di Emanuele Zinato
[È uscito, per Quodlibet, Letteratura come storiografia? di Emanuele Zinato. Questa è l’introduzione]
Non come sono andate le cose, ma come sono andate per i muratori: a questo vogliono parare le Domande di un lettore operaio. La scienza non può dargli una risposta: si occupa di potenze, nazioni, popoli, alleanze, gruppi d’interesse, non mai di uomini. Uomini che sono vissuti prima di noi, li incontriamo solo nella letteratura. (H.M. Enzensberger, Letteratura come storiografia, in “Il menabò”, n. 9, luglio 1966, p. 14)
I. Le parole-chiave presenti nel titolo e nel sottotitolo di questo libro, e rese in qualche misura provocatorie dalla forma interrogativa, necessitano di una spiegazione. Letteratura come storiografia è il titolo di un saggio di Enzensberger che uscì nel luglio 1966 sul “Menabò-Gulliver”, la leggendaria rivista europea coordinata da Francesco Leonetti e diretta da Elio Vittorini e da Italo Calvino. Da Vittorini, già ammalato, fu progettato un numero tutto tedesco affidato appunto a Enzensberger: il nono fascicolo, corredato di campioni testuali del Gruppo 47, da Walser a Kluge, da Weiss a Johnson. Il saggio di Enzensberger, che lo introduce, delinea una ricostruzione originale della letteratura tedesca del dopoguerra e un’ipotesi teorica fondata sulla differenza fra storiografia (un testo di Golo Mann) e letteratura (una pagina di Berlin Alexanderplatz di Döblin). Entrambi i testi cercano di fare il punto su quanto è accaduto a Berlino nell’anno 1928, ma lo storiografo guarda ai dati sull’incremento della disoccupazione, lo scrittore presenta invece il punto di vista soggettivo di un passante nella metropoli, con le drogherie, le vetrine e il profumo di trippa. La letteratura, scrive Enzensberger, custodisce «nella penombra delle opere» le «tracce dei dimenticati».
Rispetto alla situazione, già larvatamente postmoderna, del «boom» economico (avvenuto in Germania quasi un decennio prima che da noi), negli anni cruciali della guerra d’Algeria e della costruzione del muro, con il progetto del «Menabò-Gulliver», così come era avvenuto con “Officina”, si cerca, forse per l’ultima volta, di «superare la separatezza del lavoro intellettuale senza rinunciare alla specificità della produzione artistica» [1].
E’ davvero, questa, un’esperienza inattingibile nel nostro presente omologato e “senza trauma”? Forse non è così se, come scriveva Franco Fortini, la sola storia che conti davvero, la sola veramente traumatica, è quella cui dobbiamo la nostra nascita. E noi siamo, nella quasi totalità, figli e nipoti della mutazione: da ciò la necessità di interrogare oggi le scritture del secondo Novecento.
Mutazione è un concetto di origine genetica, variamente utilizzato come metafora per definire la trasformazione antropologica degli italiani durante l’irruzione della cultura dei consumi [2]. Se le migrazioni interne, la motorizzazione, la paleotelevisione, l’espansione dei consumi, la scolarizzazione di massa, hanno avuto luogo già negli anni del boom, tra 1958 e 1963, esse deflagrano come contraddizioni e divengono “inconscio politico” nel quindicennio successivo. E’ la soglia, cruciale e inesplorata, che Giulio Bollati, riferendosi agli scrittori che l’hanno attraversata, ha chiamato “landa sconosciuta della modernizzazione”:
In Volponi la modernità industriale si interiorizza in un misterioso impulso all’unicità di pensiero, senso e materia; Pasolini si cala – come un Baudelaire intenerito – negli inferni urbani e suburbani indotti da quella; Calvino la traduce in ingegnose ed evasive metafore scientifiche. (…). Per questi scrittori la società non è un dato, ma un’ipotesi. Scrittori che hanno continuato in proprio il lavoro che la sinistra (quella comunista in primo luogo) ha lasciato a mezzo col risultato di aprire la strada a una concezione del mondo come “dato”, e non come una continua, responsabile “costruzione” umana; aprendo quindi la strada a un neoliberismo di fatto, molto prima che spuntassero all’orizzonte i teorici del neoliberismo e del neocontrattualismo.[3]
Come la “mutazione” italiana interagisca con la nozione, oggi già desueta, di “postmoderno” è una questione aperta. Il dibattito, ricostruito da Monica Jansen[4], ha messo in luce posizioni assai diverse: a esempio, negli anni Novanta, quelle di Remo Ceserani e di Romano Luperini. Il primo, convinto che la svolta che caratterizza i processi culturali e il sensorio umano della contemporaneità sia epocale, il secondo propenso viceversa a considerare il postmoderno una fase interna al moderno.
Credo che l’epoca del dopo, con i suoi connotati (citazionismo, intreccio ammiccante e irriverente di materiali alti e massmediatici), e i suoi postulati (fine della Storia e delle Grandi Narrazioni), presupponesse un “superamento” della modernità che era invece l’estremizzazione dei suoi presupposti. A ben guardare, la stessa proposta del sociologo polacco-inglese Zygmunt Bauman di descrivere i fenomeni postmoderni con la metafora della Liquid Modernity [5] si fonda infatti su una delle più famose figure marxiane del moderno nella sua epoca classica: “Tutto ciò che è solido svanisce nell’aria”[6]. Dunque, mi sembra convincente, per definire il contemporaneo, il ricorso alla categoria di ipermodernità, elaborata in Francia e ripresa in Italia in un recente libro di Raffaele Donnarumma: la mutazione, di cui siamo figli, si può intendere anche e soprattutto come accelerazione, ipercinetica e compulsiva, dei processi socioeconomici e culturali più tipici del moderno[7].
