo periodo e se non convenga invece passare ad altre categorie come quella benjaminiana di “costellazione” come hanno suggerito Trevi, Perrella e Onofri, in cui l’unità fondamentale non è più l’autore ma sono le opere,ciascuna delle quali può essere anche di un autore di cui ha scarso valore la sua opera omnia, sia dal punto di vista letterario, sia per l’obiettivo di comprendere ciascuna sua opera singolarmente, ma tuttavia una certa sua opera può essere raccordata con altre di altri autori in un “disegno” (costellazione, in cui magari opere dello stesso autore non sono raggruppate vicine tra loro) e può essere che una sola opera di un certo autore può essere importantissima e riscattare una carriera rimanente tutto sommato mediocre.
In tal modo può accadere che qualche opera di grande valore immersa in una carriera autoriale per il resto mediocre è degna di essere evidenziata più di quella un altro autore può essersi mantenuto a un buon livello per tutta la sua carriera ma mai a livelli degni di entrare in una antologia contenenti una cinquantina di opere ritenute tra le più rilevanti della poesia italiana del secolo scorso.
Sarebbe interessante sapere se esperimenti simili sono stati compiuti anche con la letteratura italiana dei secoli scorsi, in campo universitario dovrebbe essersi mosso qualcosa da tempo, quel che è di sicuro è che in campo scolastico, le indicazioni nazionali dei licei del 2010 presentano ancora le “quattro triadi” (Dante-Petrarca-Boccaccio, Ariosto-Machiavelli-Tasso, Goldoni-Parini-Alfieri, Foscolo-Leopardi-Manzoni) di desanctisiana memoria, ma questo è un discorso lungo e complesso immagino..
La mia impressione è comunque che un impegno critico argomentato debba essere ancora doveroso in quanto se un uomo della strada vuole conoscere una raccolta contente cinquanta esempi della poesia italiana più rilevanti dell’ultima metà del secolo scorso vorrebbe per definizione leggersi solo cinquanta di questi esempi, in quanto sarà l’accademico, lo specialista o l’appassionato del periodo e della poesia italiana a leggersi decine di volumi contenenti che spaziano su centinaia di opere della poesia italiana di quel periodo, mentre una persona che vuole un assaggio di ciò che più di rilevante di poesia è stato scritto in Italia in quel periodo vuole avere subito il meglio in quanto lui vuole lasciare anche il tempo di leggersi il meglio delle poesie non italiane di quel periodo, dei romanzi e drammi teatrali, dei film e così via. Poi chiaramente tra i critici può esserci discordanza su quanto quei cinquanta esempi di poesia italiana di seconda metà del ‘900 siano davvero i più rilevanti ma si può sempre arrivare a un buon consenso della maggioranza delle opere, fermo restando che naturalmente la soggettività del giudizio critico aumenta man mano che si restringe il numero di opere di cui si vuol comporre l’antologia.
Nel 2005, quando lessi PAROLA PLURALE, preparai degli appunti per il «Laboratorio Moltinpoesia» (2006-2012) che allora stava nascendo a Milano. Non so se come lettore rientravo nella categoria dell’«uomo della strada [che] vuole conoscere una raccolta contenente cinquanta esempi della poesia italiana più rilevanti dell’ultima metà del secolo scorso» di cui parla Michele Dr, ma penso che possa essere di un certo interesse conoscere le reazioni e le riflessioni di un lettore che si considera attento ed esigente su quell’antologia.
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4) I poeti selezionati
Facendo un po’ di sociologia della letteratura, che andrebbe integrata con un’indagine geografica [alla Dionisotti] sui centri culturali operanti in Italia e sui loro legami europei o soprattutto statunitensi (mi pare), si nota che gli antologizzati sono rappresentati da un certo numero di docenti universitari, una corona di dottorandi e collaboratori dell’editoria e un po’ d’insegnanti di scuole medie, con qualche rara eccezione “proletaria” (la Grisoni).
