cropped-slide_305887_2635891_free.jpgdi Gianfranco Pellegrino

[Proponiamo un estratto dal volume di Gianfranco Pellegrino, Etica pubblica. Una piccola introduzione (Luiss University Press, 2015) (it)].

In questo capitolo analizzo il rapimento di Aldo Moro nel 1978. L’obiettivo è mostrare che nella discussione pubblica che si sviluppò in quei giorni c’è un tratto comune, che è la messa in questione del paradigma dell’etica pubblica. […] La caratteristica più rilevante del discorso pubblico che ricostruisco fu un’oscillazione inquieta fra moralismo e realismo, e quasi l’incapacità di adottare coerentemente e permanentemente la posizione intermedia rappresentata dall’etica pubblica. L’etica pubblica affiora talvolta, ma non viene mai adottata chiaramente e coscientemente come prospettiva. È come se gli italiani trovassero difficile, in un certo senso, fermarsi in quella posizione mediana fra gli estremi che è l’etica pubblica.

  1. L’affaire

[…] Dopo tredici giorni dal suo sequestro, […] Moro scrive due lettere, una a Cossiga (recapitata il 29 marzo), l’altra a Benigno Zaccagnini, segretario della Dc (recapitata il 4 aprile). […] Moro suggerisce di intavolare una trattativa segreta con i brigatisti. Sa benissimo, in questo momento, che la segretezza è un elemento essenziale per la riuscita della trattativa e per la sua personale salvezza. […] La posizione che emerge nelle due lettere a Cossiga e a Zaccagnini è la seguente. Non è in ballo una vita umana soltanto, ma la salvezza dello Stato, che potrebbe essere messa a repentaglio dalle cose che Moro sa e potrebbe essere costretto a dire ai terroristi […]. Ecco le sue parole:

io mi trovo sotto un dominio pieno ed incontrollato, […] avendo tutte le conoscenze […] che derivano dalla lunga esperienza, con il rischio di essere chiamato o indotto a parlare in maniera che potrebbe essere sgradevole e pericolosa in determinate situazioni. Inoltre la dottrina per la quale il rapimento non deve recare vantaggi, discutibile già nei casi comuni, dove il danno del rapito è estremamente probabile, non regge in circostanze politiche, dove si provocano danni sicuri e incalcolabili non solo alla persona, ma allo Stato.

  1. Da Moro a Moro*

Per giungere all’esterno della sua prigione, le parole di Moro debbono superare quattro diversi livelli di mediazione e schermatura. I terroristi impiegano due modalità di censura. Una prima censura è di diffusione: decidono i modi di distribuzione degli scritti di Moro, stabilendo quali lettere recapitare, quali rendere pubbliche e quali tenere segrete. Una seconda censura è di composizione: spesso le Br costruiscono letteralmente il testo di Moro, imponendogli di riscrivere, di collazionare o di integrare le sue stesure originali. […]

Questo è il primo livello di schermatura. A esso si aggiunge, fin da subito, il tentativo di Moro medesimo di aggirare la doppia censura dei suoi carcerieri e di mandare messaggi all’esterno con vari mezzi […] Nel carcere di via Montalcini, osserva Italo Calvino, Moro indaga le «possibilità dell’uso del discorso nel cuore del terrore» (Calvino 1995b)⁠. Questo è il secondo livello di schermatura.

Ma i tentativi di Moro si infrangono spesso contro quella che ho chiamato censura di diffusione. I terroristi fanno pervenire solo alcuni dei materiali (senza dire a Moro quali, rendendo così inefficaci eventuali riferimenti impliciti che Moro poteva fare nelle sue lettere), sopprimono pagine, e così via. Questo è il terzo livello di schermatura.

Infine, c’è un’ultima schermatura, quella esterna: alcune lettere non vengono rese pubbliche dai loro destinatari; altre lettere e scritti di Moro non si sono mai più ritrovate, e non è dato sapere chi le abbia, o se esistano ancora; i testi pubblici di Moro vengono variamente interpretati e sovrainterpretati, in quei giorni e per molti anni dopo.

Questi molteplici livelli di schermatura hanno finito per costruire, volente o nolente, un autore nuovo, ma fittizio, di quei testi e del loro significato – fors’anche una sorta di autore collettivo. […]⁠ Quest’autore collettivo […] è ciò che mi interessa qui. Perché negli scritti di quest’autore collettivo è presente, in positivo e in negativo, una concezione delle relazioni fra moralità e politica.

[…] Per segnalare che non intendo riferirmi alle idee dell’Aldo Moro reale, ma solo a quella silhouette costruita dai terroristi e dalle voci dell’opinione pubblica di quei giorni […], nel seguito userò l’espressione Moro* per indicare l’autore delle lettere e delle posizioni che discuto.

  1. Etica pubblica nella notte della Repubblica

Tanto Moro* quanto i suoi compagni di partito, tanto i membri del governo quanto quelli dell’opposizione condividono l’idea che la politica implichi doveri morali al tempo stesso più esigenti e più lassi di quelli imposti dalla moralità agli individui comuni. Per la salvezza dello Stato, Moro* e i suoi compagni di partito sono disposti ad avviare una trattativa segreta. Quindi, per la salvezza dello Stato si può venir meno al dovere della sincerità e della trasparenza. Ma, a un certo punto, quando la linea della fermezza viene decisa, la convinzione diventa che, sempre per la salvezza dello Stato, Moro abbia il dovere di immolarsi: lo Stato può chiedere ai suoi servitori ciò che forse nessuno potrebbe chiedere a individui comuni – l’estremo sacrificio di sé.

[…] Una volta che la segretezza – almeno un certo livello di segretezza – si rivela impossibile, le strategie di ‘Moro’ e del governo italiano sembrano divergere. Ma forse la divergenza nella sostanza non è distanza nel merito: Moro* insegue ancora l’idea di una trattativa, il governo la rifiuta, ma entrambi sembrano avere lo scopo di difendere lo Stato […], di difenderlo dall’attacco dei terroristi […].

Entrambe le linee implicano che i comuni doveri morali mutino in parte: per Moro* si può venir meno al dovere di non mentire, per il governo, una volta che la strategia della segretezza sia impossibile, viene meno il dovere di salvare una vita umana; per Moro, forse, una volta svanita la prospettiva di una trattativa segreta fra governo e terroristi, diventa lecito anche proporre ai brigatisti di ceder loro dei documenti riservati che egli era riuscito a procurarsi durante la prigionia, per aver salva la vita dietro garanzia ai terroristi di poter usare quei documenti come salvacondotti per un’eventuale fuga all’estero.

Per alcuni, Moro dimostrò scarso coraggio durante il suo rapimento (si giunse a paragonarne l’epistolario e la condotta con le lettere e l’atteggiamento dei condannati a morte della Resistenza): per costoro, il dovere di un uomo di Stato di resistere alla minaccia per il fine superiore dell’interesse pubblico arrivava a richieste elevatissime. […]

Ma anche nell’immediatezza del rapimento, alcuni ritenevano che lo Stato (e soprattutto quello Stato) non giustificasse il sacrificio di un essere umano: Moro aveva tutto il diritto di provare a salvarsi la vita, per chi la pensava così. Per alcuni, semplicemente non si debbono imporre obblighi più stringenti ai politici, né si possono chiedere a nessuno sacrifici così estremi come lasciarsi uccidere da dei criminali terroristi. [..]

Per altri invece del genere forse si potrebbero anche esigere, ma ne dovrebbe valere la pena, e non ne valeva la pena per quello Stato, che «da un secolo, da più che un secolo, convive con la mafia siciliana, con la camorra napoletana, col banditismo sardo. Da trent’anni coltiva la corruzione e l’incompetenza, disperde il denaro pubblico in fiumi e rivoli di impunite malversazioni e frodi» (Sciascia 2001)⁠. […] E chi sosteneva questa posizione auspicava una trattativa pubblica per contrattare il rilascio di Moro, come si sarebbe fatto con qualsiasi altra vittima di un sequestro a scopo di estorsione.

Questa era la posizione di Sciascia nel 1978. La riprende Francesco Piccolo nel 2013. La vicenda di Moro, dice Piccolo, riproduce il dilemma di Antigone e Creonte nell’omonima tragedia di Sofocle […]. Secondo Piccolo, come in Antigone anche durante il rapimento di Moro l’imperativo di tutelare il bene comune entrò in conflitto con le norme dell’umanità. Non è vero che Moro* voleva salvaguardare il bene dello Stato, evitando di trovarsi nelle condizioni di rivelare segreti pericolosi. Moro* voleva salvare se stesso, come uomo privato, e minacciava di rivelare segreti di Stato per indurre i suoi amici di partito a tirarlo fuori di lì. […]

[…] In un certo senso, l’Antigone esprime l’idea centrale di etica pubblica. Creonte viene esentato dal dovere morale di dare giusta sepoltura ai morti, per assicurare il benessere dei tebani, e allo stesso tempo gli viene richiesto di non fare eccezioni per la nipote, e condannarla a morte. Ci sono ragioni politiche – il benessere dei tebani – in contrasto con ragioni morali – il dovere di dare sepoltura ai morti e di salvare i propri congiunti dalla morte. Nella missiva a Zaccagnini del 20 aprile, Moro* parla di contrasto tra «ragioni di Stato e ragioni umane e morali». E nella lettera a Zaccagnini: «di fronte a quelli del Paese, ci sono i problemi che riguardano la mia persona e la mia famiglia».

Secondo i realisti politici la politica è totalmente svincolata dalla moralità e costituisce una sfera del tutto indipendente e autonoma. Creonte potrebbe essere un realista politico: con il suo decreto, egli suggerisce che non ci sono imperativi morali che valgano quando sia in ballo il potere e la stabilità di un regno. Antigone rifiuta tutto questo, e così facendo rifiuta la politica: come dice Pontara, Antigone «non scende a patti con Creonte perché ciò significherebbe sacrificare la propria purezza morale, sporcarsi le mani», perdere la propria integrità, e con essa l’unica speranza di vivere felice (Pontara 1989)⁠. […]

Idee del genere, forse, erano nelle menti di chi rifiutava tanto la fermezza quanto la trattativa segreta con i rapitori di Moro, e invocava una trattativa pubblica, dove le ragioni umanitarie fossero chiare sul tavolo. Forse costoro erano consapevoli che la loro proposta sarebbe stata impossibile da accettare, tanto per i rappresentanti dello Stato quanto per i brigatisti. Ma per loro era l’unica via per non sporcarsi le mani, per non lordarsi accettando il ricatto o sacrificando Moro. Era una maniera, si badi, di sacrificare Moro e contemporaneamente di accettare il ricatto, ma mantenendo la propria purezza. E la purezza, forse, è l’unica cosa importante, per chi la pensa così.

In quei mesi del 1978 si sono scontrati due modi di vedere il ruolo dei politici, perché Moro sempre un politico rimase e come tale fu percepito – anche quando mostrò il lato umano del politico, anche quando l’uomo privato soverchiò, e quasi inghiottì, l’uomo pubblico, anche quando fu chiaro, come scrisse Italo Calvino già nel 1978, «che Moro rinunciava alla sua immagine pubblica e assumeva quella di uomo di famiglia cui interessa solo che lo lascino tornare a casa» (Calvino 1995b)⁠. Anche in quell’occasione, il problema era: ma questo è possibile? Ma è lecito per un uomo pubblico comportarsi così?

[…] Nel caso Moro fu in discussione se l’etica pubblica come relazione equilibrata fra politica e moralità, senza annessioni o supremazie, avesse praticabilità o meno. Per Arbasino, nei cinquantacinque giorni della prigionia di Moro una sensazione di «abiezione e orrore […], si è venuta gradualmente trasformando in una sorta di feuilletton […]» (Arbasino 2008, 8)⁠. Per Gotor, «tutta la vita di un uomo» passa in quelle lettere, una vita che si può raccontare così: «amore, potere, profezia, fede, memoria, ancora amore, fino all’ultimo respiro, in una livida mattina di maggio, a ora e luogo incerti» (Gotor 2008a, 384)⁠. Tutto questo forse riguardò Aldo Moro, l’individuo storico, e i milioni di italiani, altri individui storici, che assistettero alla sua morte […]. Ma accanto a questa discussione e a questo travaglio, ci fu un dibattere implicito, ma non per questo irrilevante, su come conciliare politica e moralità, in un paese che sembrava al tempo stesso troppo politico e troppo morale, e forse era solo melodrammatico.

[Immagine: La Renault 4 parcheggiata in via Caetani, 9 maggio 1978 (gm)].

 

29 thoughts on “Il caso Moro: o della difficoltà dell’etica pubblica nel discorso italiano

  1. Forse dipende dalla brevità del testo qui riprodotto… Ma da che parte si colloca l’autore? Con Creonte o con Antigone?

  2. Caro Rino, grazie per la lettura. La tua è una domanda ovvia e nonostante ciò difficilissima, e non mi aiuterà la brevità del testo pubblicato a rispondervi. Ma il fatto è proprio che nel libro da cui viene l’estratto provo a dire che né Antigone né Creonte possono essere il punto di vista corretto per considerare casi come quello della trattativa durante il sequestro Moro, e più prosaici esempi recenti. L’idea è che le ragioni morali e quelle politiche siano contrapposte, ed entrambi sufficienti per agire, ma nessuna prevalga assolutamente sulle altre — il che significa che qualsiasi azione è, almeno in parte, ingiusta, in casi del genere. L’intenzione è di reagire tanto contro i realismi che agitano il primato della politica quanto contro i moralisti che rivendicano il primato della (loro) moralità.

  3. Applicato al caso Moro, una delle conseguenze del ragionamento è che un errore ci fu da entrambe le parti — anche se forse gli errori non ebbero lo stesso peso. Chi sostenne la fermezza non riconobbe l’urgenza morale e la rilevanza dei costi personali delle vittime (delle vittime dell’attentato, forse, e non solo di Moro) — giacché il sacrificio di Moro venne agitato come una specie di compensazione per il sacrificio della scorta, almeno da alcuni, il che è ovviamente assurdo. Chi si oppose alla fermezza, e anche alla trattativa segreta, disconobbe l’urgenza politica e la rilevanza della difesa dello Stato di diritto — o almeno dell’idea o dell’ideale di Stato di diritto. Capisco che anche questa risposta è troppo breve….

  4. Leggerò senz’altro il libro di G. Pellegrino, grazie dell’anticipazione.
    Difficile commentare uno stralcio così breve su una questione tanto vasta, ma ci provo.
    La giustificazione pubblica delle due posizioni fermezza/trattativa, che ha certo una sua importanza, mi pare però di minimo peso rispetto alle poste in gioco, e dunque anche rispetto all’ “etica della responsabilità”, che mi pare la più adeguata a chi rivesta importanti cariche politiche.
    Creonte e Antigone, specie nell’interpretazione che ne diede Hegel, li lascerei proprio stare. Non era Antigone Moro, non era Creonte il fronte della fermezza.