II. Tutti i saggi riuniti in questo volume riguardano autori, testi, esperienze e problemi dal “miracolo” agli “anni Zero” e riprendono l’idea di letteratura come forma simbolica che, nella modernità, ha avuto la possibilità di accedere a sfere dell’esistenza e dell’esperienza cui la storiografia non ha accesso[8]. Questi requisiti del resto non sono propri solo del romanzo e non sono evaporati con l’accelerazione della modernità: anche il saggio[9], ibrido di tensione oggettiva e invenzione soggettiva, il reportage e la poesia dialogica, plurivoca e narrativa del secondo Novecento[10], si sono assunti un compito analogo. Nell’epica della coscienza, dell’interiorità e della percezione soggettiva, risorse specifiche della letteratura del Novecento, il non contemporaneo può riaffiorare come contemporaneo, come ha scritto Ernst Bloch in Eredità del nostro tempo (1935) per spiegare le zone di arretratezza psicosociale sulle quali l’ideologia nazista faceva leva. E, più in generale, se si può ancora ipotizzare una qualche specificità del testo letterario, questo – con Francesco Orlando- si può intendere come un discorso la cui figuralità permette il ritorno del represso: compresenza di modelli del mondo tra loro contrari, in equilibrio dinamico, drammatico e conflittuale. Le opere letterarie, proprio in quanto costruite di contraddizioni e di significati opposti, sono abitate da più voci e da più punti di vista, sono dunque necessariamente aporetiche e ambigue e, in un’epoca come la nostra di “pensiero unico”, rappresentano una risorsa di plurivocità e di alterità.
Il libro è bipartito: la prima sezione comprende due laboratori culturali del secondo Novecento (le riviste “Officina” e “Il Menabò”) la cui eredità considero ancora vitale e trasmissibile, e alcuni strumenti teorici e metodologici fra cui spicca la critica tematica e, dunque, una prospettiva di lettura antropologica e interdisciplinare in grado di mettere in contrappunto le opere e il mondo. Se tematizzare può essere un modo nuovo per storicizzare[11], individuando non solo le costanti ma anche le varianti e le cesure, le due tematiche maggiormente presenti in questi saggi, il corpo e il lavoro, sono intese appunto in quanto temi e motivi e non come archetipi: piuttosto che rappresentare il luogo della separatezza rispetto alla storia, la corporeità si pone come sottosuolo delle relazioni sociali, punto di transito dei gesti appresi, dei ruoli contraddittori, del ritorcersi dell’io nell’assimilazione della maschera pubblica. Oltre che porre in scena forze libidiche, insomma il corpo nelle rappresentazioni letterarie (specie nelle epoche di più rapida mutazione) ha sempre qualcosa a che fare con la riproduzione materiale dell’esistenza.
La seconda sezione interroga alcuni maestri del secondo Novecento, che continuano a scrivere nel cuore degli anni ottanta (Parise, Fortini, Volponi, Morante, Sciascia, Primo Levi) e quattro scrittori degli anni Zero (Affinati, De Signoribus, Di Ruscio, Sarchi) in qualche modo capaci di raccogliere dai maestri tradizione e eredità. Tutti i testi presi in esame sono a loro modo ambiguamente reattivi nei confronti della mutazione: la indagano nei modi indocili, pluriprospettici e diagnostici con cui le opere letterarie sanno rispondere alle ulcerazioni della storia.
Goffredo Parise, raggiunto a New York nel 1975 dalla notizia dell’assassinio di Pasolini, in alcuni articoli pubblicati sul Corriere della sera avverte il fascino e l’allarme della modernizzazione italiana intesa come un “cataclisma” inevitabile, dopo il quale solo alcuni vivranno, come “ i pesci (…) che con enorme spreco di energie e lasciando dietro di sé un numero incalcolabile di vittime, riuscirono a respirare anche quando i mari si erano ritirati”. Analogamente, la scrittura corporale di Paolo Volponi, sia poetica che narrativa, sembra sottendere una paradossale euforia “monetaria”, sospesa tra invettiva e apologia: e, in una contraddittoria formazione di compromesso fra torti e ragioni, perfino il suo romanzo più allegorico, Le mosche del capitale (1989) sembra “cantare” l’epica grottesca e terribile della mutazione, la forza vittoriosa e travolgente del neoliberismo.
Nonostante l’esplicita dichiarazione autoriale, i versi di Paesaggio con serpente (1984), forse la più rilevante fra le raccolte poetiche di Fortini, ci dicono che se il canto-incanto della letteratura non può “uccidere il serpente”, può forse esorcizzarlo con la sua cerimoniale ritualità. Proprio come accade nella coeva poesia “ilozoica”, epigrammatica e didattica di Primo Levi, affollata di figure animali (Ad ora incerta, 1984), nei versi di Fortini l’idillio è impossibile, l’individuo non è che un luogo biologico attraversato, nella sua labile durata, dalle forze storico-sociali, e il “dente della storia” morde e recide non meno di quello della natura.
Leonardo Sciascia, naturalmente predisposto a raffigurare stoicamente la violenza del Potere, sembra dagli anni Settanta in poi lo scrittore più capace di precorrere le ibridazioni fra saggismo e narrazione che s’imporranno negli anni Zero allestendo lucide allegorie di un preciso contesto. Si pensi agli enigmatici omicidi politici nel museo d’arte de Il Contesto (1971) o alla fasulla pista eversiva dei “ragazzi dell’89” in Il Cavaliere e la morte (1988): negli stessi anni in cui in Italia nel teatrino dei media si faceva largo uso dello spettacolo macabro del terrorismo, il sapere critico diveniva inconcepibile e la democrazia diventava teleplebiscitaria.
Il romanzo incandescente e terminale di Elsa Morante, Aracoeli (1982), racconta un’apocalisse corporea non solo individuale, la perdita dell’ Eden materno di Emanuele, ma collettiva, sostanziata storicamente, fra guerra di Spagna e miracolo economico: si narra in prima persona, in parziale sintonia con le diagnosi di Pasolini, il modo in cui il corpo percepisce e patisce lo scandalo storico del mondo “infetto” di rabbia di annientamento piccolo-borghese.
