cropped-walleyes.jpgdi Thomas G. Pavel

[Thomas G. Pavel è uno dei maggiori teorici del romanzo contemporanei. Esce in questi giorni la traduzione italiana della sua opera maggiore, Le vite del romanzo. Una storia (traduzione di Daria Biagi e Carlo Tirinanzi de Medici, a cura e con una postfazione di Massimo Rizzante, Mimesis, Milano-Udine 2015). Pubblichiamo alcune pagine dell’Introduzione. Oggi Pavel parteciperà al Seminario internazionale sul romanzo organizzato dall’Università di Trento].

L’evoluzione del romanzo è la storia di un successo straordinario. Fin dalle sue umili origini il romanzo ha dimostrato una capacità senza pari di adattarsi, diffondersi e imporsi. In ogni momento di svolta ha saputo trovare i modi più intelligenti ed efficaci per riaffermare il suo posto in un quadro culturale più ampio. La sua nascita e la sua ascesa, tuttavia, sono ancora oggetto di discussione. Secondo una versione diffusa, il romanzo, in quanto espressione letteraria della modernità, emergerebbe relativamente tardi nella storia: se l’Illuminismo spazza via dogmi ormai obsoleti, così il romanzo prende il posto delle modalità narrative arcaiche. Se le narrazioni più antiche – talvolta indicate con il termine romance – osservano la vita attraverso lenti distorte e ritraggono personaggi idealizzati e inverosimili, il romanzo, si dice, inizia a rivolgere la sua attenzione alle vite delle persone reali nel mondo reale. Alcuni affermano addirittura che a innescare l’importante trasformazione sarebbe stato un singolo autore, il quale, in un lampo di genio, avrebbe realizzato il primo vero (ovvero moderno) romanzo. Come Copernico ha rivoluzionato la cosmologia, così Miguel de Cervantes o Mme de Lafayette o Daniel Defoe o Samuel Richardson – secondo chi racconta la storia – avrebbe dato inizio a una nuova era della prosa narrativa. Sarebbero questi elementi a fare del romanzo un genere mo- derno, ovvero polemico, ribelle, realistico e nato da una singola grande penna. In una certa misura è così. Opere influenti come Pamela (1740) e Clarissa (1748) di Samuel Richardson, ritraendo minuziosamente l’esperienza vissuta, rappresentano senza dubbio una rottura rispetto ai metodi narrativi precedenti. Altrettanto vero è che alcuni romanzieri – François Rabelais e Laurence Sterne, ad esempio – adottano una postura ribelle e che i romanzi aspirano spesso a descrivere realisticamente la vita sociale e infine che, come ogni impresa umana, lo sviluppo del genere è spesso legato al talento di individui eccezionali.