  5. Caro Gianfranco, è vero, ci sono casi in cui i piatti della bilancia restano in pari, i corni del dilemma rimandano l’uno all’altro senza posa, e una decisione in un senso o nell’altro è impossibile o indifferente. Per esempio, se do l’obolo al mendicante confermo il sistema che produce mendicanti; se non lo do, resta il fatto che avrei potuto aiutare uno che aveva davvero bisogno e ho evitato di farlo. Entrambe le scelte sono sbagliate – dunque che io mi comporti in un modo o nell’altro è indifferente, seguo in ambedue i casi un’inclinazione irriflessa. Se però ci rifletto su, eccomi di nuovo rinviato ai due corni del dilemma, indefinitamente.
    Tutto sommato, sia nella tragedia sia nell’interpretazione hegeliana, Creonte e Antigone sono presi in una dialettica del genere – che Hegel riteneva di poter risolvere a un livello superiore e noi invece no, perché non siamo idealisti.
    Ma in un’ampia congerie di situazioni, non è vero che non si possa (e non si debba) scegliere. Ci sono argomenti – e anche aspetti di empatia – che fanno abbassare i piatti della bilancia da una parte o dall’altra. Sulla questione specifica, gli argomenti di Sciascia – e la sua empatia con la vittima – erano quelli giusti. Berlinguer (onestessima persona che difendeva l’idea o l’ideale dello Stato di diritto) aveva torto. Non parlo dei trattativisti strumentali come Craxi, che però aveva prospettato, grazie ai suoi contatti, uno scambio “uno contro uno” (quello delle Brigate rosse era un detenuto in precarie condizioni di salute) del tutto sostenibile; e non parlo nemmeno dei difensori democristiani della legalità che volevano semplicemente Moro morto. Parlo degli argomenti opposti in senso, al tempo stesso, politico e morale. Se Moro fosse uscito vivo dalla prigione delle Br, non è detto che col tempo non avrebbe potuto riassumere un ruolo: e questo al Pci – se anche ci fosse stata una sola possibilità in questo senso – avrebbe giovato. Dal punto di vista morale, o umanitario (nella situazione specifica le due cose si confondevano), si sarebbe salvata una vita e si sarebbe mostrato un volto dello Stato non chiuso in una fermezza di marca statolatrica – oltre tutto ridicola in una situazione di corruzione diffusa come quella democristiana di allora (evitando i riferimenti all’oggi…).
    Insomma Moro morto fece comodo a taluni, e sembrò in maniera cieca un’ultima spiaggia per “salvare lo Stato democratico” ad altri. Quanto all’opposizione di morale e politica, cui tu accenni, attenzione: nel caso specifico l’intreccio tra le due era strettissimo. In un senso che voleva essere insieme morale e politico, ricordo che in quei tristi giorni del 1978 ebbi un rapido scontro (nella mensa della Normale) con Roberta De Monticelli, che sosteneva una posizione apparentemente tutta politica come quella presa dal Pci. Gli sviluppi ulteriori hanno confermato, invece, che si trattava soltanto di una posizione ipermoralistica – evidente negli scritti più recenti dell’autrice. Il guaio è che, in fondo, anche per Berlinguer era così: il suo moralismo gli impediva di vedere che la saggezza politica, perfino l’interesse tattico del suo partito nei rapporti con la Dc, avrebbero spinto piuttosto a una trattativa.

  6. “L’intenzione è di reagire tanto contro i realismi che agitano il primato della politica quanto contro i moralisti che rivendicano il primato della (loro) moralità” (Pellegrino)

    A me questa quadratura del cerchio o individuazione di un ipotetico punto d’equilibrio tra le due spinte sembra impossibile. Lo stralcio è davvero insufficiente per valutare il risultato raggiunto dal libro. E tuttavia mi pare che, se guardiamo alla storia successiva al caso Moro, la concreta posta in gioco politica, che a me pare di gran lunga più rilevante [1], non sia neppure accennata, restando del tutto indefinita. Chi s’aspettava allora la fine del sistema dei partiti? Chi l’ha in un certo senso auspicata o voluta?

    P.s.
    Vorrei che Gianfranco Pellegrino, se potesse, mi desse anche un parere sulle posizioni espresse “fuori dal coro” da uno studioso come Gianfranco La Grassa ( ad es. qui: http://www.conflittiestrategie.it/si-svegliano-tardi-di-glg-1-luglio-13).

    [1] Stralcio da una mia riflessione su “Disobbedienze I, II” di Franco Fortini questo passo, che sfiora il tema qui trattato del rapporto politica/morale in modo meno “manicheo”:

    ***
    Più tardi (35, II), quando [Fortini] incontrò a San Vittore vari detenuti per terrorismo o partecipazione a banda armata, fu forse uno dei pochi ad avere il coraggio di criticare da un punto di vista coerentemente marxista l’“illusione” di molti di loro – pentiti o dissociati – che ormai si appellavano soltanto alla “coscienza umana” o all’«essere umano che dovrebbe abitare in ciascuno» (38, II). Era un’affermazione per lui inaccettabile: «Che cosa sia poi quell’uomo, quell’essere umano di cui parlate, quando a quello sia tolta la dimensione dell’azione comune per la solidarietà, la giustizia, la libertà e l’eguaglianza, io non riesco davvero a immaginarmelo. Che cosa è un uomo ridotto alla mera dimensione della interiorità morale?». E aggiungeva : «deve trattarsi di una canaglia. O di una vittima. E che cosa vogliono infatti da noi i custodi della eticità di stato, se non fare di noi delle canaglie o delle vittime?» . O politica o morale allora? No: «tra il momento politico e quello morale c’è una incessante tensione e implicazione reciproca» (38, II). Gli incarcerati per terrorismo e banda armata sostenevano che la sconfitta della lotta armata fosse venuta da un errore: aver fatto «uso della violenza» (36, II), che essi ora sentivano come colpa morale. E toccava proprio a Fortini fargli notare che così abbassavano la loro rivolta al livello dell’azione di «una banda di assassini o [di] un’associazione di indemoniati», perché essi stessi cancellavano la dimensione politica della loro azione (37, II). No, gli replicava, l’errore non è stato questo, non è stato morale, ma è venuto da una vostra cattiva «lettura e valutazione dei fattori politici che ha contribuito potentemente alla sconfitta della opposizione di cui [il Partito Armato] era una parte» (37, II) E aggiungeva: «e non una conseguenza» [della violenza](37,II). E per Fortini questo «errore politico [era] più grave di quello morale: quest’ultimo riguarda l’individuo, mentre quello politico «si trasforma in sofferenze e rovina per gli altri» (37, II). E infatti è la storia di tutti che è stata ridotta a «una questione di coscienza invece che in una questione di conoscenza e di azione» (37, II).

  7. Provo a rispondere alle varie complesse questioni poste da Genovese e Abate. Innanzitutto, un punto generale. Nel libro prendo il rapimento Moro come caso rappresentativo, per ragioni che credo ovvie, ma altrettanto ovviamente non ne faccio un’analisi completa — e soprattutto sfioro soltanto questioni come gli esiti di quell’evento sul sistema dei partiti, e così via. Forse l’ho fatto perché non riuscivo a fare di meglio, forse perché pensavo bastasse così. Ma mi rimane l’impressione, e questa discussione me la conferma, che: 1. una nuova discussione filosofica di quel momento della nostra storia sia necessaria — dico una discussione compiutamente filosofica, o filosofico-politica, diversa da quella solo politica, o storica; 2. a tutti è chiaro che in quella vicenda s’intersecavano politica e morale in maniera stretta (come dice Genovese), ma a nessuno (forse neanche a me) è chiara la natura esatta dell’intersezione, e soprattutto il giudizio da darne. Una delle mie tesi nel libro è che gran parte dei tic e delle incompiute svolte della vita pubblica italiana – sì proprio di quell’attualità cui Genovese pensa, senza volerla citare – derivi da questa mancanza di chiarezza. E’ intellettualistico, forse, ma tant’è.
    Detto questo, provo a dire qualcosa anche sui punti specifici. In tutto il suo intervento Genovese sembra dare per scontati due tesi: a. che ci fossero due posizioni contrapposte: una per la fermezza, e in nome della difesa dello Stato di diritto, l’altra per la trattativa, a difesa della vittima. Ma ho l’impressione (solo da letture, e incomplete eh: io avevo sei anni nel ’78), che ci fossero almeno tre posizioni: trattativa segreta, fermezza e trattativa pubblica. Secondo me questo fa differenza. Secondo me c’erano tanto ragioni politiche a favore della trattativa segreta — e Berlinguer le vide benissimo, il suo eventuale moralismo (che pure non è tale, e io difendo nel libro Berlinguer sulla questione morale) viene dopo, o comunque affiora in altri campi — quanto ragioni morali per una trattativa pubblica. Il mio punto è che le due cose non si conciliano e non vanno confuse. (Ah: Rino è preveggente, se non ha ancora letto il libro: a De Monticelli e il suo moralismo dedico alcune pagine…). Il secondo punto di Rino è che b. la fermezza è infondata perché sarebbe statolatrica, specialmente se lo Stato è corrotto. Questa è la posizione di Sciascia (che discuto a lungo) e più recentemente di Francesco Piccolo (si parva licet). Questa visione così formulata non è chiara. A me pare che si possa interpretare in due maniere: o si tratta dell’idea che la fermezza non è mai giusta, perché le ragioni morali di difesa della vita umana predominano sempre (e allora la posizione coincide con quella della trattativa pubblica), oppure si tratta della tesi secondo cui la fermezza sarebbe stata giusta, ma non in quel caso, perché ciò che la fermezza deve difendere (lo Stato di diritto) non si dava allora — e perché non si dava? Perché lo Stato era corrotto, eccetera. (E magari per alcuni di noi questi imperfetti potrebbero benissimo essere al tempo presente.) Ma, di nuovo, ciò vuol dire che ragioni morali — la critica morale allo Stato corrotto — predominano su quelle politiche. (Anche perché se la corruzione diviene fatto politico – se ci sono ragioni politiche per abbattere uno Stato corrotto – allora non bisogna farlo solo quando è in ballo Moro, ma bisognerebbe anche fare di più e sempre: se lo Stato non è legittimo, forse non è neanche il caso di candidarsi alle elezioni, il che Sciascia fece, e così via. Ma c’è un’intervista successiva di Sciascia in cui mi pare lui precisi la posizione che, per ragioni squisitamente letterarie, aveva lasciato vaga nell’Affaire). Insomma, c’erano moralisti e c’erano realisti — e forse solo i fautori della trattativa segreta avrebbero potuto disporre di ragioni che tenevano in equilibrio politica e morale. Dico “forse” e dico “avrebbero potuto” perché non voglio imbarcarmi di certo a difendere i trattativisti strumentali. M’interessa la posizione logica, più che le intenzioni reali. O meglio m’interessano le ragioni reali di chi si schierava senza ipocrisie e tornaconti, non di chi anche allora cercava il proprio tornaconto. E mi pare sia legittimo, a distanza di anni e in un libro di filosofia.
    Vengo ora a Ennio Abate, che ringrazio perché mi sottopone un testo che non conoscevo (ma ovviamente sono molti…). Su La Grassa direi queste cose: non posso pronunciarmi, per manifesta incompetenza, sulla sua tesi su Moro e il compromesso storico, se non per dire che mi pare ci sia u punto di vista simile in un recente libro di Galli, con più evidenze. Quindi probabilmente Grassa ha ragione: Moro non voleva affatto il compromesso storico. Sulle molte altre cose che dice – gli orientamenti della dirigenza del PCI di allora, il viaggio di Giorgio Napolitano negli Stati Uniti (cui allude soltanto: ma perché non fare nomi? Io nel libro cito più volte, e con la necessaria sgradevole nettezza, Napolitano: direi che si può farlo tranquillamente) vale lo stesso: non ho le competenze. Ma non riesco a vedere come queste ricostruzioni storiche possano cambiare la natura del problema filosofico che volevo porre, cioè in che modo si conciliano, o non si conciliano, le ragioni morali e politiche di fronte alla trattativa con i terroristi.
    Più dell’articolo di La Grassa, invece, a me pare interessante la nota che riproduce un testo dello stesso Abate. Lì egli sostiene, insieme a Fortini, che l’errore delle Br è stato soprattutto politico, e non morale – o non morale in maniera rilevante. Tutto questo sulla scorta di una visione – “coerentemente marxista” – in cui la morale come interiorità individuale è poca cosa, e quel che conta è la morale che interseca l’azione politica, in nome di scopi come la libertà, l’eguaglianza e così via. Ho dubbi su questa caricatura hegeliana della moralità interiore – ma non sono rilevanti qui. Ma mi pare che Fortini compia un errore a suo modo semplice e diffuso da altre parti (ma debbo leggere per bene il testo che Abate commenta). E’ come se dicesse che i terroristi hanno compiuto un errore politico e morale perché non hanno avuto successo, perché hanno fatto una cattiva «lettura e valutazione dei fattori politici che ha contribuito potentemente alla sconfitta della opposizione di cui [il Partito Armato] era una parte». É una posizione tanto morale e politica di forte oggettivismo conseguenzialista, si direbbe nei testi che leggo io: sono le conseguenze effettive che stabiliscono se un’azione è giusta o no, indipendentemente dalle credenze, dalle intenzioni degli agenti. L’ostetrica che diede alla luce Adolf Hitler è colpevole quanto lui della shoa… In una posizione del genere le ragioni per agire sono sempre ex post, e non ci sono dilemmi. Tutto il mio tentativo è di mostrare che dilemmi invece ci sono, e che ci sono ragioni politiche e ragioni morali in contrasto. Il che, per esempio, implica che le Br potrebbero essere state parzialmente nel giusto nonostante le morti e la sconfitta, oppure potrebbero essere state parzialmente in torto anche se avessero avuto successo. Se non altro, per esempio, quel che dico io implica che persone che pure hanno ucciso e che io non dubito fossero nel giusto – i Resistenti italiani – potrebbero avere avuto rimorsi, e coltivato dubbi, di natura morale, per tutta la loro vita. (E alcuni di loro l’hanno fatto, come sappiamo bene.) So che è ancora un po’ vago. Ma d’altra parte ho provato a dirlo meglio nel libro :-)

  8. Se non ricordo male, all’epoca del rapimento Moro era Presidente della Democrazia Cristiana (oltre che Deputato, ma la sua condizione di parlamentare fu assolutamente secondaria nel dibattito di quei giorni).
    Mi sfuggivano allora e mi sfuggono ancora i motivi per cui questa carica, di nessuna importanza istituzionale, avesse dato luogo ad una frettolosa e credo mai discussa -neanche in seguito- identificazione della sua persona con lo “Stato”.
    Io da ragazzina ne ricavai addirittura l’impressione che a determinare il rifiuto della trattativa fosse anche la ghiotta occasione per i partiti politici di convincere definitivamente l’opinione pubblica che Stato e Partiti esistenti fossero la stessa cosa. Ricavando così da quella vicenda una enorme ri-legittimazione al proprio diritto di occupazione delle istituzioni, e proprio in un periodo nel quale quel diritto cominciava ad essere discusso.
    Ma forse ero una ragazzina particolarmente cinica.

