di Umberto Fiori
À une passante
La rue assourdissante autour de moi hurlait.
Longue, mince, en grand deuil, douleur majestueuse,
Une femme passa, d’une main fastueuse
Soulevant, balançant le feston et l’ourlet ;
Agile et noble, avec sa jambe de statue.
Moi, je buvais, crispé comme un extravagant,
Dans son œil, ciel livide où germe l’ouragan,
La douceur qui fascine et le plaisir qui tue.
Un éclair… puis la nuit ! – Fugitive beauté
Dont le regard m’a fait soudainement renaître,
Ne te verrai-je plus que dans l’éternité ?
Ailleurs, bien loin d’ici ! trop tard ! jamais peut-être !
Car j’ignore où tu fuis, tu ne sais où je vais,
O toi que j’eusse aimée, ô toi qui le savais !
A una passante
La strada rintronante sbraitava intorno a me.
Alta, sottile, in lutto, dolore maestoso,
una donna passò, con la mano solenne
sollevando e reggendo l’orlo del suo vestito.
Nobile e svelta, con le sue gambe statuarie.
Io succhiavo, contratto come uno stravagante,
dentro i suoi occhi, cielo che cova un uragano,
la dolcezza che incanta e il piacere che uccide.
Un lampo… e poi la notte! Bellezza fuggitiva,
il cui sguardo mi ha fatto rinascere di colpo,
non ti rivedrò più fino all’eternitá?
Lontano, via di qui! E troppo tardi, o mai!
Dove fuggi, non so; tu non sai dove vado.
Ma avrei potuto amarti e tu, tu lo sapevi!
Nella sua storica lettura di questo celebre sonetto[1], Walter Benjamin fa dell’aneddoto che sta al centro del testo l’emblema stesso dell’esperienza dello choc, centrale –come ci ha insegnato- nell’idea baudelairiana di modernità, oltre che nella personale sensibilità dell’autore e nella sua poetica. Concentrato com’è sul motivo dell’incontro mancato, dell’”amore all’ultimo sguardo”, il filosofo tedesco –al pari di altri critici- sorvola sulla prima parte della poesia, dove la donna fa la sua apparizione: “In velo da vedova (…) una sconosciuta incrocia lo sguardo del poeta” riassume sbrigativamente, per passare poi all’analisi dell’episodio.
Se andiamo a rileggere il testo, però, ci accorgiamo che, prima di arrivare al punto in cui i due sguardi per un istante si incontrano (“Un éclair…puis la nuit!”, v.9) e all’apostrofe finale, Baudelaire ha dedicato ben quattro versi (vv. 2-5) alla presentazione (in terza persona) del suo personaggio. Non una generica “sconosciuta”: una figura altamente individuata, fino al dettaglio. E’ stato proprio il suo aspetto fuori dall’ordinario a farla emergere dalla massa indifferenziata dei passanti, attirando su di lei l’attenzione del poeta. Prima di vivere il lampo dello sguardo d’intesa, l’occhio è stato investito da una serie di impressioni. Baudelaire rappresenta fedelmente le fasi della propria percezione, la progressiva “messa a fuoco” che approda all’apparizione della Passante. Prima di mettersi a guardare, il suo occhio vede, anzi scorge. Che cosa? Solo al v.3 si rende propriamente riconoscibile una figura di donna. Quello che precede è un frammentario, passivo percepire. Come le vele e le alberature spuntano all’orizzonte un attimo prima che la nave appaia intera, così nel testo una serie di determinazioni (“Longue, mince, en grand deuil, douleur majestueuse”, v.2) precedono e annunciano l’insorgere della protagonista. Sono loro a segnalarla, a isolarla preliminarmente dal resto della folla, prima che la puntualità del passato remoto (“une femme passa”) spezzi il flusso dell’imperfetto iniziale (“La rue […] hurlait”). Il v.2 mima perfettamente i movimenti dell’attenzione: Baudelaire è colpito dal nero di un abito a lutto, da una statura, da un portamento solenne, e solo un attimo dopo riconduce le diverse impressioni a un’unica persona, che viene ora descritta più accuratamente.
