di Giacomo Magrini
[Da qualche settimana è in libreria una raccolta di Saggi critici di Giacomo Magrini, pubblicata a Pisa da Pacini. Proponiamo uno dei contributi più agili (e più belli) fra quelli che compongono il volume, dedicato alla poesia di Amelia Rosselli e uscito per la prima volta nel 1999]
In una delle Variazioni del libro Variazioni belliche di Amelia Rosselli, leggiamo: «Dentro / della notte che non chiudeva mai finestra vi era un calzolaio / che rimava anche lui a perfezione».
Come intendere quest’ultima proposizione? Viene spontaneo di svilupparne il sottinteso: anche lui, il calzolaio, rimava, come coloro cioè il cui mestiere è rimare, come i poeti. Anche il calzolaio è un poeta. Per di più, si dice, rimava a perfezione.
Ma in che senso il calzolaio è un poeta?
Forse nel senso di Hans Sachs, il poeta-calzolaio del Cinquecento, che diventa protagonista dei Maestri cantori di Norimberga di Wagner? Si guardi, in quest’opera, come la doppia attività di Sachs venga posta in primo piano ed esplorata in tanti suoi risvolti. Ma la concezione artigianale dell’arte, di qualsiasi arte, dominante nei Maestri cantori, blocca tutte quelle variazioni sul fare scarpe e versi in un arcaismo apologetico.
Amelia Rosselli non vuole proporci, né qui né in generale, una concezione artigianale dell’arte, col suo inevitabile alone di apologia dell’arcaico. Il suo calzolaio rimante a perfezione, che cioè fa combaciare e accorda le parti di cui si compongono le scarpe, e anche le scarpe fra loro, la destra e la sinistra per esempio, il suo calzolaio non sta chiuso nella propria bottega, ma «dentro della notte che non chiudeva mai finestra». La chiusura propria del rimare è accompagnata, anzi è preceduta, da questa apertura illimitata.
La parola latina rima e il deponente rimor non sono etimologicamente connessi con i loro omonimi romanzi. In latino rima significa fenditura, spaccatura, naves rimis dehiscunt, dice Virgilio, cioè fanno acqua, e il verbo può implicare violenza: rimari terram nastris, ancora Virgilio, cioè aprirla, romperla. È poi avvenuto un passaggio di senso interessante. Siccome nella lingua degli àuguri rimari significava fendere le viscere per esaminarle, ne è venuto, nella lingua comune, il senso di sondare, esplorare, esaminare, frugare: vultur viscera rimatur epulis, ancora Virgilio, fruga, dilania per trovar cibo. È poi da non dimenticare, di Terenzio, il plenus rimarum sum, son tutte crepe, non posso tener nulla, sono indiscreto, spiffero i segreti, che già aveva colpito Victor Hugo, che si era compiaciuto di far argutamente cozzare il senso latino e quello romanzo della parola.
Per diversa strada, rima e rimor latini ci conducono alla poesia, per esempio alla sua volontà di esplorazione, oppure alla sua capacità di confessione, di disarmare le difese e abbattere le barriere.
Molto probabilmente il calzolaio di Amelia Rosselli fabbrica prodotti perfetti, scarpe ben connesse, accordate, rimanti in sé e fra loro, quell’opera d’arte, come dice lo Hans Sachs wagneriano, il cui unico difetto è che «il mondo la calpesta sotto i piedi», cioè che può e deve venir usata; solo che egli lavora «dentro la notte che non chiudeva mai finestra», conficcato, si direbbe, in una dimensione che rimanda molto di più al senso latino che a quello romanzo di rima.
Passano vent’anni dalla prima rappresentazione dei Maestri cantori, e Vincent Van Gogh dipinge Vieux souliers aux lacets, Les souliers, ancora Les souliers, Trois paires de souliers, ancora Les souliers. Sono scarpe sformate, ondulate, beanti, colte in una solitudine che il loro andare per coppie non attenua, anzi esalta, e il cui più evidente pregio è di aver servito, di essere state usate, di essere la figura stessa dell’uso. Sono opere d’arte. Senza cessare di essere ancestralmente solide e ottuse, sono davvero piene rimarum, non la finiscono più di rivelarci il loro segreto.