 Scelte di partenza…

Negli ultimi vent’anni, tuttavia, l’idea che il romanzo sia un genere tipicamente moderno è stata messa in discussione. La vera storia del romanzo di Margaret Doody (1996) e il capitolo dedicato al romanzo da Didier Souiller e Wladimir Troubetzkoy nella loro Letteratura comparata (1997) hanno mostrato che narrazioni in prosa di lungo respiro, lungi dall’essere una recente invenzione europea, hanno radici ben più profonde. L’ampia raccolta di saggi Il romanzo curata da Franco Moretti (2001), parzialmente tradotta anche in inglese (The Novel, 2006-2007), ha dimostrato che l’ascesa del romanzo dal Rinascimento al XIX secolo non è tanto l’invenzione di un genere, quanto l’accelerazione europea del suo sviluppo, alla quale fa seguito un’espansione su scala globale. Infatti, se prendiamo in esame le prime opere di finzione cinesi e giapponesi – la Storia di Genji di Murasaki Shikibu (XI secolo), Sul bordo dell’acqua (XIV secolo), Il romanzo dei tre regni di Luo Guanzhong (XIV secolo), Il viaggio in Occidente di Wu Cheng’en (XVI secolo), La storia della pietra di Cao Xueqin (XVIII secolo) – risulta evidente che le radici del genere non sono confinate in un unico spazio geografico. Il saggio di Steven Moore The Novel. An alternative History. Beginning to 1600 si sofferma sulla fortuna mondiale di quelle opere narrative che, fiorendo nell’antico Egitto come in Cina e in Giappone, hanno reso possibile l’ascesa del romanzo. In linea con tale visione, il mio libro aspira a mostrare come «l’accelerazione europea del romanzo» (per riprendere l’espressione di Franco Moretti) derivi da una rivalità di lunga data tra differenti generi – o meglio sottogeneri – di prosa narrativa. Proprio come ai giorni nostri i clienti di una libreria si aggirano tra gli scaffali dove sono collocati libri di generi diversi – “letteratura”, “western”, “giallo”, “fantascienza” –, i lettori del XVI e del XVII secolo erano abituati a distinguere tra romanzo greco, romanzi cavallereschi del tardo medioevo, opere pastorali, narrazioni picaresche e novelle. In ogni narrazione si rivela un diverso aspetto della condizione umana: l’amore casto fino all’eroismo nel romanzo greco, il valore individuale nei racconti cavallereschi, la delicatezza dei sentimenti nel genere pastorale, gli imbrogli in quello picaresco, le azioni improvvise e stupefacenti nelle novelle. Ogni tipologia possiede il suo modo di trattare forma e contenuto. Quel che più conta poi è che questi sottogeneri formano due grandi gruppi: il primo promuove una concezione celebrativa e idealista della vita e dei comportamenti umani, l’altro sviluppa un atteggiamento denigratorio e anti-idealista. Le narrazioni idealiste, come i romanzi antichi e cavallereschi, sono caratterizzate da personaggi e azioni edificanti, mentre quelle anti-idealiste, come i racconti picareschi e molte novelle, deplorano o sbeffeggiano persone e situazioni eccezionalmente negative. Per il pubblico del tardo Cinquecento, i migliori romanzi idealisti sono stati scritti molto tempo prima, tra il I e il IV secolo, da coloni greci stabilitisi sulle coste orientali del Mediterraneo. Nelle Etiopiche di Eliodoro, riscoperte alla fine del XV secolo e tradotte in francese, italiano, spagnolo, inglese e tedesco, i due giovani protagonisti, Cariclea e Teagene, si innamorano presso il tempio di Apollo a Delfi. Dopo essersi promessi reciproca castità, fuggono dalla Grecia attraversando un’infinità di peripezie, naufragi, rapimenti, separazioni e avances lascive da parte di sovrani senza scrupoli. Alla fine approdano nel sacro regno di Etiopia, dove si scoprirà che Cariclea altri non è che la figlia da tempo scomparsa del sovrano di quella terra. Poco letti e studiati nella tarda antichità, i romanzi greci sono trasmessi e imitati nell’Impero Bizantino, ma non nell’Occidente medievale, dove il pubblico inizia a preferire un tipo diverso di narrazione idealista: i racconti cavallereschi in cui cavalieri coraggiosi e dame altere lottano contro le avversità per tenere vivo il loro amore. A differenza dei perfetti protagonisti dei romanzi greci, i personaggi medievali si smarriscono, hanno difficoltà a padroneggiare i loro desideri, dimenticano le loro promesse, e il loro amore – come nel caso di Tristano e Isotta o di Lancillotto e Ginevra – è spesso adultero. Tuttavia, se il cavaliere combatte valorosamente, l’inaffidabilità, la leggerezza e persino l’adulterio gli sono alla fine perdonati. Immerse in credenze arcaiche e pagane (paganus: colui che abita in un villaggio), le storie di cavalleria sono molto vicine alle leggende, alle saghe e alle fiabe e come quelle sono popolate di maghi, profeti, animali parlanti, oggetti magici e città incantate. Gli scrittori del Rinascimento, che venerano l’antichità e tendono a guardare dall’alto in basso l’arte e la letteratura medievali, hanno tuttavia un debole per i voli della fantasia. I poeti italiani del XV e del XVI secolo, rielaborando le storie cavalleresche, danno vita a un nuovo genere, pieno di peripezie meravigliose e colpi di scena. Il Morgante di Luigi Pulci (1483), l’Orlando innamorato di Matteo Maria Boiardo (1495) e l’Orlando furioso di Ludovico Ariosto (1532) narrano le complicate avventure di cavalieri medievali intenti a spassarsela in un mondo fatato che non ha alcuna pretesa di apparire realistico o verosimile. I romanzi cavallereschi in prosa continuano intanto a prosperare in modo autonomo, narrando storie idealiste e celebrative, fra cui spicca l’Amadigi di Gaula (opera pubblicata nel 1508, ma composta in precedenza), dove l’amore, l’eloquenza e le gesta eroiche di un cavaliere senza macchia e senza paura infiammeranno l’immaginazione