  9. Mah! Caro Gianfranco, a cosa ti riferisci quando dici che Berlinguer vide le ragioni a favore di una trattativa segreta? La trattativa segreta, un sottoprodotto di quella palese, è un modo per salvare capra e cavoli, l’esigenza umanitaria e la ragion di Stato. È quella che si usa fare quando gruppi estremisti rapiscono connazionali all’estero (poi si dice che non è stato pagato alcun riscatto…), oppure è ciò che fece la Dc, qualche anno dopo Moro, per liberare l’esponente democristiano napoletano Ciro Cirillo. Nel caso Moro, la trattativa segreta era la strada voluta dal papa, che era amico personale del presidente della Dc e aveva messo da parte i soldi per pagare un riscatto. Ma le Br puntavano a un riconoscimento politico: dunque questa strada era preclusa. Una forma palese di scambio sarebbe consistita nella grazia da accordare a un brigatista detenuto: fu questa, in quei giorni, l’ipotesi più seria sul tappeto, che, tra l’altro, avrebbe approfondito la frattura nelle Br tra quelli che volevano uccidere l’ostaggio e quelli che volevano liberarlo (Morucci e Faranda). Berlinguer fu – da immobilista politico – per la fermezza dall’inizio alla fine. La vicenda Moro fu un esempio, da parte del Pci, dell’incapacità di fare politica e non semplice moralismo – quello che poi si prolungò nelle dichiarazioni berlingueriane circa la “questione morale”. C’è anche la circostanza che in una mentalità da cui la componente staliniana non era mai stata del tutto cancellata, l’individuo va sacrificato alla ragione politica: ma, questo è il punto, del tutto fuori tempo massimo rispetto alle grandi prove del Novecento (rivoluzioni e simili). Il Pci berlingueriano era un partito che da tempo non puntava a nessuna trasformazione profonda della società, ma restava fermo all’idea vuota del sacrificio dell’individuo avulsa da qualsiasi giustificazione politica. Non so se mi sono spiegato… Lo vedi anche dal fatto che Berlinguer, pur avendo piena consapevolezza di che cosa fosse il sistema sovietico, non riuscì mai a staccarsene in maniera ufficiale.

  10. Caro Rino, come ho detto prima uso il caso Moro come caso di studio, nel libro, senza l’ambizione di dire nulla di nuovo dal punto di vista storico. La mia fonte principale è il saggio che Miguel Gotor include nella sua edizione delle lettere di Moro, pubblicate per Einaudi. In quel saggio Gotor sostiene che la strategia che lui chiama “fermezza pubblica, trattativa segreta” — quella del Papa, per intenderci — sia stata la strategia effettiva, su cui ci fu convergenza da parte di DC e PCI, e in un primo momento anche del PSI, che poi imboccò la strada della trattativa palese. Le prove che Gotor schiera sono molte, e forse non tutte perspicue. Ma te ne cito tre che mi sembrano degne di nota (vado a memoria, non ho il libro con me in questo momento, ma lieto di ricontrollare se pensi sia il caso): 1. sull’atteggiamento del PCI dovrebbero contare le parole di (credo) Pecchioli in un incontro con i membri del governo di allora e gli uomini della DC, parole di questo tipo (cito a memoria): “Fate quel che dovete fare, e non ditecelo”, e i diari di Natta, il quale dice chiaramente che la dirigenza del PCI non si aspettava che Moro finisse come una vittima, o mostrasse particolare coraggio, e rifiutava il paragone fatto da alcuni fra il presidente DC e i condannati a morte della Resistenza. Come Gotor, interpreto queste prese di posizione come ascrivibili anche a Berlinguer. 2. l’esistenza di un cosiddetto “canale di ritorno”, cioè un emissario che faceva arrivare a Moro comunicazioni dall’esterno, e viceversa, che, secondo Gotor, potrebbe essere stato l’ineffabile don Mennini, recentemente ritornato agli onori della cronaca. Ma anche non fosse lui, pare provato che Moro potesse comunicare con l’esterno, e per esempio potesse procurarsi dei documenti da dare alle Br come eventuale lasciapassare per una loro fuga all’estero — almeno sempre stando a Gotor questa ipotesi venne percorsa effettivamente a un certo punto. 3. (e questa mi sembra evidenza di una certa rilevanza), la sparizione di una parte delle carte di Moro e il mutato atteggiamento delle Br a proposito. Gotor dice due cose: la strategia delle Br cambia improvvisamente durante il sequestro: prima minacciano a ogni pie’ sospinto di rendere pubbliche le carte di Moro, poi non ne fanno più parola (tutt’al più dicendo che le avrebbero diffuse in canali clandestini); le carte di Moro, anche attraverso i successivi ritrovamenti a via Montenevoso, non sono evidentemente complete. E’ chiaro che a un certo punto le Br perdono il possesso delle carte. (Gotor lavora anche sul fatto che in via Montenevoso si sono trovate fotocopie delle lettere e del memoriale, o trascrizioni a macchina. Il ragionamento è: le Br trascrivevano a macchina le lettere di Moro e altri materiali, per farli uscire dal covo senza rischi. A via Montenevoso si sono ritrovate solo le trascrizioni, o fotocopie degli originali. Ciò fa sospettare che qualcuno ha preso gli originali, e che non siano state le Br, perché senno’ le avrebbero diffuse, anche successivamente durante i processi, ad esempio. Allora, ho i carabinieri di Dalla Chiesa durante il primo ritrovamento delle carte, o chi ha condotto la trattativa con leBr durante i cinquantacinque giorni del sequestro.) Sulla scorta di questo, Gotor suggerisce che ci fossero in corso due trattative: una avente a oggetto il ricupero delle carte — le carte che Moro aveva con sé al momento del rapimento e quelle prodotte durante la prigionia –, l’altra relativa alla liberazione del prigioniero. Gotor dice chiaramente che, alla luce dei fatti successivi, la prima trattativa ha avuto successo, la seconda no. E ovviamente non si sa perché le cose siano andate così. Su questo io non ho idee o dati miei. Mi sono limitato a usare Gotor.
    Sull’atteggiamento generale di Berlinguer, anche, non vorrei fare una diagnosi generale, per cui mi sento impreparato. Può darsi fosse ancora coinvolto con lo stalinismo, e sicuramente non ebbe il necessario coraggio. Su questo sono molto chiari la biografia di Barbagallo — che mi sembra la meno schierata fra quelle esistenti che ho letto — e il libro di Claudia Mancina. E tuttavia il mio punto nel libro è che, senza pretendere troppa coerenza da un politico che, checché ne dicano i suoi sostenitori, non era certo un intellettuale, alcune delle cose che compaiono nell’intervista a Scalfari dell’81 si possono difendere, in un contesto teorico diverso. Questo contesto teorico è quello che cerco di dare nel mio libretto.
    Infine, un ultimo punto. Tu dici che la “la trattativa segreta” è “un sottoprodotto di quella palese”. Non sono convinto, anche alla luce di quello che tu dici dopo: il problema era appunto il riconoscimento politico che le Br pretendevano. La trattativa palese avrebbe portato a questo riconoscimento, e forse anche la fermezza, implicitamente, vi portava. La trattativa segreta no. E quindi non è tanto un sottoprodotto di quella palese, dal punto di vista logico e politico. E però, se è giusto quel che dice Gotor, non è detto che una parte delle Br non fosse incline ad accettare la trattativa segreta, e non l’abbia di fatto accettata. E, dal punto di vista della mia teoria (nel libro accenno anche un po’ alle possibili giustificazioni del segreto di Stato), la trattativa segreta ha delle giustificazioni, non solo in termini di “salvare capra e cavoli”: potrebbe essere una conciliazione di ragioni politiche e morali che tiene conto del dilemma, senza risolverlo, ma riconoscendolo.
    Grazie ancora molto per le utili riflessioni che mi suggerisci, e spero ci siano occasioni ulteriori per discuterne.

  11. @ Gianfranco Pellegrino

    Avendo tirato in ballo un testo di Fortini, che lei non conosce, mi sento in dovere di riportarlo integralmente. L’ho scannerizzato, visto che non si trova sul Web. E per ora non replico alle sue obiezioni.
    Un saluto.

    *

    NON È SOLO A VOI CHE STO PARLANDO

    La sera di lunedì 21, al Pier Lombardo di Milano, è stata
    data lettura a più voci da Franco Parenti e altri attori di un testo
    scritto nel carcere di San Vittore, col titolo *Labirinto*, da un grup-
    po di detenuti e condannati per terrorismo o partecipazione a
    banda armata (Azzolini, Bellosi, Bonisoli, Fontana, Scaccia e
    Semeria). Li avevo conosciuti due anni fa, nel corso di sette con-
    versazioni che avevo avuto con loro nel carcere milanese, dove
    insieme si cercava di comprendere che cosa fosse avvenuto negli
    anni Settanta. Della serata hanno dato notizia i giornali. Alla reci-
    tazione del testo è seguito un dibattito che per volontà degli
    autori, non è stato politico. È stata partecipata al foltissimo pub-
    blico una lettera del cardinale Carlo Maria Martini. E questa mia
    che segue. Le parole che cito vengono dal cartoncino d’invito,
    sottoscritte dal gruppo degli autori.
    «Non sono presente alla vostra lettura, e me ne rammarico.
    Se ci fossi, non potrei né vorrei fare a meno di intervenire nella
    discussione. Intervenire vorrebbe però dire accettare un terreno
    comune non solo con voi che già con me l’avete ma anche con
    chi, fra gli invitati a discutere, con me non ne ha. Anticipando
    sulle conclusioni di queste mie parole, vi dirò subito che per
    motivi sia politici che morali accetto l’accusa di essere prevenuto.
    Infatti distinguo fra amici e avversari. Ma devo accettare anche
    l’accusa di intolleranza. Perché rifiuto anche tutto quel che può
    rendere meno chiara quella distinzione fra amici e avversari. E la
    mia impressione, forse frettolosa, è che la pubblica presentazione
    del vostro lavoro, di fatto, meno chiara la renda.
    Ma chi mi dà diritto a dirvi che vi sbagliate? In questo
    momento il nostro uso della parola non è fra eguali. Solo in