Con i testi degli anni Zero, il posizionamento dello scrittore nel campo della mutazione italiana si complica: se la scrittura diviene più marcatamente ibrida, la rappresentazione diviene globale a comprendere in via orizzontale le figure dell’esule e del migrante e, verticalmente, l’esplorazione antropologica delle emozioni. In Cristi polverizzati (2009), l’espatriato marchigiano Luigi Di Ruscio, con una furiosa e comica vitalità linguistica e utopica, narra dal suo esilio norvegese una radicale situazione biologica calata in un preciso orizzonte temporale e sociale: il “dispatrio”, il lavoro in fabbrica, la memoria degli anni Cinquanta. Mediante il ricorso alla microstoria e all’apologo, i versi di Eugenio De Signoribus (Poesie 1976-2007) sembrano dirci che ogni ricognizione poetica è vana in termini puramente soggettivi: la voce diviene plurale, ingloba la dialogicità di più enunciatori estranei alla cittadella blindata dell’Occidente, secondo una tipologia discorsiva teatrale e diegetica. Eraldo Affinati (in sintonia con una tendenza delle scritture italiane variamente descritta come nonfiction e “ritorno al reale”) si pone a sua volta ne La città dei ragazzi (2008) con forme narrative contaminate, fra saggismo, autobiografia e diario, alcuni fra i massimi problemi del nostro presente: l’incontro coi migranti, la responsabilità dell’insegnamento, il problema dell’eredità culturale e della paternità. Infine, Alessandra Sarchi (L’amore normale, 2014), alle varianti della mutazione preferisce opporre le costanti biochimiche e psichiche dell’esperienza amorosa, sottraendo l’esplorazione dei sentimenti al tritacarne del “rosa” seriale e immettendola in uno organismo narrativo finzionale, debitore di modelli principalmente visivi e decisamente plurivoco.
III. La domanda del titolo, dunque, vuole alludere alla più ampia questione dei rapporti fra scritture d’invenzione e scritture veridiche. E’ legittimo, a esempio, “leggere un testo che vuole comunicare nell’ordine del ragionamento come se quest’ultimo potesse venire alterato dalle tensioni letterarie interne alla scrittura”? O, viceversa, una poesia alla stregua di un’argomentazione filosofico-politica? No, se ciò equivale a intendere il mondo delle scritture, per intero, come se fosse finzione, letteratura. Questa indistinzione, diffusa nella teoria nordamericana dell’ultimo trentennio, corrisponde a un atteggiamento cinico o scettico del critico letterario, «tagliato fuori dai centri della elaborazione extraletteraria del sapere» e persuaso, a un tempo, che l’«ordine del vero» sia controllato da specializzazioni inattingibili e «che tutto l’arco del sapere non rigorosamente specialistico possa essere trasferito nell’ordine dell’immaginario»[12]. Sì, se con l’ammettere zone ibride di “letterarietà” anche in testi a prevalente statuto argomentativo, si privilegiano il nucleo conflittuale correlato, in ogni tipologia discorsiva, alla densità figurale e la forza – intrinsecamente contraddittoria e soggettiva- dell’immaginazione.
L’antico problema del rapporto fra storia e letteratura[13], è del resto più volte riaffiorato nell’età moderna e contemporanea: si tratta di una relazione complessa, le cui difficoltà sono segnalate dalla stessa ambiguità semantica del termine storia (racconto/ricostruzione veridica o frutto dell’immaginazione?). Oggi, in ogni campo disciplinare (storia, diritto, filosofia, scienze) il discorso sembra articolarsi di preferenza secondo modalità narrative. In questa prospettiva spicca Hayden White che, con il suo concetto di Metastoria (1973), sembra incline a considerare la storiografia come retorica e narrazione. Inoltre, un rafforzamento della visione universalmente “narrativa”, in base alla quale ogni disciplina è modellata come storytelling, è più di recente venuto dai fortunati approcci cognitivisti che tendono a fornire una base fisio-biologica alla teoria della ricezione e a estendere il modello narrativo a ogni forma di conoscenza[14].
Se l’opinione corrente è dunque che la letteratura e la storiografia ( così come i saperi giuridici, medici, economici) abbiano una comune base narrativa, gli scrittori, tuttavia, non sembrano essere sempre di questo stesso parere: José Saramago, a esempio, proprio come Enzensberger, in nome dei diritti della “zona scura”, ha opposto lo storiografo al romanziere sostenendo che la funzione dello scrittore consiste nel “guardare la storia in ogni angolo, raccontarla da tutti i punti di vista” :
Direi che la Storia, così come la scrive o […] così come la fa lo storico, è prima di tutto libro, non più che il primo libro […] Resterà tuttavia sempre una grande zona oscura, ed è lì, a mio parere, che il romanziere ha il suo campo di lavoro[15].
Forse la letteratura può essere considerata come quella forma paradossale di storiografia e di ricostruzione che si prende la libertà di riconfigurare, manipolare, rovesciare, vanificare i dati ufficiali e che custodisce «nella penombra delle opere» sia la voce dei vincitori che le «tracce dei dimenticati»: proprio in quanto discorso pluralistico e irriducibile all’unità. E come “ginnastica della coscienza”, “simulazione di esperienze”, “esercizio delle facoltà svincolato da costrizioni esterne e quindi relativamente libero”[16], ci è ancora necessaria in un’epoca in cui la rapidità liquida e ipercinetica della mutazione abbaglia, colonizza e intorpidisce la coscienza.