dei lettori europei fino al XVIII secolo e persino oltre. Nel tentativo di trovare le forme migliori di narrazioni idealiste, gli scrittori di fine Cinquecento sentono di dover scegliere tra i tardi romanzi cavallereschi in prosa e i romanzi greci appena riscoperti, ovvero tra l’Amadigi di Gaula e le Etiopiche. I più perspicaci vedono nell’opera di Eliodoro il vero modello del genere. Cervantes, ad esempio, è di tale avviso e cerca di imitare Le Etiopiche nell’ultima – e a suo parere più riuscita – delle sue opere, Le avventure di Persiles e Sigismonda. Non è l’unico autore a prendere questa direzione: imitazioni del romanzo greco fioriscono in gran parte dell’Europa dalla fine del XVI secolo fino a tutta la prima metà del XVII, e si leggeranno avidamente fino alla fine del XVIII. Fra queste ricordiamo: Urania di Mary Wroth (1621), Polesandro di Gomberville (1632-1637), Artamène ou le Grand Cyrus di Madeleine de Scudéry (1649-1653), Aramena di Anton Ulrich (1669-1673) e Oroonoko di Aphra Behn (1688). Altrettanto importante per il pubblico del XVI secolo è un’altra e più recente tipologia di narrazione idealista: i romanzi pastorali che fioriscono in Italia e in Spagna e che poi conquisteranno Inghilterra e Francia. Il primo romanzo pastorale spagnolo, la Diana di Jorge de Montemayor (1559), è molto apprezzato alla fine del XVI secolo ed è una delle fonti d’ispirazione di Shakespeare. Intorno al 1580 Sir Philip Sidney porta a termine Old Arcadia, che sarà pubblicato solo diversi anni più tardi. All’inizio del XVII secolo, con i suoi cinque volumi, l’Astrea di Honoré d’Urfé (1607-1627) diventerà l’esempio più vasto e complesso del genere pastorale. I romanzi greci e le narrazioni cavalleresche e pastorali trasportano i lettori in un regno ben diverso dalla realtà di tutti i giorni, richiedendo loro di conseguenza una drastica sospensione dell’incredulità. Nicolas Boileau, critico francese del XVII secolo, si meraviglia che nell’interminabile Artamène di Madeleine de Scudéry la bella e giovane eroina, pur cadendo in continuazione nelle mani di terribili briganti, riesca sempre a mantenere intatta la sua virtù. Obiezioni analoghe sono mosse contro l’Amadigi di Gaula e la Diana. Tutto ciò, tuttavia, non ha molta importanza, poiché tali romanzi intendono offrire una visione sublime e per nulla verosimile del mondo. Scrittori e critici successivi partiranno dal presupposto che queste narrazioni accattivanti ma inverosimili saranno rese obsolete dai moderni romanzi realisti del XVIII secolo. Gli scrittori e i lettori della prima modernità, tuttavia, la sanno lunga: la dieta letteraria dell’epoca non prevede soltanto romanzi idealisti e celebrativi. Se le antiche opere di satira – il Satyricon di Petronio (I secolo) e il Roman de Renard (XII secolo) – non sono alla portata di tutti, non mancano altre narrazioni comiche anti-idealistiche a soddisfare la sete di satira del grande pubblico. Le novelle rinascimentali di Giovanni Boccaccio e Matteo Bandello sono particolarmente spietate nel descrivere l’imperfezione umana, mentre le più recenti storie picaresche spagnole, il Lazarillo de Tormes (1554, anonimo) ed El Buscón di Quevedo (1626) ritraggono ladri e vagabondi privi di scrupoli e senza alcun senso della decenza. Molte delle novelle e degli interludi comici che Cervantes scrive per il teatro, così come vari personaggi del Don Chisciotte (1605, 1615), devono molto a queste narrazioni denigratorie. Il pubblico, inoltre, apprezza narrazioni anti-idealiste e colme di pathos che presentano i fallimenti umani sotto una luce più compassionevole che sarcastica, come le novelle tragiche di Boccaccio, Bandello e Cinzio e quelle spagnole di Cervantes e María de Zayas, dove si mette in evidenza tutta l’incapacità degli uomini di padroneggiare le loro passioni. Un’altra significativa differenza tra i sottogeneri in prosa della prima modernità è che alcuni disegnano il mondo “su larga scala”, mentre altri vanno al “cuore del problema”. Da un buon romanzo ci si aspetta che si attenga alla tipologia a cui appartiene – romanzo celebrativo (nello “stile di Eliodoro”, cavalleresco, pastorale) o denigratorio (comico, picaresco). Deve essere anche in grado di collegare un ampio numero di episodi, caratterizzati da cause ed effetti simili. La visione del mondo che offre è ampia – poiché i personaggi sono trasportati in ogni direzione e luogo – ma monotona, poiché incontrano gli stessi tipi di ostacoli e si imbattono nello stesso tipo di avventure. I romanzi greci e le loro imitazioni funzionano così e lo stesso vale per le narrazioni comiche e picaresche. Le novelle serie, tragiche o comiche riducono invece il numero degli episodi per andare dritte al cuore del conflitto. Dal momento che il punto di forza delle novelle è rappresentato dall’unità d’azione, capita spesso che vengano adattate per il teatro – Shakespeare utilizzerà le novelle di Bandello e di Cinzio per Romeo e Giulietta e per l’Otello. Infine, nonostante la prosa narrativa debba mostrare la sua appartenenza al sottogenere idealista o a quello anti-idealista, certe variazioni sono sempre benvenute. I romanzieri che s’ispirano a Eliodoro non dimenticano mai di inserire qualche episodio che vede come protagonisti personaggi riprovevoli, mentre gli autori di romanzi picareschi imparano a includere nelle loro opere storie più nobili. Quanto alla novella, più breve e stringata, Boccaccio, Margherita d’Angoulême, Bandello e Cervantes ne pubblicano ampie raccolte, dove storie comiche e tragiche coesistono le une accanto alle altre. In una cultura che preferisce i generi narrativi facilmente identificabili, le mescolanze costituiscono un elemento di equilibrio.