    apparenza hanno in comune una lingua quelli che sono in galera
    e quelli che non lo sono. Anche per questo, quando ebbero fine,
    due anni fa, le mie conversazioni con voi a San Vittore, sentii (e
    ve lo scrissi) che da parte mia c’era stato un errore di principio.
    La disp arità delle condizioni era troppo grande perché si potesse
    parlare proprio di quel che aveva prodotto tale disparità; ossia di
    interpretazioni della politica e della storia recenti. Probabilmente
    il solo modo di esservi utile sarebbe stato di proporvi argomenti
    scientifici o formali, non problematici.
    Non sono davvero il solo a pensare che nel corso dell’ulti-
    mo quindicennio la grandissima maggioranza dei raggruppamen-
    ti politici ufficiali si è proposta di evitare ogni seria analisi delle
    forze sociali (nazionali e internazionali) che erano fra loro in con-
    flitto nei primi anni Settanta. È stata invece vittoriosamente ela-
    borata e diffusa l’idea che il terrorismo di sinistra (o Partito
    Armato che lo si voglia chiamare) sia stato la conseguenza del
    movimento di opposizione extraparlamentare *perché* extraparla-
    mentare ossia perché estraneo o avverso al quadro delle istituzio-
    ni democratico-parlamentari.
    Così quelle forze politiche si sono esentate dal chiedersi se,
    prima e oltre la scelta pro o contro le istituzioni, non si fossero
    venuti manifestando opposizione e rifiuto di un sistema sociale
    oppressivo e violento, controllato sempre più apertamente dai
    poteri economici, fondato anche su corruzione e furto legali o
    praticati con la complicità di istituzioni dello Stato sempre più
    infiltrate e disposte a vanificare quanto, di regime democratico e
    parlamentare, si lasciava sussistere. Storia di ieri e di oggi, verità
    un tempo chiare a molti che oggi debbono essere di nuovo e con
    fatica riacquistate.
    *Affermato un rapporto di causa ed effetto fra quella opposi-
    zione e l’esercizio della violenza armata si è voluto) reprimendo
    quest’ ultima e manifestandone l’errore) colpire quella e nasconder-
    ne la verità.*
    Per questo le opinioni dominanti – e, mi pare di avere inte-
    so, anche la vostra – giudicano bensì errore politico e sconfitta
    politica l’errore e la sconfitta del terrorismo di sinistra ma imme-
    diatamente dopo identificano la causa di quell’ *errore* in una *colpa*
    ‘ morale, ossia nell’uso della violenza. Ci sono, è vero, coloro che
    sono disposti a considerare le condizioni storico-sociali che negli
    anni Sessanta e Settanta hanno determinato la nascita di una
    opposizione non riconducibile a quella dei partiti storici della
    Sinistra. Ma costoro si lasciano ricattare dal timore che il ragio-
    namento su quelle condizioni possa essere interpretato come giu-
    stificatorio nei confronti dell’esercizio della violenza. Non si è
    voluto vedere che quell’esercizio della violenza (certamente delit-
    to per il codice e colpa per una morale che tale lo riconosca), pri-
    ma o indipendentemente dalle forme sociologiche e psicologiche
    delle esperienze è stato un errore di lettura e di valutazione dei
    fattori politici, errore che ha contribuito potentemente alla scon-
    fitta della opposizione di cui era una partee non una conseguen-
    za (e non era scritto nelle stelle che in ogni caso avrebbe dovuto
    esserlo).
    Una buona parte di voi ha veduto il carcere come la via a
    un integrale rivolgimento interiore. Ma la condizione carceraria
    escludeva la simultanea assunzione delle due opposizioni estre-
    me, quella della fede nell’ assoluto e quella delle opere, come
    radicale impegno terreno. Non rimaneva che la via dell’esame di
    coscienza ossia la via morale. Così è avvenuto che la scelta della
    lotta armata sia stata interpretata come moralmente colpevole
    perché aveva implicato la violenza. Ma se non ci si limita a volersi
    come una banda di assassini o una associazione di indemoniati,
    bisogna spiegare perché, in vista di quei medesimi fini, quella
    scelta era errata. Ciò non diminuisce, anzi aggrava, le responsabi-
    lita morali: ogni errore, in politica, si trasforma in sofferenze e
    rovina per gli altri, e dunque in colpa, ma il pubblico ministero
    non è, in questo caso, la ragione morale ma la ragione politica, i
    giudici sono gli altri non tu solo. Gli uomini che aspettano di
    essere liberati anche da te non sanno che farsene della tua
    coscienza, hanno bisogno della tua azione. ~
    Di questa trasformazione di un quindicennio di vita di tutti
    in una questione di coscienza invece che in una questione di
    conoscenza e azione, non davvero siete voi a portare la responsa-
    bilità, sia ben chiaro. La responsabilità è soprattutto di coloro
    che, fuori dei carceri e dei processi, hanno rimosso quanto pure
    potevano avere intravisto o capito. Che hanno assunto l’inganne-
    voIe mito delle mani pulite, della buona coscienza e della tolle-
    ranza repressiva, ringraziando il Signore o la Sorte di non averli
    fatti come quei peccatori e violenti.
    Grazie a costoro e più ancora ai tanti che dagli strumenti di
    informazione hanno per più di un decennio alternato cinismo a
    emozione, realismo politico a pure menzogne, i nuovi giovani
    ignorano chi siano stati, nel bene e nel male, i loro padri o ne
    conoscono solo quel tanto che, volto in volgarissimo spettacolo,
    li frastorna con le scadenze anniversarie.
    Qualsiasi forza intellettuale e politica si organizzi come
    avversa ai modi già costituiti di espressione degli interessi e delle
    volontà viene immediatamente denunciata come complice o apo-
    logeta o imitatrice del terrorismo. Qualsiasi riflessione storica o
    o teorica sul ruolo e sul significato della violenza nella storia umana
    che non si concluda con la celebrazione e l’esaltazione del regime
    di democrazia parlamentare quale supremo vertice della umana
    convivenza (e con la condanna della ricerca di ogni altra via) è
    riprovata come opera di corruzione. Proprio quella che mi glorio
    di esercitare, come e quando posso, ormai da cinquant’ anni, da
    quando nella vita ho cominciato a esperimentare in prima perso-
    na la violenza dei conflitti delle classi.
    Quando voi scrivete che la coscienza politica è oggi per voi
    «uno specchio di illusioni presto infranto dalle delusioni» e che
    quel che in voi non si è spezzato è «l’essere umano che dovrebbe
    abitare in ciascuno», voi dite esattamente queI che i peggiori
    nemici degli uomini oggi s’aspettano da voi. Dite che non questa
    o quella attività politica sarebbe illusoria ma l’ attività politica in
    sé cioè qualunque sforzo organizzato diretto a modificare lo stato
    di cose esistente? Ditelo: e vi concederanno, va da sé, il diritto di
    partecipare alla attività politica oggi gestita dai partiti politici
    rappresentati in parlamento, dagli organi di stampa e di informa-
    zione e dai gruppi che detengono, col potere economico, il con-
    trollo politico e il potere di quelli e di questi. Spero non vi basti.
    Che cosa sia poi quell’uomo, quell’essere umano di cui par-
    late, quando a quello sia tolta la dimensione dell’ azione comune
    per la solidarietà, la giustizia, la libertà e 1’eguaglianza, io non rie-
    sco davvero a immaginarmelo. Che cos’è un uomo ridotto alla
    mera dimensione della interiorità morale? Ho dalla mia, per non
    nominare i massimi cristiani, Marx, Nietzsche, Freud e Sartre.
    Essi mi rassicurano: deve trattarsi dì una canaglia. O di una vitti-
    ma. E che cosa vogliono infatti da noi i custodi della eticità di
    stato, se non fare di noi delle canaglie o delle vittime?
    Se non si accetta che tra il momento politico e quello mora-\
    le c’è una incessante tensione e implicazione reciproca, ne viene
    che l’unica altérnativa polare al momento politico è la posizione
    religiosa. Manzoni lo sapeva. Ma proprio perché la sfera formale
    è intermedia fra il contingente e l’assoluto, fra la pratica e la voce
    dell’’Altro è inevitabile che ogni partecipazione della coscienza
    religiosa alla «rnondanità» faccia uso della mediazione della
    morale. Accade lo stesso anche quando al momento propriamen-
    te religioso si sostuiscano miti ideologici, sottratti a ogni verifi-
    ca, che si presentino magari come puramente «politici». È
    impossibile sfuggire al momento moraIe. Ma guai a chi non ne
    avverte la precarietà, l’ambiguità, l’inganno latente. ”
    Oggi non credete in quello in cui avete creduto ieri? È suc-
    cesso anche a me. Ma se credete che questo mutamento delle
    vostre persuasioni si legittimi con ragioni sbagliate, vi sbagliate.
    Ve lo dissi due anni fa e ve lo ridico oggi. Con vergogna
    mia. Perché neanche per un momento dimentico quanto sia
    odioso e persino ripugnante questo mio discettare sulle vostre
    esistenze di carcerati. Per poter resistere e sopravvivere nell’indi-
    viduale mentale e corporeo o negli affetti dei vicini, nel vostro
    combattimento sacrosanto per riacquistare la libertà (sacrosanto
    perché non dobbiamo mai dimenticare che tutte le carceri
    dovranno sparire) voi siete indotti a fingervi sciolti dalla società
    politica degli uomini. Potete illudervi che vi sia una verità inte-
    riore «umana» da contrapporre a quella infinita maggioranza di
    uomini che anche di voi, di voi «privati» e «pubblici», ha biso-
    gno per limare le proprie catene. Ma codesta illusione sarebbe
    solo la prova più certa della feroce vittoria che il dominio ha
    riportato su di voi, e quindi su tutti noi.
    *Quello che i nostri invisibili ma non inesistenti padroni vi
    chiedono, o che voi credete di dare spontaneamente, non è già il
    pentimento da azioni criminose o colpevoli né tanto meno l’auto-
    critica di errori politici; è la accettazione, la sottoscrizione, di una
    idea generale di che cosa umano sia e di che cosa non lo sia; e
    implica di farvi dichiarare vano anzi dannoso miraggio non solo la
    prospettiva politica che fu la vostra ma qualsiasi prospettiva politica
    non delegata ossia la coscienza della attiva e immediata correspon-
    sabilità di tutti nei destini generali.
    Non credo sia giusto pretenderlo da voi. Né io dovrei par-
    larvene (anche se, in una certa misura, non è a voi soli che sto
    parlando). Perché, anche se voleste rispondermi, non potreste.
    Una parte del linguaggio vi è stato distrutto; e anche una parte
    del mio. Eppure le sole risposte che per me conterebbero sono le
    vostre, non quelle di chi, come me, stasera non rientra dietro i
    vostri cancelli… E.dunque non mi resta ora che abbracciarvi».

    24 marzo 1988

    ( da F. Fortini, «Disobbedienze II. Gli anni della sconfitta. Scritti sul manifesto 1985-1994, pagg. 35-39, manifesto libri, Roma 1996)

  12. Caro Abate, le sono grato per aver riprodotto integralmente il testo di Fortini, che non conoscevo, come le ho detto (sto cercando di procurarmi il volume). E’ un testo molto interessante (e anche molto bello, come c’era da aspettarsi), che allarga il discorso, e rende forse sfocate e troppo nette le mie osservazioni precedenti, che si basavano solo su poche righe. Mi sento anche un po’ in colpa per l’avventatezza di averle fatte. Ma tant’è….
    Epperò alcune impressioni mi sentirei di confermarle anche dopo aver letto questo testo. Le elenco brevemente, per chiunque fosse ancora interessato a questa discussione.
    Fortini considera la posizione di chi ritiene che la causa dell’errore politico del terrorismo di sinistra fosse in una colpa morale, nella colpa di aver fatto ricorso alla violenza. A questa posizione fa le seguenti obiezioni: a. si tratta di un errore politico, in particolare “un errore di lettura e di valutazione dei fattori politici, errore che ha contribuito potentemente alla sconfitta della opposizione di cui era una parte”; b. si tratta di un errore anche morale, ma è un errore morale perché politico. Qui conviene citare un passo più lungo: “è avvenuto che la scelta della lotta armata sia stata interpretata come moralmente colpevole perché aveva implicato la violenza. Ma se non ci si limita a volersi come una banda di assassini o una associazione di indemoniati, bisogna spiegare perché, in vista di quei medesimi fini, quella scelta era errata. Ciò non diminuisce, anzi aggrava, le responsabilità morali: ogni errore, in politica, si trasforma in sofferenze e rovina per gli altri, e dunque in colpa, ma il pubblico ministero non è, in questo caso, la ragione morale ma la ragione politica, i giudici sono gli altri non tu solo. Gli uomini che aspettano di essere liberati anche da te non sanno che farsene della tua coscienza, hanno bisogno della tua azione”; c. il rifugio nella mera interiorità, nel rimorso morale, e l’assunzione della prassi parlamentare come unico orizzonte sono elementi di conservazione — e ai terroristi si richiede di rinunciare all’autentica spinta al cambiamento che li muoveva per rientrare nell’alveo della politica parlamentare: costoro non dovrebbero accettare queste richieste; d. la politica e la morale non possono che essere opposte, talvolta o forse molto spesso, senno’ si cade in un inerte fatalismo o conservatorismo politico, con la religione come unica alternativa all’esistente (ma un’alternativa come la religione è una vera alternativa?): “se non si accetta che tra il momento politico e quello morale c’è una incessante tensione e implicazione reciproca, ne viene che l’unica alternativa polare al momento politico è la posizione religiosa”. A queste tesi Fortini aggiunge una riflessione sulla condizione dei terroristi in carcere e sull’asimmetria che distingue lui, e noi, liberi e loro. Di quest’ultimo punto non parlerò, se non per dire che sono del tutto d’accordo sul fatto che “non dobbiamo mai dimenticare che tutte le carceri dovranno sparire”.
    Ma in realtà, fatta ammenda della differenza del linguaggio, credo di essere d’accordo con molto di quel che dice Fortini. Come ho già detto, fatico a capire perché Fortini presenti la moralità prima esclusivamente come questione di coscienza e interiorità, e poi anche come questione d’azione. Ma non mi pare che egli rifiuti l’idea che la morale abbia abbia che fare con la politica (che è la tesi centrale che cerco di difendere nel mio libro). Io sarei d’accordo con a. e b., e non mi pronuncerei su c. (anche se tenderei a concordare anche con questa tesi). Ma la tesi più interessante mi pare l’ultima. Fortini afferma che politica e morale s’intersecano e spesso non possono che essere in tensione. Cercando di tradurre: ovvio che la violenza è immorale, ovvio che a volte certe azioni politiche creano sofferenze (lo dice Fortini un po’ prima), e ovvio che in questi termini la politica va giudicata. Ma è inevitabile che sia così: bisogna vedere se il tribunale della politica dice che la bilancia pende dalla parte della giustizia, della libertà e dell’eguaglianza. Se è così, allora ci sono ragioni politiche che giustificano anche quel che le ragioni morali non giustificano.
    Ora, se questo è il quadro, io non ho nulla da eccepire: chi neghi un quadro del genere, dicendo che le ragioni morali non hanno senso dal punto di vista politico, e la politica è del tutto immune da considerazioni morali, o al contrario che le ragioni politiche debbono sempre piegarsi alla moralità difende le posizioni che nel libro chiamo rispettivamente realismo e moralismo politici. L’etica pubblica si distanzia da queste posizioni. L’unica cosa che io aggiungerei è che quel residuo irrisolto che certe volte agire per ragioni politiche lascia, quel rimorso per aver dovuto compiere azioni immorali, non è indifferente — non è frutto di una interiorità estenuata, ma può avere, esso stesso, rilevanza . E non è difficile neanche vedere che questa rilevanza ha a che fare con le azioni, che tanto premono a Fortini. Che non ci sia una vittima in più del necessario per ottenere i giusti fini politici, o che addirittura ce ne sia una meno, o che del perimetro della giustezza — dell’eguaglianza e della libertà — facciano parte tutti, oppressori che diventano vittime e oppressi che lo sono sempre stati, sono cose che derivano dal senso morale di chi percepisce con esattezza tanto ragioni morali quanto ragioni politiche. La sofferenza dell’oppresso è anche la sofferenza di macchiarsi dello stesso vizio dell’oppressore, perché nessuno se ne macchi più — e l’oppresso ha un senso della misura che è intrinsecamente morale. Senno’ non vedo perché, di nuovo, non si debba dire che i terroristi hanno sbagliato solo perché hanno perso.

  13. Un discorso sulla violenza? Evidente che Fortini, in quel messaggio, se la prendeva con l’aria di generale “pentitismo” che cominciava a circolare. Ma c’è qualcosa di non detto perché – in quel momento e da Fortini – non dicibile. La violenza dispiegata dalle Br fu stupida dall’inizio alla fine: mimetica non solo nei confronti della violenza circolante nella società ma (addirittura) nei confronti della storia delle rivoluzioni, reali o presunte, del Novecento. Il terrorismo delle azioni mirate, fatte per “disarticolare” il sistema, su persone inermi non è una pratica assente dalla tradizione anarchica e comunista-bolscevica (tra parentesi, il leninismo ha ereditato moltissimo da alcune delle componenti più settarie del populismo russo). Nella mitologia delle Br c’era poi la guerriglia urbana sudamericana, già allora arrivata al capolinea. Insomma era tutto un copiare, non uno straccio di riflessione sulla rivoluzione in Occidente (nemmeno su Rosa Luxemburg, per dirne una). La colpa delle Br, prima ancora che politica, fu quella di un’estrema ignoranza. Avete visto in tv i vari esponenti del “partito armato”? Siete riusciti a trovarne uno intelligente? Anche il pentimento successivo fu una specie di Dostoevskij dei poveri: un passaggio alla religione di pura imitazione. Così la loro più grande colpa non fu affatto politica ma proprio morale. Perché tentare di essere intelligenti non è un problema di materia grigia ma di impegno morale, preliminare a ogni politica.

  14. Ma, i brigatisti oltre a essere violenti erano anzitutto scemi. Qui l’errore di Fortini e della discussione è di pensare che ci sia da una parte la morale, e dall’altra la politica, e che poi i piani si intersechino. Non funziona così. Morale e politica sono la stessa cosa, ogni comportamento umano è interessato dall’aspetto morale ed emotivo e di conseguenza ogni comportamento politico sarà motivato e interessato dalla sfera morale, che non è una cosa appesa in cielo, ma una caratteristica innata della specie umana, che condividiamo con altre. I brigatisti hanno sbagliato su tutta la linea, e non capisco perché ancora se ne parli. Dei terroristi neri non si parla così tanto, poiché a ragione vengono confinati nella sfera del disagio mentale. Perché con quelli di sinistra non avviene la stessa cosa? Perché questa presunzione a sinistra, di credersi speciali solo perché si è letta, e male, qualche paginetta di Marx?