Nota
Dei 15 saggi qui raccolti due sono ancora inediti (1, 11), gli altri (qui proposti con lievi modifiche) sono usciti dal 2001 al 2014 in varie sedi: il n. 2 in Il demone dell’anticipazione. Cultura, letteratura, editoria in Elio Vittorini (a c. di E. Esposito, Il Saggiatore, Milano, 2009); il n. 3 in “Moderna” (X, 2008); il n. 4 in “Il Verri” (46, 2011); il n. 5 in Per Romano Luperini (a c. di P. Cataldi, Palumbo, Palermo, 2010); il n. 6 in La città e l’esperienza del moderno (a c. di M. Barenghi, G. Langella, G. Turchetta, ETS, Pisa, 2012); il n. 7 in Letteratura e denaro. Ideologie metafore rappresentazioni (a c. di A. Barbieri e E. Gregori, Esedra, Padova, 2014); il n. 8 in Dieci inverni senza Fortini (a c. di L. Lenzini, Quodibet, Macerata, 2006); il n. 9 in “Istmi”, (9-10, 2001); il n. 10 in Omaggio a Luminitza Beiu-Paladi a c. di I. Tcheoff, Stoccolma, Acta Universitatis Stockholmiensis, 2011; il n. 12 in L. Di Ruscio, Cristi polverizzati (Le Lettere, Firenze, 2009); il n. 13 in I dieci libri dell’anno 2008/2009 (a c. di A. Berardinelli, Libri Scheiwiller, Milano, 2009); il n. 14 in “Nuova corrente” (n. 150, 2012), il n. 15 in “Between” (2014).
[1] G. Gronda, Premessa a Per conoscere Vittorini, Mondadori, Milano, 1979, p. 9.
[2] Cfr. E. Montale, Mutazioni (1949) in Auto da fé, Il Saggiatore, Milano, 1966, pp. 86-89; P. P. Pasolini, Scritti corsari, Garzanti, Milano, 1990; A. Baricco, I barbari. Saggio sulla mutazione, Feltrinelli, Milano, 2006, A. Berardinelli, Casi critici. Dal postmoderno alla mutazione, Quodlibet, Macerata 2007.
[3] G. Bollati, L’Italiano. Il carattere nazionale come storia e come invenzione, Einaudi, Torino, 1983, pp. 195-207.
[4] M. Jansen, Il dibattito sul postmoderno in Italia, Cesati, Firenze, 2002.
[5] Z. Bauman, Modernità liquida, Roma-Bari, Laterza, 2003.
[6] K. Marx, F. Engels, Manifesto del partito comunista, a c. di E. Cantimori Mezzomonti, Laterza, Roma-Bari, 1995, p. 87. La metafora marxiana ha suggerito il titolo del libro di Marshall Berman All That Is Solid Melts into Air: The Experience of Modernity (New York, Simon & Schuster, 1982), tradotto in Italia col titolo di L’esperienza della modernità, Il Mulino, Bologna, 1985 e ripubblicato nel 2012 col titolo Tutto ciò che è solido svanisce nell’aria.
[7] R. Donnarumma, Ipermodernità. Dove va la narrativa contemporanea, Il Mulino, Bologna, 2014, pp. 101-108.
[8] Cfr. G. Mazzoni, Teoria del romanzo, Il Mulino, Bologna, 2011.
[9] A. Berardinelli, La forma del saggio. Definizione e attualità di un genere letterario, Marsilio, Venezia, 2002.
[10] E. Testa, Dopo la lirica. Poeti italiani 1960-2000, Einaudi, Torino, 2005.
[11] Cfr. S. Zatti Sulla critica tematica: appunti, riflessioni, esempi, in «Allegoria», n. 52-53, gennaio-agosto 2006, p. 7 e R. Luperini, Tramonto e resistenza della critica, Quodlibet, Macerata, 2013, pp. 109-118.
[12] F. Fortini, Prosa scientifica come narrativa, in Breve Secondo Novecento, Manni, Lecce, 1996, p. 77.
[13] Cfr. L. De Federicis, Letteratura e storia, Laterza, Bari, 1998.
[14] Cfr. A. Casadei, Poetiche della creatività. Letteratura e scienza della mente, Bruno Mondadori, Milano, 2011.
[15] J. Saramago, História e ficção in “Iornal de letras, artes e idéias”, IX, 1989, p. 20.
[16] M. Barenghi, Cosa possiamo fare con il fuoco? Letteratura e altri ambienti, Quodlibet, Macerata, 2013, p. 18.
[Immagine: Thomas Demand, Embassy (gm)]
“E’ davvero, questa, un’esperienza inattingibile nel nostro presente omologato e “senza trauma”?”
Chiedo: il nostro è un presente omologato? Davvero?
Senza trauma?
Per quanto riguarda la mutazione, è un dato di fatto acclarato? Chiedo perché dal punto di vista genetico non c’è un prima e un dopo, le mutazioni avvengono sempre, e la riproduzione sessuale è di fatto una mutazione, quindi non si capisce in che modo sia una metafora appropriata. Ma anche prendendola per buona, qualcuno può spiegarmi in che modo gli italiani sono cambiati? E poi ha senso dire che siamo figli di quella mutazione? Io sono nato nell’85, per dire. Si può dire che sono un essere umano differente da un essere umano del 1861?
Circa l’accenno a Di Ruscio, cosa è una “radicale situazione biologica”?
Grazie
@DFW vs RB
grazie della lettura e delle domande. Provo a rispondere:
-1)Presente ‘omologato’ e ‘senza trauma’ sono definizioni della contemporaneità estrema che non condivido ma che sono diffusamente in uso. Sono assunte dunque in modo problematico e parzialmente polemico; non credo infatti che il ‘trauma’ sia evaporato nell’inesperienza o nella simulazione mediatica. Ci abita, in modo continuo e molecolare.
– 2) gli italiani credo siano cambiati, dal 1959-63, gli anni del ‘boom’, in poi, come si cambia nei grandi mutamenti socioculturali. Una parte di noi credo sia affidata a costanti di tipo biologico e antropologiche di lunga durata, un’altra a varianti di ordine culturale e socioeconomico. Queste ultime hanno subito nell’ultimo mezzo secolo un’insieme di scosse e di accelerazioni inedite (la cultura dei consumi,la motorizzazione, le forme di vita iperurbana e mercantile, l’azzeramento delle identità di classe, i media audiovisivi…) che hanno rimodellato le relazioni, l’immaginario e l’inconscio. “Mutazione” è un’ utile metafora concettuale: non siamo cambiati tanto nel sistema genetico (siamo solo un po’ più alti, longevi, allampanati dei nostri nonni) ma nel modo di concepire il tempo, lo spazio, i cibi, la sessualità, i rapporti infraumani e il senso della vita.