… E quello che avviene più tardi

L’antichità non dovrebbe essere vista come una mera fase preparatoria alla vera e propria ascesa del romanzo nel XVIII secolo, anche se è vero che le conquiste di questo secolo giocano un ruolo decisivo nella storia successiva del genere. Samuel Richardson, scrittore autodidatta, si rende conto che le caratteristiche migliori degli antichi sottogeneri narrativi possono essere mescolate. Gli eroi sublimi e le molteplici avventure del romanzo greco, le umili origini sociali dei personaggi picareschi e gli eventi drammatici della novella possono essere combinati in un’unica narrazione – accattivante come un romanzo antico, fedele alla vita quotidiana come una narrazione comica e pregnante come una novella. In Pamela il personaggio principale è una giovane donna la cui virtù e capacità di resistenza di fronte al pericolo sembrano uscire da un antico romanzo greco. Pamela, tuttavia, conduce una vita modesta e del tutto ordinaria nella provincia inglese. La sua straziante condizione di serva perseguitata da un ignobile padrone, inoltre, si adatterebbe benissimo a una novella rinascimentale. Mescolando tali elementi, Richardson è in grado di edificare i lettori senza doverli trasportare in un regno completamente inverosimile, di raccontare una storia avvincente come una novella ed estesa come un romanzo picaresco e, cosa fondamentale per la sua epoca, di mostrare la parità morale delle persone al di là della loro posizione sociale. Il nuovo e più verosimile idealismo di Richardson riscuote un successo immediato e duraturo. In pieno XVIII secolo Pamela e Clarissa sono letture obbligate per i romanzieri. Ciò non significa che le sue innovazioni non siano messe in discussione: non è un caso che il suo più famoso oppositore, Henry Fielding, difenda l’antico approccio anti-idealista, soprattutto nella sua variante comica. Joseph Andrews (1742) e Tom Jones (1749) rifiutano la rappresentazione del comportamento idealizzato, muovendosi invece in direzione della satira. Richardson e Fielding pensano che solo un tipo di romanzo – il proprio – sia destinato a prevalere. Sotto l’influsso dell’idealismo moderato di Richardson e dello scetticismo ironico di Fielding, i lettori cominciano così a considerare il romanzo come una lunga narrazione in prosa caratterizzata da una trama articolata, prossima alla vita quotidiana e popolata da personaggi dotati sia di pregi che di difetti. Due generazioni più tardi, Walter Scott, seguito da Honoré de Balzac, assegna al romanzo un nuovo compito: rappresentare non soltanto le fisionomie morali, ma anche il contesto storico e sociale dei personaggi. Nella prefazione del 1842 alla sua Commedia umana, grande affresco narrativo della società francese del XIX secolo, l’autore esorta i romanzieri a studiare ogni specie sociale secondo il modello delle scienze naturali. Balzac si aspetta che il romanzo diventi lo strumento più attendibile per comprendere la società e il ruolo dell’individuo al suo interno. Il manifesto di Balzac non è soltanto il sintomo di una nuova fiducia nelle potenzialità del romanzo: in quest’ultimo prende forma anche un progetto di conquista. Mentre i sottogeneri narrativi della prima modernità si rivolgevano a un aspetto specifico della vita, il romanzo storico e sociale del XIX secolo aspira a offrire una rappresentazione completa e sistematica del genere umano. Non diversamente da Napoleone, il cui scopo era quello di conquistare l’Europa e fare di Parigi la sua capitale, Balzac spera di stabilire un nuovo impero della letteratura che abbia al suo centro il romanzo. Come l’Europa muove i suoi passi verso l’unificazione, anche se molto più tardi e in modo diverso da come Napoleone aveva progettato, così il romanzo diventa a poco a poco il genere letterario più influente, sebbene non seguendo esattamente il cammino immaginato da Balzac. Il romanzo storico e sociale, pur dominando la scena, ha tuttavia molti rivali e detrattori: romanzieri gotici di un certo successo, idealisti come Alessandro Manzoni e Victor Hugo, pittori della vita interiore come Jane Austen e Adalbert Stifter, scettici come Stendhal e, più tardi, Gustave Flaubert, scrittori satirici come William Makepeace Thackeray. Tutti costoro sfidano i progetti imperialisti del realismo sociale. Allo stesso tempo, grandi romanzieri come George Eliot, Fëdor Dostoevskij, Lev Tolstoj, Theodor Fontane, Benito Pérez Galdós e José Maria de Eça de Queirós immaginano modi ancora diversi di far coesistere in un romanzo gli aspetti mirabili e penosi della condizione umana. In una fase altrettanto significativa del suo sviluppo il romanzo sociale è giudicato dai romantici eccessivamente prosaico, incapace di trasportare i lettori oltre i confini della realtà quotidiana. Per alcuni fra i più importanti filosofi del XIX secolo come Hegel, Schelling e Schopenhauer il romanzo, nonostante riesca a far presa sul pubblico, rimane un genere leggero e mediocre. Qualcosa manca, qualcosa che la poesia, la musica e le narrazioni antiche – a differenza del realismo storico e sociale – sanno invece trasmettere. In risposta a tale sfida, il romanzo intraprende una nuova avventura. Tra la fine del XIX secolo e l’inizio del XX, il culto crescente della bellezza artistica spinge gli scrittori a infondere nella prosa un nuovo ardore poetico. Nella speranza di catturare sempre di più i lettori, si passa dalla narrazione di storie all’esplorazione dei recessi più profondi della psiche umana. Certo, si può discutere su quanto i giochi linguistici sempre sorprendenti di James Joyce, le frasi lunghe ed elaborate di Thomas Mann e di Marcel Proust o il lirismo di William Faulkner siano davvero in grado di rappresentare il funzionamento della mente umana, tuttavia è innegabile che il romanzo modernista con le sue tecniche sofisticate è in grado di andare oltre il successo popolare e di assi- curarsi il riconoscimento delle élite culturali.