Tra i 64 autori selezionati ho trovato interessanti:
– De Angelis, Franca Grisoni e Cecchinel [malgrado le mie riserve antiorfiche];
– Dal Bianco, per l’uso della prosa come «mezzo principe per l’allontanamento da qualunque poetica d’elezione individuale» che fa in Ritorno a Planaval e per la problematica della sua rivista Scarto minimo (ma non per la soluzione proposta: una nuova «canonicità delle forme metriche come tetto alla insopportabilità del male»);
– Pusterla per la sua sobrietà e la volontà di misurarsi con la storia novecentesca
– Anedda, per la capacità di mettere tra parentesi la propria soggettività e il rifiuto di ogni narcisismo autocelebrativo dell’io oltre che per il tono tragico della sua poesia che mi sembra profondamente vissuto;
– De Signoribus, per l’attenzione agli aspetti antropologici, storici e politici dell’immigrazione (dalle sponde dell’Adriatico in particolare, 520), per l’accettazione della mescolanza delle stirpi e per lo «scavo dentro la lingua maggiore della legge, della comunicazione e dell’ideologia di una lingua straniera» buona per l’inedita comunità che si andrebbe formando e non solo sulla pagina [Vicinanza alla mia idea della necessità di costruire una «poesia (lingua) esodante»]
Provo invece ostilità o molte riserve per:
– Magrelli con la sua freddezza chirurgica, altera e antipatica;
– Valduga con il suo manierismo scostante (una riflessione da fare su quanta perversione e complicazione possa permettersi una certa poesia …);
– Ottonieri: la sua «scrittura cinetica» (349) o il suo «realismo informale» – «una sorta di blob ossessivo e senza fine sui temi della merce e del contatto del nostro corpo con essa» [la Merce che c’è in noi] – mi paiono falsi nella loro pretesa, in continuità con la neoavanguardia, di affrontare l’invadenza della forma-merce (del Capitale) attraverso il rifiuto di scegliere una forma (proprio come fa il Capitale che tutte le consuma)
[né condivido la sua idea che l’azione poetica sia immediatamente politica; anche l’uso di «parole campionate da lingue sconosciute» col metodo del cut up [= spezzare, tagliare, trinciare] comune nella musica d’oggi…e la confusione di linguaggi diversissimi come quello visivo e musicale in quello della letteratura… più che illustrare, come pretende, il risvolto mortuario della società dei consumi, mi sembrano un adattamento melanconico ad esso 349.. ]
– Frasca, col suo «formalismo colto e concettoso» e la sua tendenza a trattare di individui «vincolati alla dimensione mediale dello schermo televisivo»: mi sembra la poesia di un americanizzato cresciuto a brioche e mass media
[ricordare anche il suo intervento al convegno di Pontignano sul secondo Novecento del 2001]…Non so oggi cosa possa poi voler dire un «modello rigorosamente materialistico» nel suo caso. La forma [diventerebbe] lo strumento della memorabilità, cioè la garanzia che il contenuto non venga disperso nel pulviscolo comunicativo odierno (369) Ma perché mai? Non basta la forma…]
– Claudio Damiani (per la sua tendenza all’ arcadia) (437); Dario Villa con la sua vivisezione di suoni e simboli di una lingua cadaverica (444); Remo Pagnanelli col suo autobiografismo e la ricerca di compromesso tra Heidegger e Deridda e le istanze etiche dei francofortesi; Riccardo Held, presentato qui come esempio del “rinascimento della forma” o come incrocio di classicismo e sperimentazione; Rosaria Lo Russo con il suo citazionismo da Campana o dalla Beata Angelica da Foligno… (784) o coi suoi debordanti «romanzi poetanti» (785); Giacomo Trinci col suo neometricismo anni Ottanta; Vito M. [Maria, nome della madre… Mirella..] Bonito per la sua ossessività tematica (la perdita della voce, desiderio della voce; voce cercata in poesia nella «in-fantia della lingua», prima del linguaggio); Edoardo Zuccato [che a me pare un leghista] col suo recupero letterario del dialetto nativo “altomilanese”, le sue epifanie e la costruzione di una mitografia «ancorata al senso di una ribadita appartenenza etnica»; Elisa Biagini [un esempio di legami con l’area statunitense e francese ( Deleuze, Nancy)] con la sua poesia post-human [indistinzione tra organico e inorganico, disorganizzazione del corpo in segmenti autonomi, corpo senza organi di Artaud, corpo non più come organismo ordinato]; Giovanna Frene con la sua «poesia pensante heideggerianamente intesa» (tono aforistico e assertivo) e l’ossessione necroscopica.
5) Osservazioni e critiche a Parola plurale
1. È un esempio di come viene affrontato [indirettamente, con altro nome] il problema che io chiamo della «moltitudine poetante» da parte di un settore della critica universitaria italiana che fa riferimento al magistero di Mengaldo.
2. È un’antologia che impressione non solo per la mole di materiale critico e poetico che offre al lettore [continuando la linea del gigantismo editoriale tipo «Il materiale e l’immaginario» di Ceserani e De Federicis..] ma per la discesa in campo di una ”giovane critica” agguerrita che copre a modo suo (un modo tutto sommato cautamente “postmoderno” [da postmodernismo critico?] che intreccia una tradizione nobile (Mengaldo) con la koinè deleuziana oggi prevalente nell’intellettualità internazionale radical.
3. È un’antologia di poesia *appena più plurale* delle altre antologie. Non è detto che avanzi davvero sul nuovo terreno plurale e confuso che Mengaldo (o anche Berardinelli, per non parlare di altri: Luperini, ecc.) ha rifiutato di affrontare. Le sue scelte sono circoscritte ad un ambito universitario-editoriale [area “mengaldiana” + una serie di sigle editoriali “minori” (Marcos Y Marcos, Zona, Oedipus, Effigie o d’if, ecc.) separate con un certo snobismo dalle restanti, qualificate come «triste truffa» dell’editoria a pagamento (28)]
[È un fitto dialogo interuniversitario con la volontà di distanziarsi soprattutto da Sanguineti]
[c’è un autocompiacimento non so quanto consapevole per l’espressione elegante, per il lessico studiato, per la citazione degli amici e dei contendenti]
[c’è l’attrito tra questo settore della ricerca universitaria e alcune corporazioni editoriali: sono apertamente polemici – meno male! -con Cucchi e Giovanardi e l’impensabile (dal punto di vista critico) Rondoni e Loi].