In un’altra delle Variazioni, leggiamo la seguente frase, stupefacente e bellissima, che è, in sé stessa, un endecasillabo: «Per un paio di scarpe mi vendevo». Nel medesimo testo, che è brevissimo – tre righe e un bianco –, si dice «il mio verso insonne». Normalmente le scarpe si comprano, o si vendono, ma Amelia Rosselli dichiara: «Per un paio di scarpe di vendevo».
È qui che cade con tutta la sua forza la fiaba di Andersen Le scarpette rosse, scritta vent’anni prima dei Maestri cantori. Ritornerò più avanti sul nucleo fondamentale di questa fiaba. Per ora voglio richiamare l’attenzione su di un nesso cromatico. Sul rosso delle scarpette si staglia, per due volte, la «lunga veste candida dell’angelo». Ma – più interessante ancora – la principessina di passaggio, che depone, nella fiaba stessa prima ancora che nel cuore di Karen, il seme del desiderio, è «tutta vestita di bianco», e «ha delle splendide scarpette di marocchino rosso»; e del «vecchio soldato» appostato con la sua stampella davanti alla chiesa, il quale emette l’ordine fatale («Che belle scarpette da ballo! Aderite bene ai piedini quando ballate!»), si dice che ha «una lunga barba stranissima, più rossa che bianca (perché era proprio stata rossa)». Infine, non va trascurato il fatto che il colore dei piedi e quello delle scarpe vengono posti in rapporto più di continuità che di contrasto, proprio all’inizio della fiaba: «d’inverno portava degli zoccoloni di legno, così che il collo dei suoi poveri piedini delicati diventava rosso rosso che faceva pena a vederlo». Quasi che il rosso della povertà e della privazione faccia una cosa sola con quello del lusso, della vanità e della gioia.
Quello che ho chiesto vi fosse distribuito rappresenta l’inizio, testuale non cronologico, dell’opera di Amelia Rosselli. Ciò basta a dirne, a situarne, l’importanza. Ne do lettura.
Roberto, chiama la mamma, trastullantesi nel canapè
bianco. Io non so
quale vuole Iddio da me, serii
intenti strappanti eternità, o il franco riso
del pupazzo appeso alla
ringhiera, ringhiera sì, ringhiera no, oh
posponi la tua convinta orazione per
un babelare commosso: car le foglie secche e gialle rapiscono
il vento che le batte. Nera visione albero che tendi
a quel supremo potere (podere) ch’infatti io
ritengo sbianchi invece la terra sotto i piedi, tu sei
la mia amante se il cielo s’oscura, e il brivido
è tuo, nell’eterna foresta. Città vuota, città piena, città
che blandisci i dolori per
lo più fantastici dei sensi, ti siedi
accaldata dopo il tuo pasto di me, trastullo al vento spianato
dalle coste non oso più
affrontare, tempo la rossa onda
del vero vivere, e le piante che ti dicono addio.
Rompicollo accavalco i tuoi ponti, e che essi siano
la mia
natura.
Non so più
Chi va e chi viene, lascia
Il delirio trasformarti in incosciente
tavolo da gioco, e le ginestre (finestre) affacciarsi / spalmando il tuo sole per le riverberate vetra.