Antico e moderno, verità e menzogna, poesia e prosa

Una delle ragioni per cui lo sviluppo iniziale del romanzo non è stato sempre compreso si deve al fatto che per molto tempo non ci sono state regole scritte che governassero la prosa narrativa. Dal Rinascimento in poi, l’epica, il dramma e la poesia sono soggetti a complessi sistemi normativi provenienti dalla Poetica di Aristotele e dall’Ars poetica di Orazio. Nel XVI e nel XVII secolo la tragedia italiana e francese obbedisce a vincoli severi: l’unità d’azione, l’ambientazione della vicenda, il decoro, la verosimiglianza. Ci sono studi teorici a profusione che dibattono sui modi in cui queste regole devono essere applicate. Per contro, le narrazioni in prosa sono serenamente ignorate dai critici letterari e dai teorici fino al XVIII secolo. Prefazioni e postfazioni, interrogandosi sull’arte del romanzo, non vanno mai oltre poche e spesso vaghe dichiarazioni sul valore della verosimiglianza, persino – o soprattutto – quando nei romanzi in questione non ce n’è traccia. La mancanza di uno statuto definito, lungi dall’intralciare lo sviluppo del genere, permette a quanti vi si dedicano di concentrarsi sui modi concreti di incontrare il gusto del pubblico. Proprio come nella giurisdizione americana e inglese non ci si limita ad applicare leggi, consuetudini e modelli precedenti, ma si considerano le peculiarità del caso singolo nell’emettere un giudizio, così i romanzieri adottano a lungo un metodo pragmatico, sentendosi liberi tanto di imitare le forme esistenti quanto di rinnovarle. Prima del XVIII secolo, infatti, quando ogni genere narrativo si orienta verso un preciso bisogno del lettore, facendolo sognare, piangere, ridere o riflettere, per molti autori in prosa è normale passare liberamente da un genere all’altro, inventando all’occorrenza nuovi modi di raccontare le loro storie. Per un drammaturgo della stessa epoca una tale libertà è impensabile. Lope de Vega, contemporaneo di Cervantes, deve giustificare il fatto che le sue tragedie non seguano pedissequamente i principi aristotelici. In questo modo riesce a placare i suoi critici spagnoli, ma poco dopo la zelantissima Académie Française censura pubblicamente Pierre Corneille che nei suoi primi drammi ha l’ardire di seguire il modello spagnolo. In uno dei suoi saggi sul teatro, Corneille confronta malinconicamente la libertà di cui gode il romanzo e i limiti posti agli autori di teatro. Qualsiasi drammaturgo italiano, spagnolo e francese del XVI o del XVII secolo è ben consapevole che Eschilo, Sofocle e Euripide, primi professionisti del settore, hanno fornito modelli immortali per questo genere. Quando alla fine del XVII secolo il valore dei modelli antichi comincia a essere messo in discussione, la differenza tra gli Antichi e i Moderni è enfatizzata da tutti i critici di entrambi i partiti: «Prima avevamo gli antichi buoni maestri, adesso quelli moderni e cattivi», si lamentano i partigiani dell’antico. «Prima i cattivi antichi maestri, adesso noi», si vanta chi sostiene i moderni. L’esistenza di un insieme codificato di regole per le opere teatrali accresce l’attenzione degli storici, mentre i romanzieri non avvertono il bisogno di soffermarsi sul passato del loro genere. Nella prima modernità gli autori di prosa esprimono sì giudizi forti, ma è raro che includano distinzioni tra antico e nuovo. I romanzieri adottano un’impostazione pratica: pensano al passato del loro genere in base ai loro obiettivi immediati. Lungi dal rifiutare l’antico in favore del nuovo, Cervantes, come molti suoi contemporanei, sostiene la causa dei romanzi antichi scoperti di nuovo – come le Etiopiche, da poco fruibili – in opposizione ai racconti cavallereschi del tardo Quattrocento e del primo Cinquecento, ovvero contro una prosa narrativa relativamente recente che si basa sui più antichi romances medievali. Il suo criterio è la verosimiglianza più che l’antichità: ama le Etiopiche perché ai suoi occhi sono fedeli alla vita, mentre l’Amadigi di Gaula e altri racconti cavallereschi gli appaiono pieni di frottole. A partire dalla metà del Settecento, la maggior parte degli scrit- tori inizia a trovare ben poco credibili sia i racconti cavallereschi che i lunghi romanzi ispirati agli antichi modelli greci. Tali opere descrivono situazioni improbabili, esibiscono un’immaginazione sfrenata, esagerano le passioni e mettono in scena personaggi inverosimilmente perfetti. Mentono tutte, idealizzando troppo la vita. Pochi fra gli scrittori del XVIII secolo accettano l’idea che i sottogeneri idealisti del passato soddisfano un importante bisogno umano – sfuggire all’autorità dello hic et nunc – proprio in virtù della loro inverosimiglianza. L’aspirazione di autori come Marivaux, Richardson, Fielding, Smollett e Sterne è quella di riorientare il romanzo in direzione dello hic et nunc. Dal loro pun- to di vista l’arretrare dell’immaginazione è un trionfo del senso comune e il segno di un progresso artistico. Vogliono ricordare ai lettori che viviamo in questo universo e non in un altro, più bello e più generoso. La “verità”, che per Cervantes solo un secolo e mezzo prima è rappresentata dall’idealismo edificante del romanzo greco, coincide ora con la conformità all’osservazione empirica. Poiché i più antichi sottogeneri idealisti sono rifiutati, l’opposizione tra “verità” e “menzogna” si sovrappone alla distinzione tra “nuovo, moderno” e “antico, obsoleto”. Una terza distinzione – tra “poetico” e “prosaico” – si rivela ben presto problematica. I romantici condannano i vincoli che il romanzo storicosociale impone alla libertà dello scrittore: ponendo in primo piano la creazione spontanea e libera da costrizioni, ritengono che il potere dell’arte dipenda dal genio individuale più che da regole e tecniche professionali. Tengono nella più alta considerazione Shakespeare, la poesia orale, le fiabe popolari, l’epica antica e medievale, i romanzi cavallereschi. Accanto all’energia poetica che scaturisce da queste opere, l’ossessione del romanzo sociale per la realtà finisce per sembrare riduttiva. Persino Hegel, che non è certo un simpatizzante del romanticismo, afferma nella sua Estetica che mentre l’epica antica e medievale ha per oggetto gli eroi, il romanzo, in quanto «moderna epopea borghese», descrive la vita della gente comune. I critici danno perciò per scontato che gli unici romanzi realisti in prosa siano stati scritti negli ultimi secoli. Sia il Don Chisciotte di Cervantes, con il suo rifiuto ironico delle storie cavalleresche, sia La principessa di Clèves di Mme de Lafayette (1678), novella tragica sulla debolezza umana, sono dotati a posteriori dello statuto di “primi romanzi moderni” e il romanzo è considerato il genere moderno per eccellenza. Con tutto ciò l’opposizione tra le “antiche menzogne” dei romanzi greci e cavallereschi e la “verità” appena portata alla luce dal romanzo moderno non dovrebbe essere sopravvalutata. Quel che li distingue è più che altro una questione di proporzioni. Le Etiopiche di Eliodoro e l’Yvain di Chrétien de Troyes (1170 circa) richiedono una sospensione dell’incredulità più drastica rispetto ai romanzi di Richardson e di Dickens. Tuttavia, anche i lettori di questi ultimi devono tollerare un numero notevole di eventi e personaggi inverosimili. Fielding, ad esempio, non riesce a prendere sul serio la storia di Pamela, come la sua parodia Shamela (1741) testimonia. In Oliver Twist di Dickens (1838) la trama pog- gia su una successione di coincidenze assolutamente inverosimili e il linguaggio stesso di Oliver, impeccabile quanto a correttezza grammaticale, suona fortemente artificioso. Eppure i lettori accettano tali “menzogne”, così come tollerano la poco credibile sequenza di disavventure che distrugge la vita di Tess in Tess dei d’Urbervilles di Thomas Hardy (1891). Neppure l’opposizione apparentemente netta tra lo slancio po- etico del romanzo antico e le preoccupazioni prosaiche di quello moderno è molto persuasiva. I racconti cavallereschi, con tutta la loro poesia, illuminano i difetti dei grandi cavalieri: la superficialità (Yvain), la sbadataggine (Perceval,1180 circa), l’eccessiva loquacità (Erec e Enide,1170 circa), la disonestà (Tristano, inizio del XIII secolo). Sette secoli più tardi gli scrittori realisti stringeranno un patto segreto con l’immaginazione romantica: soprattutto Balzac e Dickens si riveleranno maestri dell’esagerazione. I loro romanzi elettrizzeranno i lettori, tanto che definirli prosaici è una palese semplificazione. Fra tutte le distinzioni che si sono compiute tra antico e nuovo, l’unica veramente pertinente è la differenza tra epica e romanzo. Non c’è dubbio che l’Iliade (VIII secolo a.C.) e le Etiopiche appartengano a generi letterari diversi. Aggiungerei che non c’è alcuna ragione di collegarli geneticamente o di vedere il romanzo come un’epica dell’era moderna. Il romanzo non ha “preso il posto” dell’epica. Anziché affermare, come hanno fatto molti critici, che il romanzo del Settecento e dell’Ottocento rappresenta l’incarnazione moderna, borghese e prosaica dell’epica, sarebbe più esatto dire che il romanzo del Settecento e dell’Ottocento è una più recente, talvolta borghese e prosaica, incarnazione del romanzo.