[C’è una certa complicità generazionale: preoccupante che si conoscano tanto tra di loro e si citino a vicenda! Valgono le mie riserve emerse leggendo «Akusma».. … …]
[Di questa origine “para-accademica” l’antologia conserva i tic e i vezzi anche linguistici (sia nei cappelli che nelle introduzioni tematiche…Es. lessicali-spia: [Baccagliare=schiamazzare (34) La «spietata usoformità del corpo» ..«oraretinismo»… «astrazione gnomicheggiante»(42) Cortellessa]…gergalità da specialisti: «funzione Pagliarani». Una «funzione Rosselli» (35) [Quante funzioni!] [i cappelli critici sono spesso parafrasi iperelaborate e sovraccariche di allusioni dotte delle poesie antologizzate; confrontare cappelli taglienti e puliti, come quelli dedicati ad Anedda, Dal Bianco, Febbraro , Conte, con altri più legati a questi vezzi para-accademici…]
4. L’oscillazione tra selezione e apertura nei confronti della produzione poetica contemporanea, che per me è un problema politico (e non solo estetico) è stata risolta restringendo a 67 i prescelti e “segnalando” telegraficamente i nomi di una parte degli “amici esclusi”(28). Non viene spiegata però com’è avvenuta in concreto la selezione dei poeti.
5. Dà però un censimento ragionato degli autori esaminati, permette di conoscere nomi poco noti, rende conto da vicino delle molteplici e contraddittorie tendenze in corso [dà quindi il quadro di una sezione rilevante della «moltitudine poetante», utilissima anche se parziale].
6. Nel confronto con altre antologie – sempre di parte, sempre più o meno amicali, – ha riferimenti filosofici d’alto livello (prevalentemente francesi e postmoderni: Deleuze, Nancy soprattutto): esplicita le proprie scelte: precisa ad es. di muoversi empiricamente (quindi non si presenta come esauriente o sostitutiva delle mappe mancanti né dichiaratamente come modello); polemizza apertamente, ma solo in alcuni casi con estrema chiarezza (nei confronti dell’antibrechtiano Conte, risparmiando in parte Cucchi, presentato come erede spurio della linea lombarda).
7. Ha abbandonato alcuni riferimenti filosofici delle precedenti generazioni di critici (marxismo, fenomenologia, psicanalisi) sostituendoli con quelli “attuali” (ripeto: d’area francese… i già citati Deleuze e Nancy ma anche Beckett …) senza addentrarsi sulle ragioni profonde e storiche del mutamento culturale.
[Approfondimento necessario. Plurale contro singolare, molteplice al posto dell’uno. Siamo al «divenire molteplice» teorizzato da Deleuze, non a caso la figura filosofica principale di riferimento anche se non esplicita di quest’antologia postmoderna o «multipla» (13)? ‘Plurale’ è aggettivo di moda, ma copre significati diversi… si confonde con ‘pluralismo’, si avvicina al problematico fenomeno del ‘multiculturalismo’ (spesso insidioso perché semplice ideologizzazione dei fenomeni plurali)…è contrapposto alle visioni unitarie o universalistiche (…) in nome delle ‘differenze’ e al posto delle contraddizioni (ricomponibili o non più del pensiero dialettico?) o coniugato con l’universalismo (Marramao parla di «universalismo delle differenze»); nel campo letterario rimanda poi anche alle ricerche bachtiniane…(943)]
8. Ha raccolto i poeti sotto alcune etichette larghe, tutte fortemente letterarie e di moda [non si sa quanto adatte ai nomi che vi vengono poi fatti rientrare].
[mancano categorie più apertamente riferibili a storia, politica e sociologia…] Si afferma che «il fatto che venga meno la specificità del linguaggio poetico non significa che debba venir meno la forza etica e ontologica della poesia» (24) [ Di forza politica si tace… come se fosse irrilevante per la poesia il suo rapporto con il «politico»] [Si parla di «rischiosa (ed eticissima) accettazione della pluralità» (24) [ma pluralità non è ancora o non è automaticamente nuova visione politica o ricostruzione di una politica…]
9. Corpo. Ho molte riserve su quanto viene definito linguaggio ‘corporale’ e sull’ipotesi che esso veicoli – come si afferma – disagio sociale o possa spezzare l’egemonia del linguaggio astratto, tecnologico, seriale.
[Riserve analoghe su quanto il teatro della corporeità (Artaud), a cui si rifà Gentiluomo con la sua… «insistenza sul repertorio fagico» o la sua… «prospettiva ‘ventrale’(37).. abbia efficacia non solo estetica ma politica…o sul fatto che «la palestra dei sensi [alluda] microcosmicamente, cioè allegoricamente, ad agoni più vasti». Queste allusioni andrebbero valutate parlando degli «agoni più vasti», cosa che nei pezzi critici manca]
La «risessualizzazione del repertorio medievale» di Berisso per me resta gioco endoletterario…
Il «mix di oscenità scatologico-sessuale e liturgia religiosa» non scandalizza e non incide per nulla sull’avanzata del sacro… (siamo ad un eccitante e tollerato libertinaggio per élite…) . L‘«ostensione della maschera, dell’artificio, del trucco» (39) è compiuta davanti ad un pubblico smagato e già ipernutrito di pornografia. La loro oltranza è circoscritta.