-3) siamo tutti figli di quella mutazione nel senso che quasi tutti i viventi italiani oggi sono nati nella seconda metà del Novecento e nei primi anni Zero. Dunque quando il paese ha cessato di essere preindustriale, come era da secoli, per diventare in pochissimo tempo, e con scatti iperbolici successivi, industriale e postindustriale , senza passare dal via, come si dice nel gioco del monopoli.
– 4) la “radicale situazione biologica” narrata in “Palmiro” e poi in “Cristi polverizzati” da Di Ruscio è innanzittutto quella della nascita, del parto, del venire al mondo. L’essere gettati violentemente da una condizione intrauterina protetta e felice a quella dolorosa, della vita, che prevede solitudine, conflitti, lotte e infine decadimento e morte. La gioia beffarda, corporale e utopica della scrittura del poeta-operaio che da Fermo è emigrato in Norvegia, ha come trampolino di lancio, e limite, questa drammatica avventura della carne. E (per tornare al primo quesito) la sua scrittura attesta come il presente possa essere non omologato e traumatico, se visto con occhi stranianti. Come quelli di Luigi Di Ruscio, a esempio. Come quelli delle buone scritture letterarie, in generale, che han sempre qualcosa di irriducibile e indocile.
Riguardo quest’ultimo commento, se posso permettermi, rispetto le molte evidenze capaci di individuare una discontinuità concreta per il caso italiano (la cesura storica che con il boom ha determinato -pasolinianamente- l’inaudita e quantitativamente massiccia presenza di oggetti nuovi, un cambio nei modi del lavoro e della socialità, e quindi «omologamente» nelle produzioni culturali, ecc.) credo che un esempio testuale, il Cigno baudelairiano, (vicino a quel 1861 evocato) possa mostrare la liceità dell’uso del concetto di mutazione proprio nella sua ambivalenza di continuità e interruzione, arresto: si può vivere dentro una mutazione che è ininterrotta e costante (come quella Parigi in trasformazione), e averne al contempo un sentimento discreto, finanche acutamente doloroso. È, questa, la tragedia dell’esperienza nel moderno. In questo senso forse il valore maggiore di una simile prospettiva critica risiede nel riconoscere e valorizzare nei testi letterari la capacità di rendere praticabile, avvicinabile, rappresentabile quella tragedia, sempre minacciata di rimozione e oblio, e di farlo fondando delle coordinate specifiche attraverso la «prefigurante» vicenda di «Officina» e del «Menabò» che quel sentimento della grande modernità rileggono, per molti versi continuandolo e, appunto, mutandolo.
Grazie per la risposta. Io leggerò il saggio, per quel che vale. Cerco però di obiettare, su alcune cose. Ammetto di risultare polemico, se non noioso.
1) Ora, lei non condivide le espressioni “omologato” e “senza trauma”, però le cita, e di fatto sono espressioni in circolo. E sono in circolo perché quello che manca è una verifica delle parole dette. Anche lei allude all’inesperienza. Io mi ricordo di un saggio di Scurati che parlava dell’inesperienza dei giovani di fronte alla guerra. A me questo modo di produrre testi sembra destinato a produrre inesattezze a raffica. Se io dico che 2+2 fa 5 vengo guardato storto. Perché invece se uno scrive “senza trauma” (Giglioli?) inaugura un discorso? Perché si continuano a mettere in circolo parole del genere? E anche lei, davvero con tutto il rispetto possibile, perché usa certe parole e certo linguaggio, tipo che il trauma ci abita in modo continuo e molecolare? O si crede ai traumi, quelli concreti, anche psicologici, oppure di cosa stiamo parlando? Non c’è e non c’è mai stato un trauma generico, sociale. Anche un genocidio viene vissuto dalle persone, non in maniera collettiva. E io ho vissuto i miei traumi e lei i suoi, non lo stesso grande Trauma. E molecolare cosa centra? Perché queste parole?
2) la mutazione: se parliamo di costanti biologiche, tipo chi digerisce il latte e chi no, queste riguardano tutti, non una parte, e sono insignificanti per il discorso che ci interessa. ciò che lei elenca, sono cambiamenti esterni, condizioni materiali: per questo siamo più alti, perché mangiamo meglio e di più. La sessualità è cambiata perché ci sono i contraccettivi e sono cambiati i costumi sociali. Ma non è cambiato il desiderio sessuale, si è solo diversificato nelle varie forme che oggi sono accessibili. Dire gli italiani è dire un’eccezionalità, come se negli italiani fosse accaduto qualcosa di particolare, quando è cambiato il mondo, come in tutto l’Occidente, e come cambia negli altri posti quando arrivano cose nuove. Ma da qui a vedervi una mutazione antropologica ce ne corre. Leggendo Pasolini uno non legge resoconti di cambiamenti sociali, legge proprio di uomini nuovi, e questo andrebbe dimostrato, solo che se uno prova a farlo si scontra con la dura realtà. Non c’è un solo cambiamento sostanziale per quanto riguarda i tratti emotivi umani dato dall’arrivo delle merci in abbondanza. La differenza tra me e mio nonno è che a lui hanno insegnato cose diverse e non poteva immaginare ciò che immagino io e la vita come la immagino io, ma per il resto abbiamo avuto le stesse paure, fatiche, vergogne; gli stessi desideri e moti d’animo. In ogni caso a partire da una cosiddetta mutazione circoscritta agli anni del boom, non si risale a nessuna spiegazione del perché io oggi dedico buona parte dei miei acquisti ai libri e consumo poco, rispetto a chi cambia una macchina ogni anno, che è dire che io non sono affatto figlio della mutazione. Sono figlio del mio ambiente, che non è lo stesso di qualcun’altro. Continuare a pensare che i consumi abbiano influito chissà in quale modo, tranne che nel modo in cui lo hanno effettivamente fatto, vedi preservativi e pillola anticoncezionale, significa sbagliare strada, ottica concettuale. Lo stesso vale riferendosi a un periodo di quattro anni per leggere i cambiamenti che intercorrono le vite di ognuno.