    Quanto al caso Moro, a me stupisce che si dia per scontato che la linea della fermezza poggiasse su un assunto vero, cioè che solo in quel modo si compiva il bene pubblico, la salvaguardia dello Stato. Mancando di controprova è una pura ipotesi. In ogni caso solo un mentecatto può pensare di definirsi realista politico.

    Sono invece curioso di capire il senso della frase “le carceri dovranno sparire”.

  15. Caro DFW vs RB,
    guardi però che tra i “mentecatti” c’è parecchia gente che a prima, e anche a seconda o terza vista, tanto mentecatta non sembra: per esempio Machiavelli, Hobbes, Pareto, Michels, Mosca, Schmitt, Freund, Miglio (e qui mi fermo per non fare l’elenco telefonico dei realisti politici).
    “Realismo politico” vuol dire tante cose, anche molto diverse tra loro. Liofilizzando, il minimo comun denominatore direi sia questo: persuasione che il conflitto, compreso il conflitto a morte, sia un dato permanente, ovvero una *regolarità* della storia e della politica; e che questa regolarità non sia superabile per mezzo di una trasfigurazione dell’uomo in *uomo nuovo* e/o di un nuovo ordinamento sociale che superi definitivamente la dimensione del conflitto a morte interno ed esterno alle comunità.
    Quanto ai brigatisti o ai terroristi neri, dire che sono stati “stupidi”, come fa Genovese, o disagiati mentali, come fa lei, non mi sembra la via migliore per comprendere, nè loro, nè noi, nè altri.
    Personalmente, do un giudizio fortemente negativo degli uni e degli altri, e lo posso argomentare nei dettagli.
    Però, dentro quella stupidità o quel disagio mentale c’era del metodo, come nella follia di Amleto; e guardarci dentro senza disprezzo – che è spesso indice di un pericoloso, fuorviante senso di superiorità – può offrirci uno scorcio interessante su panorami dell’anima umana che forse non figurano sulle guide turistiche, ma meritano tuttavia d’essere visti e meditati (anche per non sbagliare strada e capitarci anche noi).

  16. @ Buffagni

    io mi sono riferito a questa definizione, cioè quella proposta da Pellegrino: “Secondo i realisti politici la politica è totalmente svincolata dalla moralità e costituisce una sfera del tutto indipendente e autonoma”

    Secondo la sua invece, non parlerei di “mentecattismo”, non mi permetterei, al limite di semplice errore d’analisi. i dati storici ci dicono chiaramente che i conflitti mortali sono diminuiti nel tempo, proprio in virtù di cambiamenti sociali, che piuttosto che cambiare l’uomo, cambiano le condizioni, per cui la violenza perde la sua ragion d’essere (semplificando). Quindi il conflitto come espressione degli interessi in conflitto potrà essere una costante, ma il conflitto mortale cambierà di grado.

    Circa i brigatisti, non sono sprezzante, non c’è niente di male nell’essere stupidi, posso esserlo io stesso. Così come non disprezzo il disagio mentale, anzi. Ma appunto per capire i loro comportamenti a quello farei riferimento. Invece vengono compresi nel piano politico, cosa sbagliata. Fortini invece di abbracciarli avrebbe dovuto ammettere che parlare di sistema opprimente e violento non aveva senso, e che concetti come lotta di classe eccetera sono sbagliati e traviano le persone mentalmente instabili.

  17. a DFW vs RB
    Definire “realismo politico” non è facile. La definizione che ha datoPellegrino, certo senza pretesa di esaustività, è una buona definizione – incompleta – anzitutto del machiavellismo. Incompleta, perchè Machiavelli non nega affatto il ruolo e l’importanza della morale nelle vicende umane, e dunque anche politiche; descrive però la politica *così com’è*. Cerca di individuare le leggi, o regolarità, che governano l’azione politica come effettualmente si svolge. E’ poi altrettanto vero che in tutte le società umane, accanto al conflitto e all’inganno ci sono anche la cooperazione e la fiducia, senza le quali neanche una banda di criminali riesce a funzionare.
    La sua affermazione in merito ai conflitti che diminuiscono mi lascia un po’ stupito; lo pensa perchè di recente non si sono date guerre mondiali delle dimensioni delle ultime due? Se è così, le dirò che il fatto non mi pare indicativo di una tendenza alla mitezza che si starebbe affermando nella storia dell’uomo.
    Se devo cercare una causa di fondo per l’assenza di conflitti dell’ordine di grandezza della IIGM, io farei piuttosto appello al realismo politico e terrei in considerazione la novità storica dell’armamento nucleare.
    Quanto a Fortini, etc. Guardi che la lotta di classe esiste eccome. Quel che pare non esistere è la trasformazione sociale salvifica da essa risultante secondo la previsione marxista.

  18. Caro DFW vs RB, la definizione di realismo che presento, nei miei commenti e nel libro, è quella di Carl Schmitt, che viene alcune righe dopo le parole sul conflitto che Buffagni riassume, presenti in un noto scritto intitolato “Il concetto del politico” (ne discuto a lungo nel mio libro). Secondo Schmitt dalla tesi sul conflitto discende l’autonomia del politico; quindi la definizione di Buffagni e la mia si implicano, e la mia è la definizione generale discussa nel dibattito contemporaneo. Ma non è questa la sede per l’esegesi schmittiana mi sa — anche perché non riesco molto a lavorare con categorie interpretative come “scemenza” o “mentecattismo”, né mi trovo a mio agio con l’idea che “concetti come lotta di classe eccetera sono sbagliati e traviano le persone mentalmente instabili”. Diciamo che posso anche discutere di concetti sbagliati, o falsi. Le questioni dell’impatto di questi concetti sulle menti, e le patenti di sanità mentale, invece forse le lascerei a professionisti della psichiatria — e forse neanche a quelli, sperabilmente. Ma questo è un altro discorso, piuttosto simile a quello delle carceri che andrebbero abolite.

  19. @ Pellegrino

    Oh, come varrebbe la pena, parlando degli anni Settanta in questa Italia d’oggi, rileggere quanto scrisse Fortini su Moro, le Brigate Rosse, l’Autonomia, il compromesso storico, Moro, il rapporto tra morale e politica! Fu uno dei pochi a sfuggire a quella «viltà degli intellettuali» che, come in tempi precedenti, ne azzittì buona parte e dei più in vista.
    Ora, siccome lei mi pare uno studioso serio, ho raccattato a memoria e non in modo sistematico un po’ di testi da esaminare:

    1. Sul rapimento di Aldo Moro (da «Quotidiano dei lavoratori», 18 marzo 1978, ora in «Un dialogo ininterrotto. Interviste 1952-1994», pag. 221, Bollati Boringhieri, Torino 2003

    « Rifiuto di associarmi al coro unanime che dall’«Osservatore
    Romano» al «Corriere della Sera» passando per «l’Unità» chiede
    di non sottilizzare, di non distinguere, di non offrire coperture
    degli intellettuali al terrorismo.
    Il coro domanda in realtà la sospensione del giudizio critico.
    Vuole atti di fede. lo non li compio. Non ho nessuna difficoltà
    a chiamare assassini degli assassini e a ritrarmene con orrore, ma
    rifiuto il tentativo di usare le parole unità, democrazia, nazione,
    bene pubblico come copertura di una azione politica, cioè di quella
    che ha portato ad un governo senza opposizione dove convivono i
    rappresentanti degli sfruttatori e degli sfruttati, gli interessi degli
    assassini e quelli degli assassinati, nella precisa proporzione in cui
    il mio dissenso dalla politica del compromesso storico non ha al-
    cuna presente alternativa politica da indicare, il mio dovere, in se-
    de strettamente politica, è di tacere.
    Ma siccome non c’è solo quella, ho anche un altro dovere, cer-
    care di interpretare i sentimenti di coloro che non hanno alterna-
    tiva a riconoscersi negli attuali stendardi politici. Ero in piazza del
    Duomo nove anni fa quando la classe lavoratrice chiese verità, giu-
    stizia intorno alle vittime di piazza Fontana, non permetto a nes-
    suno di invocare la folla di ieri come un alibi per continuare quella
    giustizia, a non farla o per arnministrarla con la medesima polizia
    e con la continuità del regime.
    Un poeta ha scritto che alla liberazione di Parigi nel ’44, per non
    colpire i colpevoli si rapavano delle puttane, io oggi dico che per
    non colpire i colpevoli si dice alle folle di scendere in piazza per sde-
    gnarsi sugli assassini e per siglare il patto di maggioranza. Bene, io
    voto contro».

    2. «Note per una falsa guerra civile»(il manifesto 4 settembre 1977, ora in «Disobbedienze I. Gli anni dei movimenti. Scritti sul manifesto 1972- 1985, pagg. 168.175), manifestolibri, Roma 1977)

    Non posso riportarlo per intero. Mi limito a sottolineare alcuni punti. A Valentino Parlato, che vedeva il “farsi Stato” del PCI ( la «inserzione del Pci nella maggioranza») come un segno della «presente rivoluzione» o a Paolo Volponi, il quale scriveva che per gli intellettuali non ci sarebbe stata «”indulgenza” se oseranno ancora diffondere dubbi e perplessità» nei confronti del nuovo orizzonte politico, Fortini obiettava: « Se, nell’immediato avvenire, il “compromesso” dovesse procedere come è proceduto finora altro che riscoperta dei principi dell’89. Trent’anni di regime democristiano, dieci anni di italo-stalinismo, dieci di togliattismo, dieci di lotte alla Nuova sinistra non consentono illusioni sulla democrazia italiana».

    Il clima pesante d’allora ( lasciamo stare il “profetismo”) si coglie bene in parole come queste:
    «E la fine verrà a poco a poco. Forse è già venuta. Non appena qualcuno avrà avuto l’orrenda idea di seviziare la vittima di un sequestro politico, sapremo che nel nostro paese staranno per aprirsi delle camere di tortura seicentesca. Allora ci ricorderemo di come, in nome dell’orario e della autorità, del pluralismo e del compromesso, si fecero le parti uguali fra diseguali, si è lasciato che i parlamentari parlassero quanto gli studenti, i sindaci quanto gli amministrati, gli imprigionatori quanto gli imprigionati, i vecchi quanto i giovani, i forti quanto i deboli. Pietà sarà morta ancora una volta. E per non essere stato preceduto da un pensiero più organico e da una prospettiva più esatta di quella dei nemici, l’eccidio delle due parti non servirà a nulla » (171)

    Nello stesso scritto fa una fondamentale (per me) difesa degli intellettuali critici che sono « agenti di una funzione insopprimibile; che è impossibile assimilare all’esperto, allo specialista, allo studioso, all’artista o allo scrittore in quanto tali» (p. 174)

    3. «Quindici anni da ripensare» (1984) in «Insistenze», Garzanti, Milano 1985

    Consiglio una lettura attenta di questo scritto, perché alcune sue residue perplessità, rimaste anche dopo la puntuale lettura che lei ha fatto del testo di Fortini da me proposto in un precedente commento, potrebbero essere sciolte.
    Specie quando si riflettesse sul fatto che per Fortini, sempre attento a contestualizzare storicamente le sue convinzioni morali e politiche, in quegli anni Settanta, per l’indebolimento della “nuova sinistra” e la scelta definitiva del PCI a favore del compromesso storico, non si scontrarono più due visioni morali/politiche contrapposte e strutturate da un solido pensiero, ma si ebbe soprattutto una gravissima “abiura” della tradizione marxista. Per cui buona parte dei militanti della sinistra e della nuova sinistra di allora abbandonarono volontariamente (o persero) i riferimenti morali e politici che potevano garantire l’indipendenza del loro impegno. Uno degli esempi più vistosi ( ma non il principale…) di questo disastro culturale e politico fu proprio quello dei “pentiti” di cui si è detto.
    Il punto decisivo del ragionamento di Fortini è detto con chiarezza in questo passo che trascrivo:

    «Lo so bene. Anche chi (o forse: soprattutto chi) sfruttamento, sopruso, violenza, oppressione di classe subisce da sempre, replicherebbe che, meno storie, è orribile e mostruoso (e quasi sempre inutile) ammazzare il prossimo, foss’anche un nemico. Ma tale sacrosanta affermazione procede, non è inutile ricordarlo, da un insegnamento religioso prima che da uno «umanistico». Un insegnamento che ebbe ed ha una sua precisa e complessa sistemazione (sottratta o laterale al potere e al sapere «civile») dei rapporti fra colpa originaria, natura vulnerata, confessione, pentimento, assoluzione, redenzione, divina promessa. Nel cristiano, il raccapriccio per l’assassinio, ha o dovrebbe avere, un fondamento che la tradizione umanistica e illuministica (kantiana, per intenderci) ha ereditato, mal celandone tuttavia l’origine, che è nella trascendenza; onde ha subito un secolo di critiche, da Marx a Nietzsche e a Freud e oltre e fino a noi, che non possiamo fingere inesistite. Ebbene, chiedere ai dissociati di riconoscere che la democrazia è un valore assoluto non è molto diverso dal chiedere loro il «giuramento» proposto dal ministro della Giustizia o certe dichiarazioni o firme antiterroristiche che furono domandate o proposte qualche anno fa nell’ambito sindacale e di fabbrica. Con una differenza grandissima: che il cattolico collega coerentemente morale, religione e diritto e rimanda al Vangelo e alla dottrina della chiesa; mentre il comunista italiano di oggi si è preclusa la possibilità di rinviare non solo ai testi e ai metodi marxisti ma persino a tutta una arte della riflessione sullo stato e sulla violenza che è all’origine della borghesia. Su questi argomenti Hegel, Marx e Lenin avevano opinioni assai diverse da quelle di Locke, Stuart Mill o Bobbio o, diciamo, dai teorici del costituzionalismo liberale. Onde la posizione che si può inferire dall’atteggiamento politico dei comunisti in materia di legislazione speciale e di «dissociati» oscilla fra l’idea di «stato etico» o di «legalità socialista» (varianti dello stato confessionale) e quella di stato «di diritto», fondato su di un patto sociale, sul diritto scritto, le «carte», la forma giuridica. Oggi questa seconda tendenza può sembrare a molti indispensabile per uscire da posizioni che altrimenti – ci insegnano anche i peggiori *nouveaux philosophes* – ci dovrebbero portare difilato ai *gulag*. Ma credo di aver passato lo scorso trentennio, lo confesso senza pentimento, a imparare e insegnare partendo dal pensiero di Hegel, Marx, Lenin, Trockij, Gramsci, Mao, Lukàcs, Sartre, Adorno. Da costoro ho appreso che non si oltrepassano i criteri giuridici della società illuministico-borghese – con le sue guerre, ben peggiori dei gulag – senza una modificazione radicale dei rapporti di produzione e di proprietà. Tale modificazione induceva quelle introdotte nel processo penale, della Russia anni Venti, poi degenerate nella inquisizione ideologica stalinista: vi assumevano ruolo primario l’indagine sociale sull’imputato, la «legalità socialista», la confessione, l’autocritica. Non credo certo che per uscire dalla legalità borghese si debba ripercorrere necessariamente quel cammino. Ma quella direzione, sì. E se tali prospettive marxiste le consideriamo solo invecchiate, assurde, sporche di sangue e generatrici di intolleranza, di corruzione burocratica e di ospedali psichiatrici per dissidenti, benissimo, si torni allora allo stato di stretto «diritto»; ma vi si torni davvero, se mai è esistito, e ci si risparmino allora le leggi eccezionali, le «perdonanze» e i sermoni sul «bene comune»»