Il narcisismo di Magrelli [il suo sguardo rivolto all’interno del corpo] o quello di Valduga, che «da sempre persegue l’utopia di una pura esteriorità», sono iperletterari e restano narcisismi.
Queste riserve valgono anche per il compiacimento basso-corporeo di Trinci…o la voce ventrale di Flavio Santi o la «scrittura-pelle» della Biagini. …
L’ambiguità politica di Frasca. Studioso e traduttore di Beckett (46).. da lui trarrebbe il «desengaño che riduce il mondo al suo “arido vero”, alla cruda letteralità del «com’è…carcasse e carne» [ecco l’autocompiacimento letterario]… Frasca – si dice – non sarebbe indotto ad accentuare la dimensione ‘civile’«dall’orrendo mutare ‘al peggio’ [nessuna specificazione in merito!] delle condizioni esterne. Ma perché? Cos’è questo orrendo mutare al peggio? cos’è la dimensione civile, se di essa si scrive ironicamente: «(con tutte le virgolette che al termine impone la sua sputtanatissima tradizione»[!]?
E quel suo riferimento serioso all’idea schopenaueriana del legame sessuale come «inganno maligno, perché induce alla riproduzione della specie e così alla cattiva infinità dell’universale macinio, nel tritacarne dell’esistenza» (48-49)? Questa la visione politica?
10. Quotidiano. Zublena nel saggio Il domestico che atterrisce scrive:
«L’interrogazione fenomenologica di Dal Bianco, la pratica dell’ethos di Pusterla, la levinassiana dialettica chiamata-risposta di Testa, lo spavento di Viviani, lo stupore-bagliore nel finito di De Angelis, il vitale stridore degli affetti nel mare del flusso percettivo schizoide di Frasca, l’ospitale perdita della casa di De Signoribus sono risposta all’immersione rischiosa nell’opacità strutturale del quotidiano. Nell’inesorabile sfuggirci della quotidianità, nello sfuggire del corpo a sé, nel pericolo dell’assoluto spaesamento… la condivisione della souffrance dell’altro con il sé attiva una possibilità etica e politica» (66)
Ma basta la condivisione della «souffrance» dell’altro con il sé ad attivare una possibilità etica e politica (Zublena, 66)? Tutto il problema enorme di una nuova visione della politica resta indeterminato. Ed è poi possibile una costruzione politica nuova nel solo quotidiano?
[Specie quando il quotidiano assume i toni preteschi di Viviani che qui non vengono contestati (come si è fatto – ma era più facile – con Conte…): «La scena dominante è la quotidianità, che però viene registrata con coscienza della benjaminiana impossibilità dell’esperienza da una parte, e nel contempo dell’inevitabile soggezione dell’umano al male» (68)…[!] Viene avallato il suo percorso mistico verso un «aforistico libro sacro», la sua concezione heideggeriana dell’essere (sconosciuto, innominabile) a cui ci si deve affidare senza più affannarsi a costruire progetti, consegnandosi alla perdita, alla «dépense» (69)].. distaccandosi dall’agone umano, guardato ormai da lontano (69)]
11. Tragico. L’insistenza con cui a proposito di De Angelis si parla di «alieniloquio», infanzia come vicinanza pre-logica alla morte, buio logico, o di «verso improvviso, venuto da un cuore su cui non si indaga» a me pare enfatica e ambiguamente apologetica.
Cosa vuol dire o cosa mi dice una frase come questa: «Il verso di Ceni si immerge nella terribilità della natura, assumendo la forma di ““una specie di preghiera priva di perdono»? (299).
Oppure questa: «la parola emerge direttamente dallo spazio della morte» (300)… Al massimo finge di…
Oppure: «La morte [al massimo il pensiero della morte!] quale centro e matrice della parola poetica è ciò che si dispiega nei suoi testi», 300]
A proposito di Anedda si parla di «musica silenziosa del sangue» ,301[!?] o di … un pensiero che sente pulsare alle proprie tempie il peso di una sofferenza ancestrale, 301… A proposito di Mesa di segni quali simulacri della morte, 303… di mondo in negativo, di liquidazione del linguaggio, di sfinimento del dire, di gioco d’agonia, 304..
A proposito di Vito M. Bonito di assenza come sola presenza che questa scrittura riconosce [?], di un suo mondo della scrittura, chiuso come una monade che riecheggia un urlo-vagito interminabile «dando fiato alla morte» [!?].
Noto in tutte queste affermazioni un’enfasi tutta heideggeriana non un lavoro critico…].