4) Si, io apprezzo le sue parole, e da tempo ho voglia di leggere Di Ruscio. Però non c’è bisogno di occhi stranianti per vedere le cose come sono, cioè non omologate e traumatiche. Basta l’ordinaria cronaca. Traumi e diversità sono raccontati anche nei peggiori romanzi. Poiché i romanzi trattano di rapporti umani e i rapporti umani saranno sempre traumatici, non c’è bisogno della letteratura per vederli. La letteratura non ha questa abilità speciale che si crede abbia.
5) c’è questo riferimento al mercato pervasivo eccetera. Non mi ricordo in quale saggio, credo fosse Il mondo fino a ieri di Diamond Jared, nel quale si raccontava di una tribù che grazie alle sue barche veloci riusciva a fare il giro delle isole e a piazzare la varie merci comprandole e vendendole in modo tale da guadagnarci sopra. Faccio notare anche che stando a Stiglitz una delle prime bolle finanziarie risale al 1500, sui papaveri in Olanda.
@ sofia pellegrin
La proposta di coinvolgere nel concetto di ‘mutazion’e ciò che ci dice della vertigine del moderno un testo di Baudelaire come “Il cigno” è interessante e complica il quadro dei problemi che ho provato a trattare in questa mia raccolta di saggi italiani. In che rapporto simbolico si pone la tardiva e rapida modernizzazione italiana, fra anni ’60 e oggi, con la modernità parigina, del secondo ottocento? Che nesso c’è fra modernismo, postmoderno, ipemoderno? Fra le forme di vita che presupponevano i passages e quelle che implicano gli odierni ipermercati? Fra l’età di Baudelaire o Flaubert e quella di Volponi, Morante, o anche di Lagioia o Falco?
@ DFW vs RB
La critica utilizza spesso immagini, metafore. Non parla solo al grado zero. Ciò a volte può essere indice di pigrizia mentale, di allusività accademica, di asservimento dei pensiero a stilemi prefabbricati. C’è stata un’epoca in cui si usava in modo ammiccante un lessico tecnico di matrice strutturalista o psicoanalitica o marxista; in tempi meno lontani è dilagato un linguaggio più vicino a modelli filosofici ermeneutici. Tuttavia l’uso di immagini di pensiero nella critica credo serva. La saggistica è infatti un discorso in parte soggettivo, con un suo grado di ‘letterarietà’: anche senza giungere agli eccessi della critica en artiste, si muove sempre tra oggettività e soggettività, dimostrazione e retorica. La grande critica del novecento, a differenza della scienza, è stata anche un discorso in cui 2 più 2 possono fare 5: non per arroganza ma per invenzione, utopia, idiosincrasia. Questo accade in Debenedetti interdisciplinare, che legge i personaggi di Pirandello e Svevo con le suggestiono della fisica delle particelle e anche nel filologo Contini, che interpreta Dante personaggio sovrapponendogli Marcel.
Dunque: anche ‘senza trauma’ o ‘molecolare’ (e ‘ritorno alla realtà’, e ‘impegno postmoderno’, ecc. dcc. ) sono locuzioni per me accettabili, a patto di accettarne la convenzionalità: sono proposte schematiche e provvisorie di interpretazione di un’epoca ( e come ogni atto di interpretazione , pagano lo scotto della provvisorietà);
– Non so mio nonno (nato a fine ottocento, bracciante nelle saline lagunari e poi operaio della manifattura tabacchi a Venezia) abbia avuto le mie stesse paure, fatiche, vergogne; Certo, la paura della morte ci può accomunare, ma il rapporti sociali e il rapporto con la natura è profondamene mutato.
Non essendo un antropologo, ho cercato in tutti questi miei modesti saggi di vedere quali immagini e figure della nostra mutazione ( un fenomeno decisamente non metabolizzato) ci restituiscono soprattuto gli scrittori, da Morante, Parise, Fortini, Volponi a Di Ruscio, Affinati, Sarchi, e gli altri a cui avrei voluto avere la forza di aggiungere almeno Falco, Lagioia, Pugno….
@ Zinato
e d’accordo, la smetto. Certo che servono le immagini e le metafore, senza non c’è proprio alcun pensiero. è la stessa cosa che fanno gli scienziati, solo che poi verificano le proprie ipotesi. Io non riesco a vedere questo approccio nelle cose che mi dice. Riprendendo la sua introduzione, la differenza fra storiografia e letteratura non è l’oggetto su cui pongono la loro lente, ma il fatto che la storiografia ha l’obbligo di dire la verità sulle cose, la letteratura no. Allora ne segue che Debenedetti può usare ciò che vuole per parlare di letteratura, pure l’astrologia, ma un discorso critico che voglia parlare della società, o di un’epoca, non può basarsi su convenzioni, suggestioni, retoriche eccetera. Possono essere strumenti d’indagine, non di verifica. Altrimenti diventa letteratura a sua volta. Che in sé non è un peccato, basta esserne coscienti.
Anch’io, leggendo a suo tempo, «Letteratura come storiografia» di Enzensberger rimasi impressionato positivamente da quella differenza che lo scrittore tedesco faceva tra storiografia e letteratura, tra oggettività dello storiografo (dati sull’incremento della disoccupazione, ecc.) e « il punto di vista soggettivo di un passante nella metropoli, con le drogherie, le vetrine e il profumo di trippa».
Poi, ripensandoci, pensai che quella stessa problematica non era poi così nuova: era stata di Manzoni e di Verga e poi di chissà quanti altri. E nel 2005, riflettendo sul tema ‘scrittori e Resistenza ieri ed oggi’, mi venne da contestare l’autorevole opinione, divenuta un pigro luogo comune, che la letteratura sia la vera storiografia dell’umanità, come aveva sostenuto Enzensberger nel suo saggio sul «Il menabò 9» (1966), opinione ripetuta anche da Sciascia sulla scorta di Manzoni. E che si ritrova pure in Adorno: «Le forme dell’arte registrano la storia degli uomini con più esattezza dei documenti».