    (pagg. 223-224)

    4. «Bologna, Pajetta, Brigate Rosse» (in F. Fortini, «Un giorno o l’altro», p. 517, Quodilibet, Macerata 2006)

    « Ad un giovane avvocato che per aver assunto la difesa di gente delle Bri-
    gate Rosse è stato sospettato di connivenza, incriminato, arrestato e dopo
    non breve detenzione, rilasciato il deputato che era G. Pajetta ha chiesto,
    con replicata energia, se considerava o no reati, anzi veri e propri crimini,
    certi atti di violenza armata contro privati cittadini e forze dell’ordine. L’in-
    terlocutore, incalzato perentoriamente («Risponda: sì o no?») mentre cer-
    cava di spiegare che le proprie opinioni non avevano a che fare con i dove-
    ri della difesa e che comunque non si sarebbe dovuto rispondere con un sì
    o con un no, ha finito col rispondere di sì. Il deputato era molto soddisfat-
    to. Aveva lasciato ad intendere agli spettatori quali fossero le simpatie ideo-
    logiche del giovane avvocato. Aveva fornito ai magistrati un supplemento
    di istruttoria. Aveva svergognato l’estremista, vile oltretutto per non aver
    osato farsi apologeta di reato.
    È stato anche un esempio di come si viola pubblicamente la libertà di
    pensiero; che è anche libertà di non esprimere il proprio pensiero e di non
    dire la verità. (Libertà, quest’ultima, che il nostro processo, fuor che per i
    testimoni, prevede). La risposta corretta – ma chi l’avrebbe intesa – sareb-
    be stata, credo: «Il comportamento di cui lei, onorevole, mi parla è consi-
    derato reato dalla legge. Negare che lo sia o lo debba essere, può equivaÌe-
    re a farne apologia, a violare la legge. Non intendo farlo. Quindi non
    contraddico qui la definizione giuridica di quei comportamenti; ma, se lei
    chiede quale è il pensiero mio, le rispondo che la Costituzione mi dà il dirit-
    to di non risponderle».

    […]

    Le domande del deputato si ritengono legittimate da un consenso gene-
    rale, secondo un criterio morale medio. Chi negherebbe che sia criminale
    sparare sul prossimo, fuor che nei casi di legittima difesa? Le persone one-
    ste non dovrebbero avere esitazioni. Il deputato fa riferimento al senso
    morale dei più. E non si sbaglia.
    – Ma non fu così negli anni della sua resistenza al fascismo, per cui lo ono-
    riamo. Non è stato e non sarà mai così, in tutte le lotte che oppongono una
    legge nuova a una vecchia, una minoranza armata anche «dei propri dolo-
    ri» a una maggioranza. Quelle minoranze, il consenso morale dei più non
    possono che supporlo o rinviarlo. Non perciò siamo fuori dalla sfera del-
    l’etica. Invece di riferirsi a un sentimento generale o al criterio della gente
    onesta, il gruppo sceglie se stesso come fondatore (o restauratore) di «nuo-
    vi doveri». Sceglie una parte e la elegge a figura del tutto. Si richiamerà ai
    «veri» italiani, ai «proletari», ai «ribelli», ai «dissidenti». Al limite sarà la set-
    ta di Necaev o la banda di Pisacane.
    Insisto a dire che l’appello alla eticità («Dichiara dunque criminali le
    imprese delle Brigate Rosse!» è formalmente identico tanto se si indirizza
    ai sensi morali della grandissima maggioranza quanto se parla a quelli di una
    scarsa minoranza («Dichiara dunque, almeno in cuor tuo, che l’uccisione del
    capo fascista, quale eseguiremo domattina primo febbraio I944, è sacro
    dovere del patriota, del rivoluzionario ecc» ).
    I codici di uno stato proiettano nei loro contenuti prescrittivi e impera-
    tivi una specifica fase dei rapporti di produzione e quindi dei criteri etici del
    corpo sociale. Non li esauriscono; né lo vogliono, fuor che nei casi estremi
    dei regimi teocratici e assoluti. Sono tenuto ad osservare la norma giuridi-
    ca in quanto cittadino, in quanto titolare dei diritti alla libertà di pensiero
    (o di parola, o di stampa) posso dissentire dalla formulazione della legge e
    soprattutto dalla concezione (del mondo che la ispira; salva la, e d’altronde
    controversa, ipotesi di apologia di reato. Tutto questo comporta duplicità e
    ipocrisia? Certo, è il prezzo del cosiddetto «stato di diritto».
    Come chiunque abbia vissuto in una permanente tensione etico-politi-
    ca, con le sue domande appassionate il Deputato rivendica dunque il senso
    morale, non quello giuridico, della questione. Coerente con se stesso, pro-
    nuncia le medesime parole che avrebbe avute trenta o quaranta anni or
    sono, anzi quelle appunto che diciassettenne pronunziò di fronte al Tribu-
    nale Speciale. Ma la storia del mondo e quella del suo partito hanno muta-
    to valore proprio a quelle parole. Come nel 1958 G. Pajetta ebbe a scrivere
    (e io puntigliosamente a chiosare), il comunista educato alla scuola della ,
    Terza Internazionale poteva, fra la verità e la Rivoluzione, scegliere que-
    st’ultima (e oggi sappiamo che troppi di coloro non ebbero né l’una né l’al-
    tra, ma la morte per mano di compagni o la menzogna organizzata e salda-
    ta alle meningi»

    (pagg. 515- 520)

    È esatto dire, come fa lei, che anche per Fortini «la morale abbia che fare con la politica (che è la tesi centrale che cerco di difendere nel mio libro)». Con qualche precisazione. Fortini di certo non era per la netta separazione tra morale e politica, né alla Machiavelli né alla maniera del pensiero tragico.
    Questo secondo aspetto lo spiega bene Daniele Balicco nel suo «Non parlo a tutti, Franco Fortini intellettuale politico», manifesto libri, Roma 2006, quando commenta la recensione al saggio di Lucien Goldman «Le Dieu caché», pubblicata da Fortini alla fine del 1956 su «Ragionamenti». Eccone ancora uno stralcio:

    «Il problema teorico che il libro approfondisce riguarda il
    superamento marxista dell’interpretazione tragica dell’esistere,
    nella dialettica come forma del conoscere, nella conquista di
    totalità parziali come fine dell’ agire.
    Il pensiero tragico, e in particolare quello giansenista di
    Pascal e Racine, vero oggetto del saggio, divarica come assoluta
    la contraddizione fra soggetto e mondo, fra pensiero e azione,
    collocando l’esperienza umana sotto la sovranità inconoscibile
    del divino. In un universo così curvato, è esclusa a priori tanto la possibilità di un riconoscimento interumano, quanto la comprensione razionale del fine dell’ esistere, che non può darsi che come «scommessa», fede irrazionale.
    Se l’essenza del tragico costruisce dunque un mondo di contrasti assoluti, fuori dal tempo e in nessun modo conciliabili, lo sviluppo del pensiero dialettico, all’opposto, riconosce la contraddittorietà dell’ esistere come dato; ne cerca semmai la razionalità, essendo una forma di conoscenza che si sviluppa erodendo la natura assoluta dei contrasti per collocarli nella determinazione del tempo, rendendoli storici, parti integranti di un tutto che inesauribilmente modifica se stesso. In questo modo, ad un pensiero tragico che vive sotto lo scacco dell’impossibilità dell’ azione, la dialettica, ma ormai nella sua versione marxista, oppone una forma di conoscenza capace di mediare e ricornporre nella pratica le aporie del pensiero, nella vita sociale la solitudine irrelata dell’individuo.
    Come si è visto, l’esperienza della Resistenza e lo studio del
    marxismo hanno avuto nella formazione di Fortini *precisamente*
    questo significato, orientando un’ eticità vissuta ancora in termini
    tragici e protestanti verso una forma compiuta di moralità; inevi-
    tabilmente, dunque, la riflessione su questo saggio non potrà non
    essere anche occasione per riconsiderare il proprio itinerario
    intellettuale e difendere, contro il divenire *tragico* del realismo
    mistificato delle burocrazie, la qualità etica dei proprio marxi-
    smo, la persuasìone cioè che solo una moralità integralmente
    politica e una politicità integralmente morale possono garantire,
    nella prassi, questo superamento.
    L’analisi delle tesi di Goldmann sulla natura ideologica del
    giansenismo diventa dunque pretesto per una discussione sulle
    forme attuali di superamento del tragico nel marxismo e nel
    comunismo storico; e sulle aporie che ne discendono. Anche nel
    marxismo, infatti, benché il senso dell’ azione individuale non
    cada più sotto la sovranità inconoscibile del divino, ma sia garan-
    tito dal fine -l’integrazione umana nell’umanità -, quest’ultimo
    resta comunque posto come scommessa non verificabile nel pre-
    sente»

    (pagg. 103-104)

    @ Genovese

    Nel testo di Fortini, che ho riportato (nel precedente commento), non mi pare che se la prendesse solo o soprattutto « con l’aria di generale “pentitismo” che cominciava a circolare». Continuava semmai anche in quella stretta feroce della storia che sono stati da noi gli anni Settanta, la sua critica da marxista critico rivolta soprattutto al PCI (come gli stralci che ho riportato provano). Né mi risulta che ci fosse in quegli scritti di allora (si veda soprattutto «Insistenze») « qualcosa di non detto perché – in quel momento e da Fortini – non dicibile.». Cosa, allora?

    La violenza degli sconfitti è troppo facile definirla stupida. Ci sono esempi di violenza non stupida? Di solito solo se si vince, la violenza viene sublimata e perde certi caratteri orridi che la rendono a molti un tabù. Nel caso delle Brigate Rosse a me pare giusto criticarle politicamente. Lo si poteva e in parte lo si fece. E ricorrendo alla stessa tradizione marxista, che offriva gli strumenti necessari per farlo. Lo fece Fortini. Lo fecero altri. Anche nel brano di La Grassa ( che ho linkato ed è stato snobbato…), la critica resta politica:

    « Diciamo due parole sulle Br. Secondo me erano sinceri nel loro schieramento avverso sia all’imperialismo sia al socialimperialismo. Pensare quindi che facessero il gioco di uno dei due è pura fantasia. C’erano infiltrazioni? Ne ho molti dubbi e comunque non è questo il “clou” della questione. Secondo me, quei militanti non avevano compreso la debolezza dell’Urss e del “socialismo” rispetto al capitalismo, erano convinti che alla fine si sarebbe arrivati allo scontro mondiale, e quindi immaginavano di poter giostrare “leninisticamente” tra le contraddizioni del nemico (per loro erano entrambi nemici: capitalismo occidentale e presunto socialismo sovietico). Non ho mai creduto alla loro “potenza geometrica” nel rapimento; non fatemi ridere. E’ ovvio a mio avviso che sono stati coadiuvati da personale del “nemico” (dell’est o dell’ovest? Non so, magari il gioco era tanto intricato che nemmeno i brigatisti afferrarono bene con chi avevano a che fare). Forse lo ha alla fine capito meglio Moro nei colloqui avuti con loro, poiché lui aveva probabilmente qualche possibilità di decriptare determinati comportamenti di questo o quel Servizio.».

    Non capisco, dunque, perché scadere nella svalutazione o nel dileggio morale («Così la loro più grande colpa non fu affatto politica ma proprio morale. Perché tentare di essere intelligenti non è un problema di materia grigia ma di impegno morale, preliminare a ogni politica»).
    Mi pare, del resto, che neppure agli elettori che vanno a votare si fa il test del Q.I o dell’impegno morale, no?

    @ DFW vs RB

    Violenti.. .scemi.. disagio mentale..
    Qua siamo quasi alle diagnosi di un Lombroso da bar, pare…
    E poi travisare completamente il pensiero di Fortini accusandolo, contraddittoriamente, prima di separare morale e politica e poi di intersecare i due piani. Forse è la visione dialettica che egli aveva a sfuggirti. Che faciloneria dire che «morale e politica sono la stessa cosa». Né capisco cosa voglia dire che la sfera morale sia «una caratteristica innata nella specie umana» o che la «condividiamo con altre» (specie?)…
    Quanto alla frase di Fortini “le carceri dovranno sparire”, forse una esperienza diretta in quei luoghi anche solo di qualche settimana renderebbe evidente il perché di quell’augurio.

  20. @ Pellegrino

    Oh, come varrebbe la pena, parlando degli anni Settanta in questa Italia d’oggi, rileggere quanto scrisse Fortini su Moro, le Brigate Rosse, l’Autonomia, il compromesso storico, Moro, il rapporto tra morale e politica! Fu uno dei pochi a sfuggire a quella «viltà degli intellettuali» che, come in tempi precedenti, ne azzittì buona parte e dei più in vista.
    Ora, siccome lei mi pare uno studioso serio, ho raccattato a memoria e non in modo sistematico un po’ di testi da esaminare:

    1. Sul rapimento di Aldo Moro (da «Quotidiano dei lavoratori», 18 marzo 1978, ora in «Un dialogo ininterrotto. Interviste 1952-1994», pag. 221, Bollati Boringhieri, Torino 2003

    « Rifiuto di associarmi al coro unanime che dall’«Osservatore
    Romano» al «Corriere della Sera» passando per «l’Unità» chiede
    di non sottilizzare, di non distinguere, di non offrire coperture
    degli intellettuali al terrorismo.
    Il coro domanda in realtà la sospensione del giudizio critico.
    Vuole atti di fede. lo non li compio. Non ho nessuna difficoltà
    a chiamare assassini degli assassini e a ritrarmene con orrore, ma
    rifiuto il tentativo di usare le parole unità, democrazia, nazione,
    bene pubblico come copertura di una azione politica, cioè di quella
    che ha portato ad un governo senza opposizione dove convivono i
    rappresentanti degli sfruttatori e degli sfruttati, gli interessi degli
    assassini e quelli degli assassinati, nella precisa proporzione in cui
    il mio dissenso dalla politica del compromesso storico non ha al-
    cuna presente alternativa politica da indicare, il mio dovere, in se-
    de strettamente politica, è di tacere.
    Ma siccome non c’è solo quella, ho anche un altro dovere, cer-
    care di interpretare i sentimenti di coloro che non hanno alterna-
    tiva a riconoscersi negli attuali stendardi politici. Ero in piazza del
    Duomo nove anni fa quando la classe lavoratrice chiese verità, giu-
    stizia intorno alle vittime di piazza Fontana, non permetto a nes-
    suno di invocare la folla di ieri come un alibi per continuare quella
    giustizia, a non farla o per arnministrarla con la medesima polizia
    e con la continuità del regime.
    Un poeta ha scritto che alla liberazione di Parigi nel ’44, per non
    colpire i colpevoli si rapavano delle puttane, io oggi dico che per
    non colpire i colpevoli si dice alle folle di scendere in piazza per sde-
    gnarsi sugli assassini e per siglare il patto di maggioranza. Bene, io
    voto contro».