12. Stili semplici. Vi rientrerebbero Damiani, Fiori, Lamarque, Dal Bianco, Benedetti, Villalta, il primo Magrelli. Essi mirerebbero non alla verosimiglianza ma alla «comunanza». Ma comunanza con chi, con quanti? [Attenzione alle ambiguità del «comunitarismo»…] Non mi pare ovvio che il superamento dell’autobiografismo del vecchio lirismo si possa avere con un uso ‘allegorico’ del pronome che possa significare ‘tutti noi’ (Dal Bianco), 310…
13. Deformazioni. Comico, grottesco e altre vie di Massimiliano Manganelli. Attraverso la ripresa del pensiero critico di Bachtin…a cui si è rifatta la rivista «Baldus» con il recupero di Folengo («il nostro Rabelais») si sono avute esperienze di contaminazione… antiliriche…puntando sul basso corporeo, il dialogismo, la polifonia. Alle spalle un’ideologia: usare la letteratura quale paradossale strumento di aggressione contro la lingua massificata del mercato mediatico (al posto del monologismo lirico) con un ricorso sfrenato alla citazione (Voce) 606-608
[Sarebbe da rileggere tutta la documentazione sul convegno Lecce…(1982?).. con interventi di Fortini, Briosi, ecc.]
[La letteratura sarebbe stata messa a nudo… (Gentiluomo, Bàino) attraverso la parodizzazione di Leopardi… o la ripresa del Marino da parte di Frixione… ci sarebbe stato un allontanamento dal campo letterario per diventare «mediatamente politici». Dante, Leopardi o Montale sono parodizzati e al contempo omaggiati [610] Ottonieri parodizza l’alto e il basso: la poesia d’amore e la canzonetta popolare…«forma di resistenza linguistica ma anche ovviamente [?] politica» (610)
[andrebbero approfondite e discusse affermazioni come queste: «Di fronte a una realtà già in sé deformata, abnorme, mostruosa, il grottesco sembra costituire oggi, in ultima istanza, l’unica risposta polemica possibile, poiché con una critica della rappresentazione e della visione risponde con una critica della rappresentazione e della visione. Smontare i meccanismi della realtà quotidiana dall’interno – merceografia condotta da Ottonieri e da Nove – significa smascherarla? E lo smascheramento sarebbe di per sé… un gesto autenticamente trasgressivo» (612)… [Ah, quanti smascheramenti sono altre forme di mascherate!]
[I neoavanguardisti e i loro nipotini più o meno autenticati hanno davvero posto le vere «questioni politiche» collegabili a quelle «estetiche»? Si sono, sì, contrapposti ad «affondi narcisistici e proiezioni auratiche… riflusso intimista e neoromantico … orfismo e neoermetismo di «La parola innamorata»(Pontiggia-Di Mauro)» (614), ma ci si è pur dovuti accorgere che fare l’avanguardia nell’universo della comunicazione estetica (Di Marco) non aveva senso o ci si “identificava col nemico” (622)… Ha prevalso la seduttiva cultura postmoderna, appiattita in sé e vocata all’estetico più che al politico… (623).. Cortellessa sollecita a rompere il “bel giocattolo” e a costruirne uno nuovo (625) [ma sempre giocattoli?]… Sanguineti parlava nel 2001 [convegno Pontignano] ancora di «sovversione interminabile» ]
14. Dialetto e postdialetto di Fabio Zinelli. L’aspetto più interessante del saggio sta nello sforzo di vedere la ripresa del dialetto nel quadro della mondializzazione, ma ho molti dubbi sulla tesi sostenuta: che dialetto e post-dialetto siano oggi di per sé esempi di «apertura plurale».
[Dialetto “lingua delle maschere”… Dopo la stagione di Pasolini (799)…negli anni Settanta Ottanta.. il dialetto si è presentato come lingua poetica di un ritorno a casa [Villalta, deriddiano pupillo di Zanzotto: il poeta dialettale è un naufrago abbarbicato a un iceberg in viaggio verso l’equatore.. … montacarichi per far risalire materiali dal basso (801).
Brevini. I dialettali sono in effetti post-dialettali, cioè poeti posteriori al declino del dialetto come mezzo abituale di comunicazione quotidiana … poesia sbrigativamente [? …polemica in proposito di Fortini…] definita ‘per professori’…]
Troppo semplice è l’etichetta ambientalista o ecologica attribuita ad una scrittura che registrerebbe i danni inferti all’ambiente umano ed ecologico dall’industrializzazione selvaggia e dalla mercificazione dei rapporti di scambio.. (802). Elementi considerati segno di ritardo provinciale risorgerebbero a livello comunicativo e formale e sarebbero portatori di progresso (806). Il dialetto verrebbe usato per la costruzione di una creolità, corrispondente ad una identità fluida, multicentrica, migrante, meticciata (876). Ma questo dialetto «glocal» – giustapposizione di romagnolo, italiano e lingue varie [nel caso di Nadiani] – fa passare davvero i significati? Non c’è il rischio di una creolizzazione di superficie…come se si saltasse – per povertà – la possibilità di una vera traduzione e la si surrogasse con un minestrone di suoni dal significato indecidibile…] (807)…
15. Modelli mediali di Gianfranco Alfano. Analizza «i discorsi poetici contemporanei che più intensamente si sono confrontati con il sistema mediale» (813) e in particolare con le modificazioni seguite all’affermazione in Italia della televisione (anni ’50-’60) e ora coi nuovi media (815). Si accenna alle prove di Magrelli (computer e dintorni), D’Elia (Congedo della vecchia Olivetti), Voce (Farfalle da combattimento), Lo Russo (Comedia), Ottonieri (Elegia sanremese), ecc. (816); al problema dell’analogia formale tra linguaggio poetico e linguaggio dei media (817). La caratteristica parodica di tanta parte della poesia contemporanea e collegata appunto al suo rapporto con il sistema dei media, ricorrendo ad una sorta di mimesi ludica (818).