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La centralità nel testo del tema-chiave (l’incontro mancato tra un uomo e una donna) spinge il lettore a concentrarsi prima sullo sguardo di lei (“ciel livide où germe l’ouragan”), poi sul disperato congedo che chiude il sonetto, mettendo da parte il modo in cui la donna si è data inizialmente a vedere. La Passante –l’abbiamo dimenticato?- è vestita a lutto: è innanzitutto il nero della sua figura a risvegliare l’attenzione di Baudelaire; è questo a fare di lei, nella fiumana variopinta, un’apparizione. Mi piacerebbe che un lettore ingenuo chiedesse: perché Baudelaire ha insistito su questo particolare? Era davvero in gramaglie, la donna che ha visto? La domanda –apparentemente goffa e fuori luogo- sarebbe un bel modo per sondare la logica della poesia, di ogni poesia. Al lettore “sprovveduto” risponderei: forse lo era, forse no; quello che conta è che il poeta ha scelto che lo fosse. Una decisione del genere, in poesia, non può mai essere accidentale. Se il lutto andasse inteso qui come una tenuta fra le tante possibili (abito da sera, da viaggio o –poniamo- da equitazione) il poeta non vi avrebbe fatto cenno. La Passante non è “una sconosciuta in velo da vedova”; il lutto non è l’abito che quel giorno si trova a indossare: come ogni cosa in poesia, è un segno.
Quale sia la natura di questo segno, non è difficile indovinarlo: come per altre apparizioni dei Tableaux parisiens, anche qui abbiamo a che fare con una vivente allegoria. Nel flusso informe dell’ovvio e del quotidiano, una figura ci viene incontro. Il dolore che appare non ha le misure di quello che in ogni essere umano nasce dalla perdita di un congiunto: è maestoso. Per questo la mano della donna è fastosa. Per questo un gesto banalmente pratico, come quello di sollevare l’orlo della gonna, si presenta come un solenne rituale. Per questo la donna è alta. Può darsi (rispondo ancora al nostro lettore ingenuo) che la “vera” Passante fosse di statura media, persino bassa; in poesia, la sua altezza non è una taglia: è una qualità morale.
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Il Lutto di cui la Passante è portatrice è una condizione assoluta, il cui senso si fa chiaro attraverso il contrasto con il chiasso entro il quale si muove. Nel “grand deuil” della donna, nella maestà del suo dolore, Baudelaire riconosce il nero che lo Spirito oppone alla profana spensieratezza della folla urbana, alla sua impersonalità. In mezzo alla rue assourdissante, il poeta ha visto manifestarsi la sua stessa anima.
Ma l’abbigliamento della Passante ha un ulteriore significato. La sua natura di segno travalica quella degli abiti che rivestono gli altri passanti. Con la sua foggia, coi suoi colori, ognuno di quegli abiti inevitabilmente comunica qualcosa della persona che lo indossa; un vestito a lutto fa di più: la sua convenzionale esteriorità rinvia clamorosamente a un’intimità inaccessibile. Non la rivela: la segnala. Mostra a tutti che qualcosa resta nascosto. Quel qualcosa è l’individuo così come la nostra civiltà lo ha concepito almeno a partire da Petrarca: un secretum, un dentro (“la mia vita ch’è celata altrui”) che oppone la propria silenziosa autenticità all’urlante fuori della dimensione pubblica. La Passante è (anche) allegoria del Singolo, della sua separatezza, della sua sovrana impenetrabilità. Nel fiume senza volto della folla urbana, il poeta ha visto sventolare la bandiera nera dell’Individualità.
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Quello che affascina, in questo sonetto come in altre Fleurs, è che tra autentico e inautentico, tra sublime e prosaico, il poeta riesce a evitare ogni contrapposizione troppo netta e schematica. L’ambientazione –una pubblica via gremita di folla- è comica nel senso classico del termine. “La rue assourdissante autour de moi hurlait”: così potrebbe iniziare una satira di Orazio, o di Giovenale. Il genio di Baudelaire consiste proprio nell’estrarre dal comico della vita metropolitana il sublime della lirica; ma questo sublime non è mai del tutto separato dalla farsa triviale che gli fa da sfondo: è un sublime in continuo commercio con le forze che lo avversano, un sublime irreparabilmente contaminato, profanato. Il poeta che cerca gli occhi della donna non si rappresenta nell’atteggiamento ispirato dell’eroe romantico: è “crispé comme un extravagant”, contratto come un folle; a esprimere il suo trasporto è una smorfia; la Passante non è solo “noble”, è “agile et noble”. Il contrasto tra i due aggettivi emerge a una seconda lettura: l’agilità non rientra, di norma, tra le qualità proprie di un portamento nobile, che è semmai caratterizzato da una studiata compostezza, segno di superiore serenità, di dominio della situazione; se la Passante si rivela agile, è perché è costretta a farsi largo tra la folla, evitando gli urti di chi le sta intorno: la sua dignità, insomma, è continuamente minacciata. Solo grazie a una certa destrezza fisica la donna riesce a conservarla.