    2. «Note per una falsa guerra civile»(il manifesto 4 settembre 1977, ora in «Disobbedienze I. Gli anni dei movimenti. Scritti sul manifesto 1972- 1985, pagg. 168.175), manifestolibri, Roma 1977)

    Non posso riportarlo per intero. Mi limito a sottolineare alcuni punti. A Valentino Parlato, che vedeva il “farsi Stato” del PCI ( la «inserzione del Pci nella maggioranza») come un segno della «presente rivoluzione» o a Paolo Volponi, il quale scriveva che per gli intellettuali non ci sarebbe stata «”indulgenza” se oseranno ancora diffondere dubbi e perplessità» nei confronti del nuovo orizzonte politico, Fortini obiettava: « Se, nell’immediato avvenire, il “compromesso” dovesse procedere come è proceduto finora altro che riscoperta dei principi dell’89. Trent’anni di regime democristiano, dieci anni di italo-stalinismo, dieci di togliattismo, dieci di lotte alla Nuova sinistra non consentono illusioni sulla democrazia italiana».

    Il clima pesante d’allora ( lasciamo stare il “profetismo”) si coglie bene in parole come queste:
    «E la fine verrà a poco a poco. Forse è già venuta. Non appena qualcuno avrà avuto l’orrenda idea di seviziare la vittima di un sequestro politico, sapremo che nel nostro paese staranno per aprirsi delle camere di tortura seicentesca. Allora ci ricorderemo di come, in nome dell’orario e della autorità, del pluralismo e del compromesso, si fecero le parti uguali fra diseguali, si è lasciato che i parlamentari parlassero quanto gli studenti, i sindaci quanto gli amministrati, gli imprigionatori quanto gli imprigionati, i vecchi quanto i giovani, i forti quanto i deboli. Pietà sarà morta ancora una volta. E per non essere stato preceduto da un pensiero più organico e da una prospettiva più esatta di quella dei nemici, l’eccidio delle due parti non servirà a nulla » (171)

    Nello stesso scritto fa una fondamentale (per me) difesa degli intellettuali critici che sono « agenti di una funzione insopprimibile; che è impossibile assimilare all’esperto, allo specialista, allo studioso, all’artista o allo scrittore in quanto tali» (p. 174)

    3. «Quindici anni da ripensare» (1984) in «Insistenze», Garzanti, Milano 1985

    Consiglio una lettura attenta di questo scritto, perché alcune sue residue perplessità, rimaste anche dopo la puntuale lettura che lei ha fatto del testo di Fortini da me proposto in un precedente commento, potrebbero essere sciolte.
    Specie quando si riflettesse sul fatto che per Fortini, sempre attento a contestualizzare storicamente le sue convinzioni morali e politiche, in quegli anni Settanta, per l’indebolimento della “nuova sinistra” e la scelta definitiva del PCI a favore del compromesso storico, non si scontrarono più due visioni morali/politiche contrapposte e strutturate da un solido pensiero, ma si ebbe soprattutto una gravissima “abiura” della tradizione marxista. Per cui buona parte dei militanti della sinistra e della nuova sinistra di allora abbandonarono volontariamente (o persero) i riferimenti morali e politici che potevano garantire l’indipendenza del loro impegno. Uno degli esempi più vistosi ( ma non il principale…) di questo disastro culturale e politico fu proprio quello dei “pentiti” di cui si è detto.
    Il punto decisivo del ragionamento di Fortini è detto con chiarezza in questo passo che trascrivo:

    «Lo so bene. Anche chi (o forse: soprattutto chi) sfruttamento, sopruso, violenza, oppressione di classe subisce da sempre, replicherebbe che, meno storie, è orribile e mostruoso (e quasi sempre inutile) ammazzare il prossimo, foss’anche un nemico. Ma tale sacrosanta affermazione procede, non è inutile ricordarlo, da un insegnamento religioso prima che da uno «umanistico». Un insegnamento che ebbe ed ha una sua precisa e complessa sistemazione (sottratta o laterale al potere e al sapere «civile») dei rapporti fra colpa originaria, natura vulnerata, confessione, pentimento, assoluzione, redenzione, divina promessa. Nel cristiano, il raccapriccio per l’assassinio, ha o dovrebbe avere, un fondamento che la tradizione umanistica e illuministica (kantiana, per intenderci) ha ereditato, mal celandone tuttavia l’origine, che è nella trascendenza; onde ha subito un secolo di critiche, da Marx a Nietzsche e a Freud e oltre e fino a noi, che non possiamo fingere inesistite. Ebbene, chiedere ai dissociati di riconoscere che la democrazia è un valore assoluto non è molto diverso dal chiedere loro il «giuramento» proposto dal ministro della Giustizia o certe dichiarazioni o firme antiterroristiche che furono domandate o proposte qualche anno fa nell’ambito sindacale e di fabbrica. Con una differenza grandissima: che il cattolico collega coerentemente morale, religione e diritto e rimanda al Vangelo e alla dottrina della chiesa; mentre il comunista italiano di oggi si è preclusa la possibilità di rinviare non solo ai testi e ai metodi marxisti ma persino a tutta una arte della riflessione sullo stato e sulla violenza che è all’origine della borghesia. Su questi argomenti Hegel, Marx e Lenin avevano opinioni assai diverse da quelle di Locke, Stuart Mill o Bobbio o, diciamo, dai teorici del costituzionalismo liberale. Onde la posizione che si può inferire dall’atteggiamento politico dei comunisti in materia di legislazione speciale e di «dissociati» oscilla fra l’idea di «stato etico» o di «legalità socialista» (varianti dello stato confessionale) e quella di stato «di diritto», fondato su di un patto sociale, sul diritto scritto, le «carte», la forma giuridica. Oggi questa seconda tendenza può sembrare a molti indispensabile per uscire da posizioni che altrimenti – ci insegnano anche i peggiori *nouveaux philosophes* – ci dovrebbero portare difilato ai *gulag*. Ma credo di aver passato lo scorso trentennio, lo confesso senza pentimento, a imparare e insegnare partendo dal pensiero di Hegel, Marx, Lenin, Trockij, Gramsci, Mao, Lukàcs, Sartre, Adorno. Da costoro ho appreso che non si oltrepassano i criteri giuridici della società illuministico-borghese – con le sue guerre, ben peggiori dei gulag – senza una modificazione radicale dei rapporti di produzione e di proprietà. Tale modificazione induceva quelle introdotte nel processo penale, della Russia anni Venti, poi degenerate nella inquisizione ideologica stalinista: vi assumevano ruolo primario l’indagine sociale sull’imputato, la «legalità socialista», la confessione, l’autocritica. Non credo certo che per uscire dalla legalità borghese si debba ripercorrere necessariamente quel cammino. Ma quella direzione, sì. E se tali prospettive marxiste le consideriamo solo invecchiate, assurde, sporche di sangue e generatrici di intolleranza, di corruzione burocratica e di ospedali psichiatrici per dissidenti, benissimo, si torni allora allo stato di stretto «diritto»; ma vi si torni davvero, se mai è esistito, e ci si risparmino allora le leggi eccezionali, le «perdonanze» e i sermoni sul «bene comune»»

    (pagg. 223-224)

    [continua]

  21. Beh, intanto grazie per le risposte.

    Non capisco bene il punto sul realismo politico. Nel senso che non trovo di alcun interesse le varie definizioni che vari studiosi hanno messo sul campo. Io mi sono riferito a quella che ho letto, alla lettera. Dato x segue che y. Essendo x sbagliato segue che lo è pure y. Se una persona pensa che la politica sia slegata dalla morale, può essere un mentecatto oppure no, ma è sicuramente in errore. Il mio non è solo un giudizio di valore, è anche di merito. Specifico che mentecatti saranno coloro che mettono in pratica tale convinzione, vedi i vari potenti che hanno guidato e mandato al massacro la gente, o più in piccolo, visto che siamo in tema, i brigatisti, che in nome di una supposta lotta di classe hanno ammazzato a vanvera. Mentre per quanto riguarda Machiavelli e company parlo di semplici errori di analisi, dato che la politica non è affatto slegata dalla morale (e non lo può essere, materialmente, fisicamente). I politici sono uomini, e gli uomini sono esseri morali, non si sfugge. La morale non è un concetto, è uno dei funzionamenti intrinseci alla natura umana (e non solo umana). Agiamo sempre moralmente (tranne nei casi di deficit mentali, dovuti ad anomalie o tumori, che impediscono alla persona di prendere decisioni, vedi Damasio), con buona pace dei nichilisti. Solo che ovviamente ogni persona agisce nel suo interesse e ha una propria morale, anzitutto. Ma anche questa idea non può essere presa come legge o regolarità umana. Se qualcuno pensa che ci siano leggi che regolano le attività umane si sbaglia. Le uniche leggi sono quelle della fisica, e neanche le conosciamo tutte.

    @ Buffagni

    Sul piano del declino ho letto il saggio di Pinker, e rimando a quello, ovviamente senza pretese. Comunque più che di tendenza alla mitezza dell’essere umano Pinker fa riferimento al cambiamento di varie condizioni (certo il realismo politico, come lo chiama lei ora, o anche il mercato, che sposta i conflitti sul piano economico, alcuni fattori civili, riprendendo Norbert Elias, persino la diffusione della letteratura, veicolo di empatia, tutte condizioni che favoriscono la cooperazione) che nel complesso determinano minori conflitti violenti, in una scala temporale di millenni e tenendo conto di variazioni come appunto le due guerre mondiali. Chiaramente non pone alcuna previsione certa, è un’osservazione.

    Su Marx, col beneficio di sproloquio: io non credo all’esistenza della lotta di classe. Non ho approfondito bene cosa si intenda, ma mi pare una descrizione della storia umana poco pertinente, più buona per descrivere le società degli insetti, forse. Che poi le persone possano credervi e agire di conseguenza è un altro discorso. Poi certo esistono le dinamiche di sfruttamento, oppressione, potere eccetera, ma non sono agite da classi, al limite da gruppi, alleanze di individui, bande. Se i proletari per unirsi hanno bisogno di prendere coscienza di far parte di una classe, c’è qualcosa che non va. Che poi sarebbe utile farlo, certo. Ma questo mi pare essere un tipo di fallacia naturalistica, scambiare le cose che vorremmo per quelle che sono.

    @ Pellegrino

    Sì, capisco che il mio tono sia irritante e superficiale, ma non è così male, via (e poi ognuno si sceglie le proprie categorie interpretative, se hanno fatto insegnare filosofia ad Heidegger potrò ben io parlare di mentecattismo). Poi non sto mica appoggiando quelli che rinchiudevano le persone nei manicomi a prescindere, sto usando parole alla buona e anche per parlare di cose diverse fra loro, includendo il fanatismo nei disagi mentali. Non vedo in che altro modo descrivere il comportamento di persone che hanno creduto così tanto a certe parole da metterle in pratica in certi modi. Il disagio mentale esiste, c’è poco da fare, aver tolto di mano a certi medici il potere non ha tolto di mezzo il disagio. Poi ovvio che non è l’unica componente in gioco.

    Se aboliamo le carceri cosa facciamo con certi criminali? Io non ho letto molto in merito, qualche consiglio di lettura?

  22. Caro DFW vs RB,
    lei è simpatico ma un po’ confusionario.
    Se riesamina quel che lei stesso ha scritto: “Agiamo sempre moralmente…Solo che ovviamente ogni persona agisce nel suo interesse e ha una propria morale, anzitutto” vedrà che, anche prendendo per buona la sua affermazione, ne conseguono problemi non piccoli.
    Quando la morale e gli interessi di A confliggono con la morale e gli interessi di B, e non esiste un C in grado di dirimerne il conflitto, che succede? A volte A e B troveranno un compromesso, a volte no; per cattiva volontà dell’uno o dell’altro, o anche perchè l’oggetto del contendere non è negoziabile: per esempio, quando A vuole conquistare B e imporgli il suo dominio (o anche sterminarlo, se in conformità alla morale e agli interessi di A, B non ha diritto di esistere e anzi compromette e danneggia, con la sua mera esistenza, il benessere e l’esistenza di A: sembra paradossale, ma è già avvenuto, e non una sola volta).
    Le faccio notare che la situazione che ho sommariamente descritto è la situazione *normale* dei rapporti tra potenze; e che la sua eventuale soluzione per mezzo di una istituzione mondiale insignita del diritto e dotata della forza di dirimere i conflitti tra potenze rischia di essere una toppa che xe pezo del buso, perchè quis custodiet custodes ipsos? Chi potrebbe mai garantirne la terzietà e l’equità?
    Un realista politico molto acuto, Karl von Clausewitz, faceva notare che le guerre scoppiano sempre *per colpa del più debole*, non per colpa del più forte. Per restare in pace, in effetti, basterebbe che l’aggredito non resistesse all’aggressore, il quale sarebbe ben lieto di ottenere il suo scopo senza fatica.

  23. Caro Abate,

    Fortini aveva, nella sostanza, ragione. L’errore delle BR, come l’errore degli eversori neri, è anzitutto politico. La pretesa di confinarli nella criminalità comune o nella casistica psichiatrica è cinismo politico allo stato puro, ben rappresentato da un cinico politico esemplare come G. Pajetta.
    Il cinismo politico di solito funziona, almeno nell’immediato, ma provoca un collateral damage: istupidisce gli ingenui, e gli ingenui sono la grande maggioranza.
    Ne è un buon esempio il PCI e i suoi successivi avatar. I cinici cominciano con la pretesa della superiorità morale e della legalità militante, continuano con l’identificazione del Male Assoluto in Craxi e Berlusconi, gli ingenui ci credono, e oppalà!
    Massimo D’Alema manda l’aviazione italiana a bombardare Belgrado!; “L’Unità” saluta l’insediamento del governo Monti, il meno legittimo e uno dei più dannosi della storia repubblicana, con il megatitolo “Liberazione!” sullo sfondo del tricolore; il presidente Napolitano esercita la sua moral suasion per far partecipare l’Italia al rovesciamento di un governo col quale ha appena firmato un solenne trattato di amicizia (per i più piccini: parlo della Libia), provocando caos, lutti, rovine, sbarchi infiniti di disperati sulle coste italiane, danno grave agli interessi dell’Italia; e gli ingenui fanno la ola e friggono le salsicce ai festival dell’unità, usi a obbedir tacendo e tacendo votar (almeno finora).
    Domanda: se giudichiamo la stupidità in base alle conseguenze delle azioni politiche, compreso il numero dei morti ammazzati, chi è più stupido, le BR o Giorgio Napolitano?