[Valgono qui le riserve espresse nei confronti di Frasca e Ottonieri…]
16. La portata (ambigua) del fenomeno della scrittura poetica di massa (come sintomo della crisi della poesia contemporanea) viene sottovalutata. L’analisi dei 67 autori non mi pare giustificare il giudizio tutto sommato ottimistico a cui arriva l’antologia. C’è troppa fretta nel far tornare i conti e *giustificare* la poesia:
«Quello a cui assistiamo, così almeno ci pare, è davvero un nòstos struggente come quello del mito. A dimostrare una volta di più, come sempre [!] che la poesia serve , eccome, serve a tutti, appunto senza servire nessuno» (29) . Questo assunto zanzottiano risalente al 1974 (28) è tutto da dimostrare, mentre qui viene dato per scontato. Il senso comune dei poeti (o di un autorevole poeta) è presentato come verità e tutte le più inquiete interrogazioni sulla funzione della poesia (penso a Fortini) sono trascurate… I giovani critici la vedono come «riserva di immaginario del nostro paese» e «attenta a confrontarsi con la sua storia passata e in corso» (29)… [Insomma, quanta scrittura che oggi passa per poesia lo è davvero?]
Conclusioni provvisorie
1. No alla poesia valore assoluto.
Parto da una visione non apologetica della poesia contemporanea. Ritengo legittimo chiedersi quanto ci metta davvero in contatto con problemi fondamentali della nostra esistenza come singoli e come popoli. E ho spesso uno sgradevole sentimento quando ne leggo: di perdere del tempo, di divagare, di compensare un vuoto d’”altro” che so in partenza incolmabile per il momento.
Il sentimento sgradevole s’accresce appena mi documento sulla gestione della poesia che viene trattata da gran parte degli “addetti ai lavori” – critici, poeti, redattori di riviste, professori di lettere, dottorandi ma anche dalle varie riviste….
Non sostengo che la poesia sia meno importante delle scienze o della storia o di altri saperi. Ma è certo che quella che si fa oggi solo in minima parte valorizza ciò che può dare un senso alla vita dei singoli e delle società; e spesso nasconde quanto di tragico e irrisolto (e magari di irrisolvibile) in essa persiste con un tragico “costruito”, di maniera, narcisistico e individualistico.
Non è detto insomma che il semplice fatto di continuare a fare poesia (un poiein ultrasecolare) o ad occuparsene (leggerla, riflettere sul suo senso) sia sempre automaticamente e in qualsiasi situazione storica cosa buona, giusta, bella, virtuosa o che procuri e trasmetta un vero piacere o sveli importanti verità.
La mia ipotesi è che una buona parte della poesia contemporanea (ma anche del passato…quale?) dice invece ben poco di fondamentale. E ritengo che la moltitudine che la pratica abbia una coscienza più o meno falsa del senso del proprio operare, del contesto letterario in cui opera, ma soprattutto del contesto sociale-storico in cui vive.[ Cfr. la piccola inchiesta abortita sulla «moltitudine poetante»]
Mi si potrebbe obiettare: ma allora perché ti occupi di poesia?
Semplicemente perché non si può rinunciare a respirare anche se si sa che l’aria è inquinata. E forse perché è ancora viva – magari residuale – la memoria di altri respiri più ampi e liberi e di un’aria più pulita. Consapevolezza di una crisi, dunque.
2. La forma antologia
[Parola plurale ha trovato una mediazione che a me pare nel solco della tradizione (Mengaldo): un’accentuazione del policentrismo… Sembra aver delineato il quadro di di una élite di massa della poesia italiana d’oggi, ma resta insondato (se non demonizzato) quello che di solito si indica con il termine dispregiativo di “sottobosco”; e che a rigore sottobosco non andrebbe considerato fino a quando non sia stato mappato con la stessa attenzione concessa tradizionalmente all’élite o – ora – all’élite di massa].
]
Questo è il dilemma degli antologizzatori odierni. E tutti più o meno si barcamenano spingendosi ora nostalgicamente in direzione di un passato parodiando la selezione di alcuni “Grandi” contemporanei, di quelli che “resteranno nella Storia” come i “classici” ( Piccini) – fornendo una caricatura di Parnaso; ora arrivando a punte quasi ridicole di soggettivismo arbitrario (Loi-Rondoni) o di cronaca che rimanda a chissà quando una indispensabile sintesi anche provvisoria (Annuario Manacorda)
3. Poesia e presente di guerra
Siamo in uno stato di guerra globale e la situazione spinge ancor più a rientrare o ad accucciarsi nel «margine». Più guerra, meno democrazia. E crisi della poesia, bisognerebbe aggiungere. A meno di non pensare la poesia come indifferente o del tutto impermeabile al mondo. Io non riesco a separare le possibilità della poesia dalle possibilità o dai fallimenti della democrazia.