È una poesia molto ricca, della quale voglio commentare alcuni elementi. Innanzitutto, ricollegandomi alla fiaba di Andersen, la curva cromatica che in essa si disegna. Essa va dal «canapè / bianco» alla «rossa onda / del vero vivere», passando per il giallo e per il nero e, soprattutto, per quell’esatta gradazione rappresentata dallo «sbianchi» centrale. Sbiancare non è imbiancare: nel sistema lessicale delle Variazioni belliche essi forse si oppongono, memore, il secondo, degli evangelici sepolcri imbiancati. Si confrontino, infatti, «Il quartiere sbiancava sbiancava ed era tutto un dormire il suo aspettare», di una Variazione, e «Contro ogni tentativo della sorte suonava uan freccia imbiancata: / la noia», di un’altra Variazione. Il bianco in quanto tale appartiene al campo dell’Altro, specialmente, ma non solo, al campo dell’Amato. Eccone gli esempi: «quella fila di perle tu porti ogn’ora slacciato sul tuo perleo / collo»; «per le tue virginee denta»; «Porta / la notte ad un altro albergo scendi dal tuo lettuccio candido»; «se per il tuo lume d’avorio / e di circostanza io comprendevo la luce»; «Io non so se la tua pelle liscia e bianca è contesa dai / grumi della mia pelle stanca e liscia». Al di là del campo dell’Amato, e come sua conferma ed estensione, a questi passi vanno aggiunti: «e che tutti i fiori bianchi della riviera, e / che tutto il peso di Dio / battano sulle mie prigioni»; siccome troppo hanno i miei usati sensi visto del mondo che si stende / come una lunga farina»; Sempre candido fu l’amore». C’è poi una zona di confine e di confronto, rappresentata da passi come: «Se tu la mia tomba vorrai sfiorare con le delicate mani / poni una pietra di ferro e di peso sulla bianca lastra che mi / copre»; «E la mia collana di ideali […] è un sogno / più reale della tua luce candita pressata nella macchina di oggi»; «Ma se con luce candore pregavo i grandi di dirmi dov’era / l’ora del candore». Un po’ a sé sta: «Sempre / delicata e di una grande bontà la fanciulla con le lunghe / treccie bianche s’addormentava sul sofà», che però ci riporta alla frase iniziale della nostra poesia. Nel «canapè bianco» è da vedere la pagina bianca e, insieme, la luce, in quanto prima creatura. Subito dopo è infatti nominato Dio. In questa prima frase, che è dunque un inizio in senso molto forte, viene mostrato, per così dire, l’ozio della creazione ma anche la sua forza d’appello. Sono questa forza svogliata e quell’ozio intenzionato a determinare la difficoltà di capire la volontà di colui che chiama («Io non so se / quale vuole…»). Serietà o riso? Giustamente siffatta volontà è supposta volere una scelta tanto estrema. Di fronte alla quale si chiede una tregua, si opta per un momentaneo «babelare commosso», una confusione delle lingue, che è chiacchiera (dal francese babil e al tempo stesso glossolalia. Infatti, se il vento della creazione imperversa contro i frammenti inariditi della creatura, questi pur tuttavia portano con sé quel vento e testimoniano di lui. (E si confronti, nella poesia Dialogo con i Poeti, una delle rarissime provviste di titolo, in Serie ospedaliera: «Da poeta in poeta: / simili ad uccellacci, che rapiscono il vento / che li porta e contribuiscono a migliorare la / fame»). È così e in questo frangente che nasce il mondo, nella duplice forma della foresta e della città. Sia l’una che l’altra mantengono stretti legami con il Dio oscuro ed esigente. Con l’albero si può avere un rapporto d’amore, ma a patto dell’assenza del Dio e, in ogni caso, con l’appartenenza all’albero del segno sensibile d’amore, «il brivido». La città «blandisce i dolori», ma svela subito il suo volto primitivo di moloch. La parola che definiva l’ozio della creazione, la stessa definisce ora la tirannia sulla creatura, del tutto impaurita e sgomenta. Nello smarrimento della fuga e dell’ignoranza, soltanto una calcolata confusione delle proprietà del mondo e un’assunzione attiva e della tirannia inflitta possono offrire una chance, aprire lo spiraglio a una luce, certo non originaria, a una luce fatta di diffusa, caparbia e molteplice resistenza.