Storia del genere

Questo libro segue la recente scuola critica che studia il romanzo dalla sua forma greco-antica fino al Modernismo, ma trae spunto anche da precedenti metodi di trattare il soggetto. Tra Ottocento e Novecento alcuni dei maggiori storici del romanzo hanno fatto risalire il suo sviluppo a un’epoca assai più antica. I loro libri, monumenti di erudizione e senso comune, presuppongono spesso, sotto l’influenza della teoria darwiniana, che i generi letterari evolvano e si trasformino per mezzo di mutazioni interne, non diversamente da quanto accade per le specie biologiche. Erwin Rhode è stato il primo a scrivere una “storia naturale” dell’antica prosa narrativa. Il romanzo greco è per lui l’incrocio dell’epica antica, della narrativa di viaggio e della biografia. La sua visione non va presa alla lettera, ma le sue intuizioni sulla competizione tra specie narrative e la loro possibile fusione convergono con una delle ipotesi che avanzo in questo libro – cioè che la cultura narrativa della prima modernità enfatizza le differenze tra i sottogeneri, mentre le forme di romanzo più tarde sono il risultato di molti tentativi di mescolarli. I più grandi risultati raggiunti dalla storia naturale del romanzo sono stati la sua ricerca su vasta scala temporale e l’attenzione alle differenze tra i generi. La ricchezza dei materiali raccolti nei dieci volumi della History of the English Novel di Ernest Albert Baker e l’accuratezza di molti dei suoi giudizi sui vari sottogeneri narrativi e la loro evoluzione ne fanno una fonte di informazione sempre valida. Lo stesso si può dire del libro di Felix Bobertag, Geschichte des Romans und der ihm verwandten Dichtungsgattungen in Deutschland, di Orígenes de la novela di Marcelino Menéndez y Pelajo e di Le roman jusqu’à la Révolution di Henri Coulet. La volontà degli “storici naturali” di esplorare lunghi lassi temporali è di particolare aiuto, ma la loro enorme sapienza empirica può talvolta essere di peso: non sempre queste storie danno il giusto rilievo all’arte della letteratura, alla rete di rapporti tra letteratura e ambiente sociale e culturale e tendono a fare a meno di quadri concettuali complessi. Questi limiti saranno corretti più tardi dagli storici della letteratura, che tributeranno particolare attenzione all’ambiente storico, all’evoluzione dei dispositivi formali e a concetti astratti che possono aiutare a capire l’evoluzione del romanzo. Una delle storie sociali e intellettuali più influenti è l’opera di Ian Watt Le origini del romanzo borghese. Tale studio si concentra su un esiguo numero di romanzi inglesi scritti nella prima metà del XVIII secolo. Tuttavia, le sue potenti intuizioni lo rendono una lettura imprescindibile. Secondo Watt, le opere di Daniel Defoe e Samuel Richardson, da lui considerati i creatori del romanzo realista moderno, non possono essere comprese appieno senza prendere in considerazione il contesto sociale e intellettuale della Gran Bretagna di inizio Settecento. A quel tempo gli scrittori cessano di dipendere dai ricchi mecenati e iniziano a vivere dei proventi dei loro libri, che vengono comperati e letti da un pubblico sempre più vasto. Contemporaneamente l’individualismo conquista spazio nella vita quotidiana, nel credo religioso e in filosofia e le scoperte scientifiche danno all’empirismo filosofico un rinnovato prestigio. Le opere di Defoe e Richardson, secondo Watt, rappresentano un elemento essenziale nel più vasto contesto che include lo sviluppo dell’economia di mercato, l’etica individualista e una moderna teoria della conoscenza. I temi economici, in effetti, sono sempre presenti nei romanzi di Defoe, i cui personaggi trascorrono il tempo a calcolare i loro guadagni materiali accumulati attraverso un lavoro onesto e solitario come in Robinson Crusoe (1719) o con i mezzi più squallidi come in Moll Flanders (1722). Questi temi evocano l’etica protestante e l’individualismo economico e mostrano come gli scrittori, che non possono più affidarsi alla generosità dei mecenati, si focalizzino su problematiche che destano l’interesse dei loro nuovi lettori borghesi. Watt, inoltre, sottolinea che i personaggi di Defoe e Richardson sono molto attenti ai dettagli, come se la loro stessa credibilità dipendesse dall’accuratezza con cui sono descritti. Questa tecnica, che Watt chiama «realismo formale», vuole offrire resoconti autentici di esperienze individuali concrete e perciò ha evidenti affinità con l’empirismo di John Locke e, più in generale, con la scienza moderna. Watt mostra in modo convincente che le innovazioni della tecnica letteraria dipendono da trasformazioni della struttura sociale, come l’ascesa dell’economia di mercato e il nuovo ruolo di scrittori e lettori, nonché dall’evoluzione della sovrastruttura religiosa e intellettuale – in questo caso l’etica protestante e l’empirismo. Tuttavia, Watt enfatizza eccessivamente la sua tesi. Offusca, ad esempio, le differenze tra la prosa di Defoe e quella di Richardson. È vero che le loro opere sono pubblicate nella stessa metà del secolo, ma Pamela di Richardson, pur con tutti i suoi difetti, è portatrice di un’innovazione significativa, mentre Robinson Crusoe e Moll Flanders, per quanto siano opere di straordinaria potenza, sfruttano formule narrative ben collaudate: l’autobiografia spirituale nel primo caso, il romanzo picaresco nel secondo. Inoltre, dati gli evidenti legami tra le opere di Defoe e Ri- chardson e le principali forze storiche del loro tempo, Watt presenta il loro realismo come l’unica tendenza produttiva nella storia del romanzo inglese moderno. Fielding, che si oppone al «realismo formale» e critica con forza il metodo e la visione di Richardson, offre, secondo Watt, soltanto un contributo minore allo sviluppo del romanzo. È questo il pericolo principale in cui s’incorre quando si dà eccessiva importanza alle spiegazioni sociali e culturali dei fenomeni artistici, specialmente se tali spiegazioni si adattano a un unico insieme di fatti, come accade nel caso del legame tra «realismo formale» e ascesa del capitalismo commerciale. Poiché con il tempo il capitalismo ha preso il sopravvento sui suoi antichi rivali, ritenere che anche in letteratura il «realismo formale» sia stata l’unica tendenza di successo è una tentazione molto forte. In realtà la crescita dell’economia di mercato, la progressiva diffusione dell’alfabetizzazione e il duplice