  24. Ma, Abate, intanto ascoltati su youtube La lotta armata al bar delle Luci della centrale elettrica, almeno ti strappo un sorriso. Cmq, violenti erano violenti, almeno una su tre è giusta, per il resto non ha senso parlarne, tanto è acqua passata.

    Su Fortini, mica accuso, lo leggo con interesse, appena nato. Ogni tanto commento. Non dico che si contraddice, prima separando e poi intersecando, dico che i piani sono lo stesso piano, per questo si è potuto, sbagliando, leggere le loro azioni sul piano politico e morale, come se fossero piani separati che ogni tanto si incrociano. No, stanno sempre assieme. Sbaglio? Pazienza. Così non posso accettare l’idea che i brigatisti abbiano accettato la contrizione cattolica del pentimento e si siano abbassati a volgari delinquenti. Come se l’azione politica potesse elevare spiritualmente o umanamente. Questo è l’effetto di tutta la retorica sottesa agli ideali, alle passioni, al romanticismo. Retorica da avversare in ogni modo.

    Poi: tempo fa hanno messo due topi in due gabbie. Un topo aveva del cibo, l’altro era collegato a un elettrodo che gli dava una scossa ogni volta il primo topo mangiava. Il topo che mangiava si rendeva conto che il dolore subito dall’altro topo dipendeva dal suo mangiare e dopo un po’ smetteva di mangiare. Questa è la morale.

    Ancora: un paziente affetto da tumore al cervello lamentava di non avere più entusiasmo nelle cose, di non saper più fare niente, di non riuscire a lavorare. Gli fecero dei test, domande che riguardavo il buon comportamento civico in certe situazioni, tipo cosa fare quando si trova un portafoglio per strada. Il paziente rispondeva a tutte le domande in maniera eccellente, un cittadino esemplare. Poi però in un gioco in cui bisognava pescare delle carte e tentare di vincere o perdere, nonostante avesse capito che pescare certe carte da un mazzo l’avrebbe fatto perdere, continuava a pescarle da quel mazzo, pur consapevole dell’errore, eppure incapace di cambiare comportamento. Ciò dimostra come non avendo più la capacità di provare emotivamente cosa è giusto o sbagliato, non siamo in grado di prendere decisioni in merito. Altra dimostrazione del carattere innato del senso morale. Per questo l’apprendimento tramite imitazione vale più di mille parole.

    Quanto alle carceri, qui non sono io a farla facile, mi sembra. Anch’io vorrei che sparissero, solo che c’è quel problemino della violenza umana. Possiamo fare molti cambiamenti e riflessioni sul senso della punizione e della detenzione, anche alla luce delle nuove scoperte neuroscientifiche, però rimane il fatto che certe persone sono pericolose, per questo ho chiesto lumi, e qualche consiglio di lettura.

  25. Moro e dintorni.
    1.
    L’esempio portato da R.Genovese ( l’obolo al povero )è molto interessante e si presta a divagazioni molto significative. Nel panorama dei “ nostri buoni sentimenti “ ( nostri allude ad una necessaria relativizzazione di essi ) spicca la regola : è “ morale “ fare la carità all’affamato. Più in alto si pone la regola “ non uccidere “.
    Parlo della prima che riguarda banali comportamenti quotidiani. Chi può contestare la moralità della dazione di un obolo a un medicante che letteralmente sente i morsi della fame? Oserei dire: nessuno. Ma oggi circola il sospetto che dietro l’affamato vi sia una organizzazione criminale ( la chiamerò per brevità Spectre ) che si serve dei medicanti per rastrellare somme di denaro a proprio vantaggio. La dazione dell’obolo al mendicante resta un atto moralmente valido oppure no? E’ la domanda che acutamente si pone Genovese. Le risposte non possono che essere articolate. Che ci importa se Spectre lucra, se almeno una parte dell’obolo resta al mendicante ? Piuttosto la “ moralità “ ci spingerebbe a fare in modo che Spectre scompaia dalla faccia della terra e se questa terra è concretamente “ una organizzazione stabile cioè uno Stato “ il problema investe la polis e diventa politico. Ci si può sbizzarrire alquanto sulle “ combinazioni legate a tale esempio “ e arrivare a costruire modelli di convivenza tra Spectre, cui si permette di operare e mendicante, cui si “ concede “ di conservare parte dell’obolo. Ma alla fin ci si accorge che – sia a livello individuale che a livello collettivo – alla radice del nostro comportamento ( quale che esso sia ) sta la posizione di una regola di condotta. Se appuntiamo la nostra attenzione sulle regole collettive attinenti alla polis la scelta si pone – in termini radicali – tra la tutela ad ogni costo della “debolezza del
    mendicante “ che implica la priorità della lotta contro Spectre e l’indifferenza verso il debole che implica di fatto la tolleranza di Spectre. Anche in questo caso si possono immaginare combinazioni di compromesso ma lo schema astratto di ragionamento è quello già indicato.
    Tutti gli Stati fondano regole di scelta tra comportamenti possibili. Non vedo perché quelle che chiamiamo – a livello individuali – scelte appartenenti all’ordine morale debbano essere definite diversamente se riferite alle scelte degli Stati.
    Si può dire che c’è una morale privata ed una morale pubblica e come v’è una cattiva morale privata così vi è una cattiva morale pubblica.
    Il problema vero è quello di stabilire la qualità di tali scelte e questo implica la scelta di un criterio di scelta.
    Se l’asino di Buridano non fosse stato asino, si sarebbe accorto che non ci sono mai mucchi di biada perfettamente identici e avrebbe potuto scegliere a seconda del criterio adottato
    ( maturazione, colore etc ). Ciascuno di noi sa che non ci sono mai situazioni perfettamente identiche ma solo difficoltà nella scelta a monte del criterio di scelta. Genovese, mi pare, ricorda il criterio del minor male e questo nel caso del mendicante ci impone di dare sempre qualcosa anche se Spectre incombe, ovviamente se sappiamo e abbiamo motivo di pensare che un penny almeno finisce nelle di lui tasche. Se riflettiamo sulla “ dimensione pubblica “ del rapporto Spectre-mendicante- cittadino caritatevole non possiamo che dare una risposta: l’obolo va dato comunque ( dei casi limite non mi occupo ) e sarebbe “criminale” lo Stato che privilegiasse Spectre.
    2.
    Nel nostro sistema è male uccidere un uomo ed è male non impedire che un uomo sia ucciso da altri. E’ il caso Moro. Egli sta per essere ucciso e allo Stato viene proposta la liberazione dell’ostaggio a certe condizioni. Anche qui abbiamo uno Spectre in azione. Ed anche qui – è ancor più chiaramente che nel caso sub 1 – ci troviamo in una dimensione schiettamente politica ( l’affermazione non necessita di spiegazioni ). La prima osservazione che mi viene da fare è questa: si è fatto di tutto per eliminare Spectre e porre fine alla sua specifica azione ?
    In questo caso – che presenta una dilatazione estrema rispetto al caso sub 1 – non è neppure da invocare il principio del “ male minore “ dato che si pensa ( la generalità pensa ) che sia dovere primario di uno stato impedire la violenza contro i propri cittadini. Si può continuare nell’analisi anche nella direzione del criterio sussidiario del “ male minore “. Quale era il male
    ( in tesi intollerabile ) che la liberazione di Moro avrebbe evitato ? A mio giudizio – e ritengo che la valutazione vada fatta attraverso una completa ricostruzione delle circostanze – non vi era nel caso Moro alcun male intollerabile. La “ sconfitta della sovranità dello Stato” è una nozione astratta e ambigua. Astratta perché è tutto da dimostrare che la liberazione di un ostaggio a certe condizioni ( quali ? ) ponga nel nulla quel “ valore “ politico rappresentato da una organizzazione statuale. Ambigua perché – per questa via – si legittima la paradossale conseguenza che “ ogni carenza “ nelle funzioni dello Stato legittimi la violenza privata.
    In attesa di ragguagli documentati la mia risposta è : Moro andava salvato.
    3.
    La politica prescinde dalla morale ? Che senso reale ha questa domanda? Gli individui si comportano – pare – secondo criteri che “si sono posti” – più o meno consciamente – prima del loro operare. Tali criteri derivano dalla tradizione, da sistemi di riferimento diversificati
    ( ad esempio dalla religione praticata ) ,criteri che vengono sempre invocati nel momento il cui il comportamento del singolo viene investito da un giudizio di moralità. La risposta “ ho la coscienza a posto “ – giusta o sbagliata che sia – descrive sinteticamente l’affermato rapporto di coerenza tra criteri dell’operare e operazione compiuta.
    Le strutture statuali operano nel mondo, e come !. Anch’esse nell’operare ( ciò implica la scelta di una soluzione rispetto ad un’altra possibile ) applicano criteri che –di regola – si sono posti come loro principi fondamentali. La moralità come coerenza tra criteri scelti e operazioni concrete è – a mio giudizio – coessenziale all’azione politica. La rilevanza di un possibile scarto tra principi e operare concreto ha due direzioni. Nei confronti dei governati e nei confronti delle altre organizzazioni similari.
    I governati da una lato debbono essere governati secondo i principi scelti come criterio dell’operare pubblico e dall’altro hanno diritto di pretendere la modifica degli stessi se ritenuti intollerabili. Ma questo passaggio non va mai giudicato in astratto. La violenza che può essere connessa a tali reazioni è qualcosa che è nell’ordine delle cose ma è anche nell’ordine delle cose che vi sia una proporzione tra il bene che si spera di ottenere e il bene che si rischia di perdere. Penso – in linea di principio e con tutte le cautele possibili – che il giudizio sulla violenza interna agli Stati sia prima di tutto giudicabile alla luce della “ sua stupidità “ , giudizio che non è lombrosiano ma logico.
    La violenza tra Stati è la guerra ed anche qui si assiste a ideologizzazioni prive di senso. C’è qualcuno – a parte casi per così dire marginali – che invochi sempre e comunque la guerra?
    Stento a crederlo. Dire che la guerra è una necessità è altrettanto astratto. Si deve dire che la guerra può essere – a volte – l’unica soluzione possibile ma tale giudizio consegue ad una analisi veramente profonda delle situazioni concrete, delle possibilità praticabili etc…Non è possibile non tener conto di condizioni ineliminabili dell’esperienza umana: l’istinto di sopravvivenza legittima – anche sul piano legale – la legittima difesa. Ma tale istinto – sul piano collettivo – si traduce nel “ giusto istinto “ di organizzazioni collettive di vivere “ la loro esistenza “. La guerra di difesa è un male necessario ma per chi è aggredito e un bene che si paga a caro prezzo ma si paga perché….si viveva meglio prima di essere aggrediti.
    Alla fine tutte queste mie osservazioni disordinate vanno a parare nel “ giudizio “ della Storia.
    Non mi sento affatto tra quelli che – con semplificazioni degne di miglior causa – affermano che è giusto sempre e comunque rifarsi al giudizio del vincitore. Ho appreso dell’arguta risposta di quel ministro cinese che – richiesto di un giudizio sulla “ bontà “ della Rivoluzione francese ebbe a dire pressappoco così: è troppo presto per dirlo. In essa io vedo – e non sembri paradossale – non una “ relativizzazione assoluta “ ma la necessità umana di costruire – con qualche referente di peso – dei canoni universali di comportamento.
    Se qualcuno vorrà intervenire ulteriormente ne sarò felice, scusandomi già da lunedì se non potrò rispondere. Sarò “ assente “ per qualche giorno per una operazione agli occhi e spero che questa mi aiuti a vedere meglio di quanto ho visto fino ad ora e conseguentemente scritto
    Buona domenica. Giorgio Mannacio.

  26. @ Abate: innanzitutto grazie per lo “studioso serio”. Raro sentirselo dire, di questi tempi. Non pare la virtù più acclamata. Ma grazie soprattutto per la silloge fortiniana. “Etica pubblica” è un libro piccolo, pensato per un pubblico generale, ma anche per gli studenti, e pubblicato da una casa editrice piccola, con pochi mezzi — pochi mezzi per permettersi un numero elevato di pagine, soprattutto. Ma se riuscirò a riprendere le mie riflessioni sulle questioni dell’etica pubblica nella nostra storia recente, senza dubbio mi sarà necessario approfondire molto di più di quanto abbia fatto il dibattito — e Fortini è una voce essenziale, mi pare di capire. Non commento oltre — meglio leggere tutto, e poi eventualmente ne riparliamo. Su La Grassa: ho letto il testo, e ci ho riflettuto. Non mi pare all’altezza di Fortini: sì, avanza una critica politica, ma meno chiara, e indulge un po’ all’allusione e al complottismo. Diciamo che sarebbe meglio leggere altre cose, più ampie, se le ha scritte.

  27. @ Pellegrino

    Non so quanto lei abbia presente il dibattito (spesso scolastico e pesantuccio) sulla “crisi del marxismo”. Fortini e La Grassa l’hanno attraversato ciascuno con una sua storia alle spalle e nuotando, il primo, in quella che genericamente venne definita la corrente “calda” del marxismo (Luxemburg, Bloch…), il secondo nella “fredda” (Althusser…). Con esiti diversi ma con una chiara consapevolezza della tragedia del “socialismo reale”. Gli accademici, che di certi problemi si sono sbarazzati, li hanno snobbati e silenziati. I movimentisti ne hanno diffidato. Eppure scavare negli scritti dell’uno e dell’altro, non per conciliare l’inconciliabile ma per intendere rotture e continuità della storia del Novecento, che troppo facilmente ci si è illusi di essersi lasciati alle spalle (Cfr. Revelli, Oltre il Novecento…), mi pare indispensabile.
    Il testo che ho proposto di La Grassa è di polemica spicciola, umorale e contingente (diciamo da blog o da conversazione) . Ma il La Grassa studioso e ripensatore di Marx (per alcuni “liquidatore” ma non sono d’accordo) è impegnativo e degno di grande attenzione. Meglio leggerlo e riflettere sulle sue tesi, anche quando non si è d’accordo. Di libri ne ha pubblicati parecchi. Sta per uscire da Mimesi “Navigazione a vista”, di cui un brano – vedo ora – si legge qui: http://www.conflittiestrategie.it/critici-e-apologeti-di-marx-ignoranti-e-falsari-di-glg
    Buon lavoro.

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