Quando Amelia Rosselli scrisse questa sua poesia, poteva conoscere le prime tre raccolte di Montale, che si possono considerare (anche se in seguito Montale ha scritto e pubblicato molto altro) come un ciclo in sé compiuto. Le conosceva talmente bene, che un appunto del suo Diario in tre lingue dice: «ici on parle comme Montale…», e credo lo si possa intendere: qui in Italia non si parla italiano, si parla montaliano. È un’arguzia, una stoccata, un segnale di malumore? Non credo. Si tratta di una calma e seria scoperta. È possibile mostrare quanto materiale montaliano, linguistico, di immagini e di pensieri, graviti e persino gravi su questa poesia di Amelia Rosselli. Mi limiterò a quello più cogente, e leggerò soltanto i passi montaliani, e chi mi ascolta non ha che da tenere il testo sott’occhio per effettuare i collegamenti. «Noi non sappiamo quale sortiremo / domani, oscuro o lieto» (Mediterraneo VI); «dato mi fosse accordare / alle tue voci il mio balbo parlare» (Mediterraneo VIII); «tutto /arretrerà dentro un disfatto prisma / babelico di forme e di colori» (Carnevale di Gerti); «Spendersi era più facile, morire / al primo batter d’ale, al primo incontro / col nemico, un trastullo» (L’ombra della magnolia); «e ancora ignoro se sarò al festino / farcitore o farcito. L’attesa è lunga, / il mio sogno di te non è finito» (Il sogno del prigioniero); «gli atti / scancellati pel giuoco del futuro» (In limine); «e il calcolo dei dadi più non torna» (La casa dei doganieri); «A lei ti sporgi da questa / finestra che non si illumina» (Il balcone); «ma un guizzo accende i vetri» (Eastbourne).
Qual è il senso di questa ampia presenza di Montale in una poesia che non assomiglia affatto a quelle di Montale? Altri due appunti del Diario in tre lingue ci possono aiutare ad afferrarlo: «Montale – procedimento surrealista non nelle immagini (le quali sono realiste, minute) ma nell’accostamento delle vocali, non abusato, controllatissimo; ritmo Montale – la religiosità intensa (trad. da Inglese; Bibbia) (endecasillabo forma religiosa?)» Amelia Rosselli sente dunque in Montale la naturalità della lingua, il surrealismo fonemico e la religiosità ritmica, nella loro intima connessione, sente cioè quello che nessun altro letterato italiano vi aveva sentito o vi sentiva. Mentre gli altri intrattenevano per lo più con la poesia di Montale un rapporto ambiguo, astuto, ammiccante, la sua particolare visione consente ad Amelia Rosselli di instaurare con essa uno schietto rapporto d’amore. Come appare chiaramente anche da tante altre sue poesie, Amelia Rosselli, nella generosa casualità con cui accoglie parole, movenze, versi montaliani, si comporta con Montale come con un ospite che arrivi incappottato o addirittura corazzato: gli si dice di spogliarsi, di gettare dove vuole gli indumenti fastidiosi o superflui, di sedere, di scaldarsi. Lo si invita, insomma, ad abbandonare la propria leggenda («La tua leggenda, Dora!»). Ma questo rapporto d’amore con la poesia di Montale non vale e non termina in sé stesso. Esso è soprattutto un simbolo pregnante. Pregnante per tre motivi: perché si tratta di poesia; perché la poesia di Montale non è e non vuole essere amabile; perché l’essere o il diventare la poesia di Montale poesia d’amore non è affatto un dato, come vuole una pigra tradizione, ma una questione, è ciò che va dimostrato e deciso. Spetta al lettore questo compito, e Amelia Rosselli è un tale, raro, lettore. Si tratta di quello che lei stessa scrive chiudendo una delle Variazioni, tra le più semplici e trasparenti: «Se l’amore non esistesse bisognerebbe (e io pò) / inventarlo».
Il rapporto d’amore con la poesia di Montale simboleggia dunque in modo pregnante il nucleo costante e centrale dell’intera opera di Amelia Rosselli: appunto l’amore.
Ma io non credo che l’amore, il désordre amoureux, sia all’origine di quel fenomeno formale che per primo Pasolini indicò come caratterizzante la sua arte, cioè il lapsus; non credo, più in generale, che l’amore e l’inconscio abbiano, in Amelia Rosselli, partie liée. Piuttosto, la sua opera sta a dimostrare che l’amore e l’inconscio vanno in senso contrario, più esattamente, che l’insuccesso dell’inconscio è l’amore.