E mi chiesi: ma è davvero così?
A me allora (2005) pareva che i risultati della storiografia delle «Annalès» avessero spuntato molte delle frecce che Enzenberger aveva lanciato soprattutto agli storici più positivisti con cui polemizzava. E mi chiesi pure: sulla Resistenza chi ha lavorato di più e meglio? Opere come quella di Pavone o lavori di altri storici (Cortesi ad es.) non permettevano di capire quel che di irrisolto e vivo era rimasto sotto il crollo della «grande utopia della Resistenza», la potenza e l’impotenza di quelle speranze e passioni storiche, quell’intreccio tra «gioia di fondo» e «ombre dense fino al dolore» (Pavone) meglio delle opere di Pavese, di Vittorini, di Calvino o dello stesso Fenoglio?
E scrivevo: « evitando di estremizzare, ritengo che sarebbe urgente e utile tornare a fare seriamente la spola tra certi risultati della recente storiografia sulla Resistenza e gli scrittori che ne diedero resoconti o narrazioni passionali (Fenoglio), meditati (Fortini; e non mi riferisco solo a «Sere in Valdossola») o ambigui. E per quest’ultimo caso, penso soprattutto a Calvino: cosa si perde, infatti, della Resistenza nella proiezione fiabesca se non già di «gioco» con cui è resa ne «Il sentiero dei nidi di ragno»? E anche su Fenoglio, un autore ai suoi esordi censurato e oggi troppo sacralizzato dal nuovo clima “revisionista”, richiederei una riflessione critica più rigorosa e che non si limiti a censurare le domande mettendo sotto il naso l’eccellenza del risultato artistico dello scrittore di Alba. Come non vedere che nella sua opera, la Resistenza è *soprattutto* «guerra civile», trascurando il paradosso, messo a suo tempo in luce da Fortini e Luperini, che l’opera più intensa scritta sulla Resistenza si voglia o sia presentata come a-ideologica, punti assolutisticamente su dati esistenziali e vitalistici (l’amore, la morte, il caso, la violenza), dia tutto il campo a un eroe individualista, una reincarnazione di Robin Hood, ricacciando sullo sfondo la dimensione collettiva e politica della lotta partigiana e, per finire, abbia dei debiti indiretti «con la letteratura del tragicismo eroico europeo che è di destra, di destra fino al nazismo. Hamsun, per esempio, Jűnger» (Fortini)? Fenoglio taglia fuori aspetti ideali, politici, materiali della storia di quegli anni e della lotta partigiana, che la storiografia fin qui esaminata considera rilevanti. Questo non significa pretendere che un narratore sia preliminarmente uno storico, ma non cancellare quello che lui ha creduto giusto cancellare (o non ha potuto fare a meno di rimuovere). E chiedersi ad esempio: «Una questione privata» è davvero quel libro che, secondo il giudizio – ora quasi dogma – di Calvino, quella generazione di resistenti voleva fare? Se ho presenti le riflessioni storiche di Cortesi, esito a rispondere di sì.».
Mi piacerebbe sentire il parere di Zinato. Aggiungendo che è lo sbilanciamento a volte eccessivo a favore della letteratura a insospettirmi; e che oggi, soprattutto dopo quanto sta avvenendo a partire dagli anni Settanta del Novecento in Italia e nel mondo, ci sarebbe il bisogno di un ripensamento storiografico ben più radicale e severo di quello riguardante la Resistenza, che nel 2005 ancora mi convinceva.
@ Ennio Abate
Gli scrittori tedeschi del Gruppo 47, nel cui clima nasce il saggio di Enzensberger del 1966, cercavano di passare a contropelo la storia ufficiale tedesca grazie al montaggio, all’espressionismo glaciale, a pratiche di straniamento, al riuso figurale di materiali apparentemente documentari e protocollari. La loro tensione utopica e critica credo non sia del tutto perduta. “Un libro dev’essere un’ascia per il mare ghiacciato che è dentro di noi”: questa frase, presente in una lettera di Kafka, viene ripresa dalla Bachmann in una delle sue lezioni, pronunciate a Francoforte nel 1959-1960 e pubblicate col titolo di Letteratura come utopia. : l’idea di una letteratura che per essere tale deve nascere «laddove, prima di ogni conoscenza, un pensiero nuovo, con la sua forza dirompente, ha dato il primo impulso». Una tale letteratura, già nel manifestarsi della sua forma, «contrappone alla vita una utopia della lingua».
Ciò non toglie che una storiografia critica della vita materiale, delle strutture dell’immaginario, e anche dei recenti conflitti condannati all’oblio, è necessaria e auspicabile. Penso non solo alla Resistenza ma anche più indietro al Risorgimento (l’idea fissa dell’ultimo Bianciardi) e più avanti agli anni ’60 e ’70. Dobbiamo lasciare la bomba di Piazza Fontana, il tentativo di Golpe Borghese, il caso Moro alla spettacolarizzazione – figurale in senso deteriore – televisiva? No: sarebbe vitale una nuova storiografia e il periodo della ‘mutazione’ italiana, a esempio, cesserebbe di essere solo un trauma non metabolizzato. Ci aveva provato in parte Lanaro.
Sulla letteratura della Resistenza, non compresa nel mio libro: credo che Fenoglio e Meneghello ci dicano molto. Il primo, certo, mediante uno spostamento epico e esistenziale . il secondo però (in Piccoli maestri) anche nel senso delle dinamiche collettive e storiche: grazie a una narrazione antieroica e antiretorica e ‘fenomenologica’, nel senso che tra soggetto rimemorante e mondo, tra destini individuali e azione collettiva, c’è sempre un’apertura di senso il cui esito è incerto, non garantito, mutevole. “Che ethos gavio vualtri?’ si domandano vicendevolmente i gruppi partigiani improvvisati sull’Altopiano di Asiago….
a DFW vs RB: La bolla finanziaria olandese è del Seicento, e non c’entrano i papaveri ma i tulipani.
a E. Abate, su Fenoglio/Fortini
“Il partigiano Johnny” sulla Resistenza dice una cosa fondamentale, solo che non la dice direttamente.