successo dell’etica protestante e dell’empirismo non implicano necessariamente la supremazia del «realismo formale». Al con- trario, ciò permette a più ricette letterarie di competere tra loro, permettendo così allo sguardo satirico di Fielding di esercitare la sua influenza sull’evoluzione del romanzo. I lavori di Fielding, la cui eco risuonerà in quelli di Walter Scott e Dickens, saranno una fonte diretta d’ispirazione per molti scrittori del XIX secolo, fra cui Jane Austen, Stendhal e Thackeray. Le tecniche narrative godono di un certo grado di indipendenza dai fattori sociali e intellettuali. I formalisti russi la pensavano così e vedevano l’ascesa del romanzo come un problema di innovazioni tecniche. Per Viktor Šklovskij il romanzo per eccellenza è Tristram Shandy di Laurence Sterne, un’opera che si prende gioco di tutto quello su cui la narrativa ha sempre fatto affidamento: personaggi, trama, motivazione, amore, dialogo e riflessione. Meno estremista dei suoi amici formalisti, il critico russo Michail Bachtin concepisce una storia delle tecniche narrative che deve molto non solo al Formalismo, ma anche a Hegel e ai pensatori del tardo XIX secolo, come Wilhelm Dilthey, il quale a suo tempo ha cercato di integrare la storia delle forme artistiche in una più ampia storia dello spirito umano. Il saggio di Bachtin Le forme del tempo e del cronotopo nel romanzo illustra proprio questo tipo di ragionamento storico. Bachtin, che conosce bene il lavoro di Erwin Rohde, si rende conto che il romanzo del XVIII e del XIX secolo possiede una preistoria che comprende non solo una grande quantità di prose narrative scritte prima di Rabelais, i cui Gargantua (1534) e Pantagruele (1532) sono per Bachtin i testi fondativi del romanzo moderno, ma anche testi biografici e filosofici come le Vite parallele di Plutarco (tardo I secolo) e i Dialoghi di Platone (V-IV secolo a.c.). Esaminando gli aspetti formali di questi testi, Bachtin si accorge che nei romanzi greci l’azione si svolge in un tempo e in uno spazio astratti, che i personaggi non cambiano né evolvono e che gli episodi non si succedono secondo un ordine causale. Convinto che queste caratteristiche tradiscono una mancanza di abilità formale, Bachtin sostiene che esse sono definitivamente abbandonate solo quando i realisti del XIX secolo imparano a rappresentare il tempo e lo spazio in modo dettagliato e concreto e cominciano a padroneggiare la rappresentazione dell’evoluzione psicologica e la sequenza causale degli episodi. La descrizione formale dei romanzi greci compiuta da Bachtin è accurata, eppure, sebbene comprenda le caratteristiche formali di quei romanzi, il critico russo trascura la logica profonda del loro universo narrativo. Nella rappresentazione artistica di solito la forma è legata strettamente al contenuto, è una parte essenziale di quel che la rende comprensibile e ricca di significati: non basta sostenere che nei romanzi greci il tempo e lo spazio sono astratti, che la psicologia è rigida e che gli eventi accadono in modo troppo arbitrario. Per considerare tali opere insoddisfacenti bisognerebbe riflettere sulle ragioni che si celano dietro le loro qualità formali e mostrare che queste non aiutano a trasmettere il messaggio desiderato. Bachtin, tuttavia, tocca raramente il tema del significato che le tecniche da lui descritte esprimono. La sua storia dei metodi narrativi non si cura molto nemmeno dell’ambiente (sociale, intellettuale e artistico) da cui emergerà poi il realismo sociale ottocentesco. Bachtin non si chiede mai perché i dettagli e la verosimiglianza psicologica dei romanzi ottocenteschi hanno finito per sostituire ciò che egli stesso considerava astratto e improbabile nelle opere più antiche. Tralasciando questo problema, trasforma la storia delle tecniche narrative in un mero inventario di forme. La volontà di dare forma artistica può certo esprimere la libertà dello spirito umano, come hanno sostenuto molti storici della cultura tedeschi del XIX secolo, ma è altrettanto vero, come ha dimostrato Ian Watt, che questo spirito non crea la forma artistica in uno spazio vuoto, scevro da ogni legame con la realtà della vita sociale e intellettuale. Per spiegare l’evoluzione delle tecniche narrative Bachtin formula un’ipotesi che collega le forme premoderne del romanzo al loro ambiente sociale. Afferma che nell’Europa medievale e in quella della prima modernità un’ideologia feudale che non dà peso alle categorie spaziali e temporali si scontra con un credo popolare anti-ideologico più sensibile alle condizioni di vita concrete. In quanto prodotti dell’ideologia feudale, i romanzi greci e le narrazioni medievali trattano lo spazio e il tempo in modo astratto, mentre le forme di letteratura popolare come la farsa, la parodia e la satira, incarnando il credo popolare, preparano la strada a opere come Gargantua, Pantagruele e Don Chisciotte, che esprimono un punto di vista comico e concreto. Il critico russo suggerisce che alla fine il credo popolare conquista il romanzo, dandogli una direzione nuova e anticonvenzionale che favorisce l’ascesa del realismo sociale moderno. Se le riflessioni di Bachtin sull’ideologia colgono la differenza tra la visione comica e quella idealizzante delle narrazioni medievali e della prima modernità, le sue ipotesi sociologiche non reggono a un’analisi approfondita. È difficile credere che un’ideologia autenticamente feudale abbia ridotto al minimo il peso delle categorie spaziali, dato che pochi sistemi sociali sono più dipendenti da considerazioni di tipo territoriale: il fondamento del sistema feudale è una difesa militare locale, organizzata in castelli fortificati circondati da villaggi. Le categorie temporali sono ugualmente importanti per il feudalesimo, visto che la maggior parte delle posizioni sociali è ereditaria e ciò rafforza il senso della tradizione e il rispetto per le cronache. Inoltre, sarebbe controintuitivo considerare la complessità, l’erudizione e il brio retorico di Gargantua, Pantagruele o Don Chisciotte come espressione di un’ideologia popolare antifeudale. Sebbene Rabelais e Cervantes si ispirino a un’antica tradizione comica, i loro libri sono il prodotto di una cultura umanista sofisticata i cui legami con il mondo popolare risultano piuttosto vaghi. Una storia che prende in considerazione soltanto i dispositivi formali non ha i mezzi per descrivere la relazione tra letteratura e