L’ultimo testo che voglio proporre alla vostra attenzione e commentare, mette in relazione le scarpe e l’amore. Lo leggiamo nella sezione Poesie di Variazioni belliche: «certe mie scarpe strette, sì vilmente mi causano torture / son paragonabili così come la tua / ascia di perle d’amore». Vi troviamo concentrati i tre elementi su cui mi sono più soffermato: le scarpe, il bianco (le perle), l’amore. La ridondanza dei segni linguistici del paragone indica l’importanza attribuita al rapporto posto, spinge verso l’identità dei due termini. La ridondanza segnala altresì la necessaria cautela e esitazione davanti all’oggetto, è la velatezza nella quale soltanto si svela il fallo. Le mie scarpe strette e il tuo fallo ricco di sperma sono la stessa cosa, per le torture che causano. Ecco di nuovo le scarpette rosse di Karen, che la tormentano al punto che chiede al boia di tagliarle piedi e scarpe, «e il boia le tagliò via i piedi con le scarpette rosse, ma quelle continuarono a danzare, con dentro i piedini, attraverso i campi, verso il bosco nero». Questo ci dice che la castrazione è la legge di continuità del desiderio. Come Karen, Amelia Rosselli ha messo le sue scarpette rosse, che l’hanno posta d’emblée e mantenuta costantemente su un piano diverso e irriducibile, che non lascia intravedere un qualsiasi piano di partenza, di cui quello sia la traduzione o la metafora. Le scarpette rosse non sono scarpe ritinte. Amelia Rosselli non ha però chiesto al boia di tagliarle. L’ascia del boia, mutilando, libera un desiderio acefalo e sfrenato, e abbandona il soggetto alla sua contrizione impotente. L’ascia di perle d’amore non taglia via le scarpe strette, ma le rispecchia, rima, coincide con esse; non è strumento di castrazione ma la castrazione stessa, in quanto il fallo ne è la sede. È qui che sorge e si articola la dimensione dell’amore, estranea alla fiaba. L’opera di Amelia Rosselli mostra il legame tra il mondo della fiaba e il mondo della poesia, tra il desiderio e l’amore; soprattutto mostra la loro differenza.
[Immagine: Scarpette rosse].
Analisi approfondita, attenta,che usa il metodo stilistico, ma amche le consonanze di stato d’animo di chi ha compreso, sentito perfettamente la poesia di Amelia, e azzarda anche un confronto con il linguaggio montaliano.
Per chi vuole veramente entrare e sentire la poesia.
Poiché un saldo filo rosso lega La libellula (1958) all’ultimo poemetto dell’autrice, è
utile soffermarsi qualche istante su questo primo testo per comprendere meglio “il
salto” effettuato successivamente dalla poetessa in Impromptu.
L’immagine dell’insetto che librandosi leggero nell’aria comunica un’idea
d’imprendibilità e di libertà, il sottotitolo de La libellula, “panegirico della libertà”, è
usato da Rosselli per alludere in modo paradossale ad una condizione di vincolo e
d’impedimento. In una nota intervista la poetessa illustra una propria originale
interpretazione del termine “panegirico” che tradisce il significato convenzionale del
vocabolo:
“Lei però vorrebbe sapere perché ho messo come sottotitolo tra parentesi “panegirico della libertà” […]
Io non ho capito il termine libertà per anni, anzi credevo nello stato di necessità. Questa parentesi voleva
essere un sottointeso assurdo perché nessuno lo poteva indovinare, voleva dire il giro del pane. Lo
raccontavo al massimo ai miei amici. Panegirico: il giro del pane.”
Impossibile dunque, nonostante la spinta verso l’ideale, prescindere dal pane, dai
concreti bisogni dell’esistenza, così come nella corsa verso la libertà del canto è
impossibile sciogliere i vincoli con la tradizione letteraria. La libellula è il tentativo di
andare oltre le stanche e consumate parole del codice poetico, è il sogno di una lingua
poetica che si libera dalla menzogna. Ma è anche il fallimento di questo ideale di libertà
perché il poemetto sancisce l’indissolubile legame con i poeti della tradizione dalle cui
concrete parole è impossibile prescindere. Per questo il testo si struttura attorno ad un
ininterrotto e sofferto dialogo intertestuale.