Dice che una riuscita epica della Resistenza piena joie de vivre e fiducia nel futuro, è possibile solo *in un’altra lingua*, in un angloitaliano d’invenzione (felice); perchè la Resistenza come storia realmente esperita dall’Italia e dagli italiani è capitolo di una vera e propria catastrofe nazionale: una guerra civile nella quale ciascuno dei due campi si asservisce, volens nolens, a nazioni straniere che occupano l’Italia e ne fanno un campo di battaglia, militare e ideologico; e una delle quali è ancora qui, con le sue basi militari, etc.
(Ricordo che nè la R.S.I., nè le formazioni partigiane, potevano avere un influsso decisivo sulle sorti della guerra, che fu decisa nello scontro fra Alleati e Asse: non è un particolare secondario; è anzi, storicamente, il dato fondamentale.)
@ Buffagni
Caro Buffagni,
non voglio deviare la discussione dall’argomento del post di Emanuele Zinato. Mi limito perciò a copiare qui solo un altro breve stralcio del mio scritto del 2005, dove risulta chiara l’attenzione che ponevo ad autori (come Cortesi) ben attenti ai condizionamenti del contesto internazionale in cui la Resistenza avvenne e a invitarti a proseguire la discussione sul sito di “Poliscritture”. Ho appena ripubblicato lì l’intera mia riflessione.
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[Accontentarsi della Resistenza al plurale?] L’affermarsi di un’immagine plurale della Resistenza è un fatto positivo. Ma possiamo accontentarcene? A me pare di no. La Resistenza è evento e mito fondante della Repubblica italiana e su entrambi questi aspetti lo scavo non finirà presto. Un po’ com’è accaduto in campo religioso per l’interpretazione del cristianesimo delle origini, che ha dato luogo nei secoli a interpretazioni sia ufficiali e ortodosse che a interpretazioni radicali ed eretiche, ci sono aspetti della Resistenza che continueranno ad essere indagati al di là dei luoghi comuni o delle attuali sistemazioni, valide ma pur sempre provvisorie. Molti dei problemi più radicali che si posero nel periodo che va dall’8 settembre 1943 al 1945, sono stati infatti liquidati sotto comode etichette («ribellismo», «sovversivismo» o «utopia») ma hanno continuato a covare sotto le ceneri della storia italiana e si sono ripresentati in altre forme nel ’68-’69 e negli anni Settanta, l’ «ultimo grande moto democratico che il nostro paese abbia conosciuto» (Bermani). E non a caso l’idea di una Resistenza come «occasione perduta» di un cambiamento più ampio di quello realizzato, come «alternativa spezzata nel suo punto più alto» si affacciò proprio negli anni Sessanta e torna spesso come problema non trascurabile, ad esempio anche in Nascita di una democrazia (2004), un recente libro di un altro storico, Luigi Cortesi. Per dirla con Fortini, le «domande terribilmente serie» che erano state poste nelle lettere dei condannati a morte o nella memorialistica e diaristica di quegli anni non hanno trovato ancora risposte soddisfacenti. Né in politica né in campo culturale. E perciò la domanda *si poteva fare di più?* – domanda che fu di una buona parte della generazione dei resistenti e che ora è stata riproposta da Cortesi – ha una carica euristica da non sottovalutare.
[Cortesi] Se Pavone, infatti, ha messo in luce il peso della «guerra civile» nella Resistenza, merito di Cortesi è quello di aver riproposto un altro dei punti sottaciuti o rinnegati della Resistenza, quello della lotta di classe; e in un quadro non più esclusivamente nazionale o al massimo europeo, ma in quello mondiale, dove già verso la fine della Seconda Guerra mondiale si era aperto il sordo scontro tra Usa e Urss. La Resistenza è da lui letta non alla luce rassicurante della Liberazione dell’Italia e dell’Europa e del superamento della minaccia nazifascista, ma a quella inquietante dello scoppio delle bombe su Hiroshima e Nagasaki. Quell’atto criminale che, com’è stato ricordato nel cinquantesimo anniversario appena trascorso, non fu motivato da esigenze belliche o dalla volontà di risparmiare vite umane (il Giappone si era di fatto già arreso), invece di chiudere la Seconda guerra mondiale, anticipava la successiva Guerra fredda. In questo quadro mondiale, per Cortesi la Resistenza appare come un movimento dal basso, non promosso da alcuno Stato e che conteneva elementi fecondi che oltrepassavano lo scontro fascismo/antifascismo. Ad esso perciò non si addice la definizione di «guerra», né «civile», né «di classe», né «di liberazione» e/o «patriottica», definizioni per lui abusive anche se adottate dai protagonisti. Cortesi perciò riprende la tesi della Resistenza come «occasione perduta» per un grande rinnovamento democratico ben più ampio e solido di quello realizzatosi. E riapre “vecchie” questioni: l’ostilità degli Alleati verso i resistenti; la politica staliniana di apertura a Badoglio; la possibilità di legare i movimenti presenti al Sud, che ebbero un punto altissimo nelle Quattro giornate di Napoli, al «vento del Nord»; il ruolo della «svolta di Salerno» nel ristabilimento della continuità con il vecchio stato («fascistizzato»); ecc. Cortesi, che pur apprezza la ricerca di Pavone, se ne distanzia dunque su due punti: – distingue nettamente la Resistenza dalla guerra (la Resistenza, anche se ebbe come sua matrice la guerra, ne fu il suo «ripudio»); – ritiene impossibile una storia della Resistenza tutta orientata sulla «moralità» (termine chiave adottato da Pavone) fino a trascurare che «uomini, passioni e “moralità” siano costretti a vivere e subire i cicli della politica e i suoi atti di espropriazione».
a E. Abate,
Grazie, leggo volentieri.