società, figurarsi per spiegare le ragioni per le quali i mondi di invenzione creati dai romanzieri accendono l’immaginazione dei loro lettori. Un quarto tipo di analisi storica, la storia riflessiva del romanzo, si assume questo compito e si concentra sullo sviluppo interno del genere e sui suoi legami con il mondo dello spirito umano. Il saggio giovanile di György Lukács, Teoria del romanzo, è un esempio importante di questa tipologia. Lukács ritiene che per comprendere lo sviluppo storico del romanzo se ne debba esaminare il concetto, cioè il modo in cui l’opera romanzesca ritrae il mondo, le sue fasi e i suoi cambiamenti. Per Lukács la narrativa esplora il legame tra gli uomini in quanto individui e la società in cui vivono, rappresentazione per altro difficile da raggiungere a causa della tensione tra le aspirazioni individuali e i vincoli imposti dal mondo. Come molti studiosi formatisi in Germania tra il XIX e il XX secolo, il giovane Lukács idealizza la polis greca immaginandola come la forma più perfetta e armonica di civiltà. Il genere dominante di quel periodo secondo Lukács è il poema epico. Nell’Iliade, ad esempio, si descrivono le azioni di uomini eroici che comprendono e accettano la grandezza del mondo. Più tardi, a un’altezza storica che Lukács non indica precisamente, quando il significato del mondo diventa incerto e difficile da racchiudere in un unico, potente sguardo, l’epica lascia il posto al romanzo, un genere che si specializza nel mostrare un universo imperfetto e descrive personaggi che non riescono ad adattarvisi. Secondo Lukács, questi personaggi non accettano pienamente la legittimità del loro mondo — non lo abitano nel senso proprio del termine, tanto che le loro vite acquistano significato soltanto in relazione a un mondo ideale. Tale mondo ideale, tuttavia, non esiste al di fuori dei desideri del protagonista. Lukács chiama i personaggi desideranti «eroi problematici». Il più famoso è Don Chisciotte, l’hidalgo, i cui ideali di cavaliere errante che combatte generosamente per difendere orfani, vedove e damigelle perseguitate esistono solo nella sua mente sconvolta. Lukács aggiunge che più tardi i protagonisti di Iperione di Friedrich Hölderlin (1797-1799) e di Eugénie Grandet di Balzac (1833) rappresenteranno quella stessa tipologia. L’idea di un «eroe problematico» e la tensione tra i suoi ideali e la realtà generano un movimento dialettico che comprende tre momenti: quando il mondo ideale dell’eroe è più limitato di quello reale ed egli non vede la distanza che li separa, Lukács chiama la situazione che ne deriva idealismo astratto. Don Chisciotte ne è l’esempio più emblematico. L’ideale in cui crede si può applicare solo a una modesta frazione dei rapporti umani possibili – solo a quelli che riguardano carità, generosità e sacrificio di sé – e per questo i suoi tentativi di realizzare tale ideale non possono che essere fallimentari. Quando l’ideale immaginato dal protagonista è più grande del mondo che lo circonda, lo scontro conduce a quella che Lukács chiama disillusione romantica: il personaggio è conscio della distanza tra ideale e reale, ma non ha la forza o i mezzi per superarla. Lukács illustra questo secondo tipo di situazione attraverso il protagonista del romanzo Oblomov (1859) di Ivan Gončarov, un sognatore russo che se ne sta sempre a letto e non combina mai nulla. Nel terzo momento dialettico «l’eroe problematico», pur restando fedele al suo ideale, si sforza di ottenere una riconciliazione duratura con la realtà circostante: è ciò che accade negli Anni di apprendistato di Wilhelm Meister di Goethe (1795-1796) e se ne possono trovare molti altri esempi nel Bildungsroman del XIX secolo. Lukács fonda la sua teoria del romanzo su concetti astratti anziché su dati empirici, cosa che lo incoraggia a proporre categorie nuove e più vaste in grado di affrontare problemi umani profondi e che gli permettono di scegliere gli esempi senza basarsi sui soliti criteri cronologici: i tre libri che utilizza per illustrare la dialettica del romanzo, Don Chisciotte, Oblomov e Wilhelm Meister, formano una sequenza inattesa. Eppure, nonostante il desiderio di Lukács di evadere dalla mera cronologia, la sua visione è confinata in orizzonti temporali un po’ angusti. La dialettica dell’«eroe problematico», che pure è assai pertinente nei romanzi pubblicati tra la fine del XVII secolo e la metà del XIX, non è in grado di render conto di quelli scritti prima o dopo quel lasso di tempo. Se si esclude Don Chisciotte, Lukács non prende mai in considerazione i romanzi scritti prima del Wilhelm Meister. Il critico ungherese, inoltre, non presta molta attenzione al ruolo del talento individuale. Ad esempio, né «l’idealismo astratto» né «la disillusione romantica» né la sintesi delle due possono spiegare adeguatamente la complessa relazione tra i personaggi di Tolstoj e il loro ambiente. Quando afferma che i romanzi di Tolstoj rappresentano un ritorno a un tipo di epica più antico, Lukács non vede le innovazioni del romanziere russo. Dando eccessiva importanza a schemi dialettici impersonali, tralascia i contributi imprevedibili dei singoli scrittori.

 Questo lavoro: ipotesi di partenza e obiettivi

Come nelle “storie naturali del romanzo”, anche se certo in modo meno dettagliato, in questo lavoro disegno un panorama dello sviluppo del genere. Dalla storia delle tecniche narrative ho preso a prestito l’abitudine di esaminare l’arte del romanzo e i suoi metodi formali. Alla stregua degli storici sociali della letteratura, guardo le evoluzioni dei generi letterari da una prospettiva culturale più ampia. Tuttavia, ed è la cosa più importante, devo molto alla storia riflessiva del romanzo. Il mio libro vorrebbe inglobare le vite mutevoli del romanzo, il loro patto segreto con le strutture stabili e il dialogo che i romanzieri hanno intrattenuto l’uno con l’altro attraverso i secoli. Non traccio una linea temporale che separa un “prima” e un “dopo”, oltre alla quale il passato del romanzo, come dice Constantin Fasolt in The Limits of History, è assente e immutabile — in altre parole, morto e sepolto. Avvicinandosi ai romanzi più antichi come a una letteratura vivente, anziché come a documenti storici fossilizzati, questo libro spera di farne rivivere il fascino…

[Immagine: JR, Street art, Parigi (gm)].

1 thought on “Le vite del romanzo

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