L’effetto è potenziato, naturalmente, dal fatto che la signora è vestita a lutto: il suo dolente raccoglimento deve venire a patti con l’attenzione indispensabile a muoversi lungo una strada affollata. L’impressione che Baudelaire sottilmente ci trasmette è quella di un funerale a passo di corsa, di un monumento (“sa jambe de statue”) che va di fretta. Ciò che rinnova il tòpos romantico dell’incontro fugace, riscattando anche l’enfasi dell’apostrofe finale, è proprio l’ambivalenza dei due protagonisti che emerge nelle quartine: in loro, il sublime si sposa al ridicolo, senza che nessuno dei due prevalga. La Passante, come il poeta in una celebre prosa dello Spleen de Paris, ha perso l’aureola: il suo lutto, il suo dolore, la sua interiorità, sono costretti a mescolarsi al volgo, a scansarne i colpi. Intorno a questa profanazione Baudelaire, da autentico dandy, evita ogni querula protesta. “La dignità mi annoia”, dichiara in Perte d’auréole. Un altro poeta (“X” o “Z”) si metterebbe in capo l’aureola raccattata per strada, denuncerebbe il tramonto del Sacro, la barbara indifferenza della folla; lui preferisce mostrarci, con un sorriso amaro, come, in mezzo a uno stampede di pachidermi, l’Individuo si arrabatti acrobaticamente a portare in salvo –finché può- le sue gloriose cristallerie.
[1] W.Benjamin, Di alcuni motivi in Baudelaire, in Angelus Novus, Torino, Einaudi, 1976, p.100
Di là da un garrulo schermo di bambini
pareva a un tempo piangere e sorridermi.
Ma che mai voleva col suo sguardo
la bionda e luttuosa passeggera?
C’era tra noi il mio sguardo di rimando
e, appena sensibile, una voce:
amore – cantava – e risorta bellezza…
Così, divagando, la voce asseriva
e si smarriva su quelle
amare e dolci allèe di primavera.
Fu il lento barlume che a volte
vedemmo lambire il confine dei visi
e, nato appena, in povertà sfiorire.
Vittorio Sereni, L’equivoco
Limpida, ma troppo nostalgicamente benjaminiana e consolatoria questa lettura de “La passante”. Se non ci si mette la maschera del “lettore ingenuo” e si riflette alla condizione degli “individui” metropolitani d’oggi, non è difficile vedere quanto poco regga la consolante credenza in una «intimità inaccessibile», in «un un secretum, un dentro (“la mia vita ch’è celata altrui”) che oppone la propria silenziosa autenticità all’urlante fuori della dimensione pubblica», come Fiori sostiene in questo passo:
«la sua convenzionale esteriorità rinvia clamorosamente a un’intimità inaccessibile. Non la rivela: la segnala. Mostra a tutti che qualcosa resta nascosto. Quel qualcosa è l’individuo così come la nostra civiltà lo ha concepito almeno a partire da Petrarca: un secretum, un dentro (“la mia vita ch’è celata altrui”) che oppone la propria silenziosa autenticità all’urlante fuori della dimensione pubblica. La Passante è (anche) allegoria del Singolo, della sua separatezza, della sua sovrana impenetrabilità. Nel fiume senza volto della folla urbana, il poeta ha visto sventolare la bandiera nera dell’Individualità».
Eh no, la Passante, pur agile, non ha evitato « gli urti di chi le sta intorno» ed è purtroppo più «folla» di quanto si creda…
Corrige:
e si riflette sulla condizione degli “individui” metropolitani d’oggi, non è difficile
CON GLI OCCHI DELLA GIOVINEZZA
Saluto appena d’un cenno
una sconosciuta col tuo passo saltellante
ma non è vero, nessuna cammina
come te, tu sbuchi da un angolo
come saltassi fuori da una vasca,
una spalla o un braccio in avanti,
marci tranquilla e non mi scorgi ancora,
oscilli non elegante ma felice,
inarrestabile e vicina ormai tanto
che mi porti, con un saluto, dentro il tuo magico saltello.
(Respiro, Ermanno Krumm, Mondadori)
“ Venerdì 23 giugno 2000 – A una sorpassante – Tu, con la treccia stretta, / il lucido casco, la / schiena perfetta, il / vitino di vespa o / lambretta o come / cazzo si chiamano / ora, tu, che non sapevi / niente, d’accordo, / di me, ma ti avranno / pur detto che a destra / non si sorpassa, / che andavi, d’accordo, / di fretta, ma almeno / la freccia potevi / metterla, tu, superando, / tu sorpassando, tu / scoccando l’acuminato / dardo tu lo sapevi / di fare centro. (Dintorni di piazza Irnerio, ore 11. 06 circa) “.