Uscire dal margine per la poesia significa prendere consapevolezza che anche il «margine» ha a che fare col potere, che si sta insomma «al margine del potere», non al di fuori, non al di là; e che il potere è presente nel margine, è presente nel linguaggio della poesia, anche quando si vuole «fuori dal comune», fuori dalla Comunicazione, anche quando si vuole «stile semplice».
La poesia da tempo non è più fatto nazionale. E oggi più che mai. La globalizzazione ha lavorato il paesaggio in cui si muoveva, ha abbattuto quinte e scenari, ha creato «nuovi circuiti di cooperazione e di collaborazione che attraversano le nazioni e i continenti, facilitando un illimitato numero di incontri» (11). Troviamo riviste o case della poesia (ad es. quella di Baronissi) che intrattengono più rapporti con poeti statunitensi che con poeti italiani. Troviamo neodialetti o postdialetti «creolizzati»…
Ennio dic. 05
APPENDICE 1: PEROSNALISSIMA E LACUNOSA INDAGINE SULLA CONDIZIONE SOCIALE DEI POETI SELEZIONATI
Viviani: laureato in giurisprudenza, lavoro nell’editoria poi come psicologo
Conte: Laureato in estetica, insegnante nelle superiori e collaborazioni giornalistiche ed editoriali
Cucchi: consulente editoriale
Coviello: lavora nell’editoria?
Reta: suicida…
Patrizia Cavalli: lavoro editoria e Rai
De Angelis: ?
Frabotta: docente di letteratura alla Sapienza
Sovente: docente Accademia Napoli
Prestigiacomo: ?
Lamarque: parte come insegnante di stenografia e d’italiano per gli stranieri
D’Elia: ?
Magrelli: docente di lett. Francese all’univ. Di Cassino
Valduga: collaborazioni a giornali e settimanali
Ottonieri: ricercatore presso l’università La sapienza di Roma
Frasca: ricercatore università ?
Scarabicchi: ?
Benzoni: ?
Benedetti: ?
Salvia: ?
Dario Villa: editor
Pagnanelli: ?
Held: consulente editoriale e traduttore da tedesco e francese
Pusterla: insegna italiano a Lugano
Fiori: musicista ? insegnante?
De Signoribus: insegnante scuole medie inferiori
Buffoni: Insegna letterature comparate… dove?
Testa: docente universitario a Genova?
Tripodo: ?
Fo: docente lett. Latina a siena
Mesa: ?
Frixione: ricercatore in scienze cognitive
Durante: ?
Voce: collaborazioni giornalistiche?
Baino: ?
Gentiluomo: si occupa di teatro
Berisso: dottorato di ricerca, lavora all’università di Genova
Pierno: lavora come informatica?
Pinto: bibliotecaria alla Sapienza di Roma
Nove: ?
Lo Russo: traduttrice, attice, insegnante
Grisoni: autodidatta, manicure, operatrice culturale
Rentocchini: insegnante di scuole medie
Cecchinel: insegnante scuole medie
De Vita: insegnante scuole medie
Nadiani: traduttore
Villalta: ? nel giro di Zanzotto
Dal Bianco: ricercatore all’università di siena
Anedda: ?
Febbraro: ricercatore alla Sapienza
Trinci:?
Bonito: insegnante di liceo
Zuccato: docente inglese allo Iulm
Gardini: ?
Inglese: dottorato di ricerca
Lombardo: impiegato?
Biagini: insegnante?
Frene: dottoranda di ricerca all’università di Padova
Fusco: dottoranda in italianistica
Santi: studente?
Giovenale: lavora come libraio?
Sannelli: dottorando di ricerca a Genova
Domanda semplice a Claudia Crocco e a tutti quelli che conoscono tutte e cinque le antologie citate (ovvero quelle di Testa, Piccini, “Parola plurale”, Berardinelli-Cordelli e Loi-Rondoni): ci sono (fermo restando il considerare solo opere dello stesso arco di periodo) autori presenti in tutte e cinque le raccolte e se sì quali sono? E tra essi, quali sono quelli rappresentati da più opere antologizzate? E ci sono casi di singole opere presenti in modo ripetuto, se non in tutte, in più di una raccolta? Teoricamente questo potrebbe rivelarsi l’inizio del rivelarsi di un consenso tra i critici nell’individuare un canone di autori ed opere di quel periodo della poesia italiana. Oppure questo eventuale consenso può essere dovuto solo a fattori estrinseci dai giudizi critici degli esperti accademici di poesia? E quali potrebbero essere?
Poi certo, occorre ammettere che, dal punto di vista critico la storia della poesia in un certo paese ha momenti di fioritura e momenti di decadenza, ad esempio la poesia italiana del Seicento con Marino, Tassoni e Testi è di fatto estremamente minore rispetto a quella del Trecento o a quella dell’Ottocento. Non è detto quindi che la seconda metà del Novecento, per il solo fatto che il numero di italiani che sanno leggere e scrivere è aumentato vertiginosamente, abbia portato ad aumentare altrettanto vertiginosamente il numero di poeti ed opere a cui dedicare lo stesso spazio del Canzoniere di Petrarca o dei Canti di Leopardi nelle prossime antologie di poesia italiana.
Michele Dr: mi permetto, visto che conosco le cinque antologie. Quello che lei sta cercando si trova nell’insieme speculare alle cinque antologie, cioè nei non antologizzati e nei motivi per cui non sono stati antologizzati. Sono i “rimossi”, per dirla a la Moresco, la materia oscura sulle spalle della quale si reggono gli emersi mediatici. I rimossi sono l’insieme davvero interessante in poesia, un misto di scacco, livore ed energie spesso diseguali, mal investite o non comprese. Un esempio fulgido è la scrittura di Marina Pizzi, ma ce ne sono altre più o meno valorose e non meno valenti esteticamente di quelle antologizzate. La lamentazione generale sullo stato della poesia italiana deriva da una mistificazione colossale del canone, di cui tutti sono consapevoli ma di cui nessuno si attribuisce la responsabilità. C’è una non-antologia latente, insomma, assai più vicina delle cinque al senso storico della poesia richiamato da Febbraro e da Ruggieri nel post sugli ultimi e completamente assente per costituzione dai riflettori macro e micromediatici.
Ringrazio tutti quelli che sono intervenuti.
@Michele Dr.
Certo, l’idea di canone è cambiata, e la prima accezione alla quale lei allude è superata: ha ragione. In questo libro provo a dare un’idea della poesia del Novecento in cui le genealogie appaiano sfrangiate e più vicine alla costellazione che non alla piramide gerarchica. Non so dire se ci sono riuscita.
Quanto al ruolo delle singole opere, più che degli autori: in parte sono d’accordo, e credo sia importante sottolineare come alcuni libri siano contemporanei o addirittura dialoghino tra loro. Questo è significativo, mi pare, soprattutto a partire dagli anni Settanta (penso a Sereni, Luzi, Zanzotto, Fortini, nati negli anni Dieci, che scrivono contemporaneamente ai più giovani Raboni, Rosselli, Porta, Sanguineti, nati negli anni Trenta, ma anche negli stessi anni di De Angelis e Magrelli, che rappresentano la generazione anni Cinquanta. Cfr. i rispettivi capitoli del libro), e ancora di più negli ultimi decenni. Ne va tenuto conto.
Tuttavia le scansioni annalistiche della poesia italiana non mi hanno mai convinta del tutto: penso soprattutto ad alcune antologie (A. Porta, Poesia degli anni Settanta; A. Bertoni, Trent’anni di Novecento). Non è detto che rinunciare integralmente all’idea di autore a favore di quella di individuo-opera sia sempre la scelta giusta. Non mi sentirei di assumere del tutto né l’uno né l’altro approccio.
@ Michele Dr, Ennio Abate, Giuseppe C.
Sì, ormai è possibile ricavare un gruppo di autori dalle antologie nominate in modo matematico. Ma a che pro? Per una futura selezione, mi pare più sensato tenere considerare sia le antologie, sia gli altri luoghi in cui si è discusso di quegli autori. La sola presenza (per quanto ripetuta) non è sufficiente, a maggior ragione per le antologie recenti.
Il primo motivo per cui lo dico è che spesso una selezione antologica è motivata anche da pressioni commerciali, spinte alla cordata editoriale. Di solito minimizzo questo aspetto, perché è il classico argomento degli apocalittici di fine anni Novanta (cfr. introduzione di Ferroni a Antologia della poesia italiana contemporanea di C. Vitiello); ma ha un suo fondamento reale. Basta leggere Poeti italiani del secondo Novecento di Cucchi e Giovanardi, che in teoria si propone come il seguito dell’antologia di Mengaldo (almeno da un punto di vista editoriale), per farsi un’idea.
Secondo motivo: alcuni autori sono antologizzati da decenni, ma ancora in modo non soddisfacente. Qui mi riferisco soprattutto a De Angelis, che viene spesso trattato come un oracolo bello ma incomprensibile, del quale si può parlare soltanto mimandone lo stile e quasi accentuandone gli aspetti orfici (vedo poche eccezioni, anzi forse solo una). Milo De Angelis è il poeta che più si è affermato negli ultimi quarant’anni; secondo me è anche il poeta più importante degli ultimi quarant’anni. Eppure, non sono affatto sicura che sia stata data un’interpretazione della sua opera soddisfacente, soprattutto in una storiografia letteraria complessiva.
Potrei continuare su questo, ma mi propongo di parlare in modo più esteso delle antologie contemporanee altrove.
@Ennio Abate
Grazie, leggo le sue note su Parola Plurale. A dieci anni di distanza, il discorso iniziato da quella antologia mi pare ancora più importante.