cropped-erwin_olaf_-_irene.jpgdi Clotilde Bertoni

[Questo articolo è uscito su “Alias-Il Manifesto”].

A furia di parlare di “amore liquido”, di labilità dei rapporti, di timore di impegnarsi, si fa facilmente confusione. Soprattutto, perché si dimentica che quelle incoerenze e ambiguità dei sentimenti su cui stiamo tanto ad affannarci, non sono novità dei nostri tempi di libertà sessuale e separazioni veloci, ma caratterizzano già le epoche più varie, beninteso represse a lungo dalla morale e dalle istituzioni, sempre invece messe a nudo dalla letteratura: dal teatro classico come dalla novellistica, da Shakespeare come dal romanzo libertino, fino alle tante opere che lungo l’Ottocento sfatano sia le mitologie romantiche più ingenue, sia gli interdetti e i tabù scudo della famiglia borghese.

Ne costituisce un ulteriore, pregnante esempio un libro tra i più dimenticati di Émile Zola, Naïs Micoulin e altri racconti, che esce ora da noi (Pellegrini, pp. 280, E 18, 00), tradotto da Paolo Fontana e corredato di un’acuta prefazione del miglior studioso italiano dell’autore, Pierluigi Pellini, curatore anche di un’imponente edizione delle sue opere principali, attualmente in corso d’uscita per i “Meridiani”. Pubblicato alla fine del 1883, Naïs Micoulin assembla – come un volume dell’anno prima, pure ripresentato di recente ai lettori italiani, con il titolo Per una notte d’amore, sempre tradotto da Fontana e introdotto da Pellini – alcune novelle composte tra il 1875 e il 1880 per la rivista pietroburghese «Viestnik Evropy» («Il Messaggero d’Europa»). Si tratta di sei novelle, di taglio molto differente, che mettono però tutte l’accento sui guasti e sulle contraddizioni dei rapporti amorosi, e che tutte prendono una piega avvincente in Zola insolita: il maestro del naturalismo, così ostile agli intrecci macchinosi e stereotipati, così attento a evitarli nel grande ciclo dei Rougon-Macquart, qui invece – mosso forse dalla necessità di cattivarsi alla svelta un pubblico straniero ma forse pure dalla libertà di variare e di osare che la forma breve spesso sollecita – attinge a piene mani ai copioni del melodramma e della pochade, allinea vicende trascinanti di amori illeciti, nozze senza amore, adulteri veri o presunti, delitti commessi o vagheggiati: a volte scivolando in effettacci di repertorio, a volte ottenendo effetti di intensa originalità, comunque dando al tema sentimentale nuovo energico impatto.

Specialmente perché l’instabilità delle passioni messe in scena risulta epicentro di altre instabilità: quella complessiva dei contesti – il secondo Impero o la terza Repubblica agli albori – sempre lacerati, divisi tra nostalgie passatiste, spinte incerte di metamorfosi, dominio opprimente degli interessi economici; e quella particolare dei personaggi, eterogenei, ma tutti disorientati, vulnerabili, oscillanti tra slanci parossistici dell’iniziativa e suoi irrimediabili affievolimenti.

La Naïs Micoulin eroina eponima del racconto e del volume, che in principio risplende di vigore come un’«amazzone antica», e che difende il suo amante e se stessa rivoltandosi contro la tirannia a sfondo incestuoso del padre padrone, si rivela una Beatrice Cenci senza gloria, la cui ribellione si spegne subito nella malinconica rassegnazione a una sistemazione di ripiego. Il protagonista a sua volta eponimo di Nantas, provinciale che compie la conquista di Parigi meglio di tutti gli eroi balzacchiani, divenendo imprenditore di successo e ministro, è spinto dall’infelicità amorosa a interrogarsi sul senso delle sue ambizioni rapidamente appagate, finendo per giudicarle solo uno «spreco di volontà» – peccato poi che questo abbozzo di introspezione psicologica sia risucchiato da un affastellamento improbabile di colpi di scena coronato da un ancor più improbabile happy end (il testo rielabora uno spunto già utilizzato per il secondo romanzo dei Rougon-Macquart, La Curée, ma in chiave così spudoratamente mélo da rendere la trama simile piuttosto a quella di un tremendo, a lungo popolarissimo polpettone uscito nel 1882, Il padrone delle ferriere di Georges Ohnet). Nella Morte di Olivier Bécaille e in Jacques Damour, l’impossibilità di uomini creduti morti di riappropriarsi della propria esistenza (motivo letterario di lunga durata, reso già celebre dal Colonnello Chabert di Balzac, e poi ripreso dal Fu Mattia Pascal pirandelliano) diventa modo di evidenziare non solo la fragilità delle relazioni coniugali ma anche altre inadeguatezze: nel primo quella del protagonista – inetto già analogo ai tanti che di lì a poco affolleranno la narrativa primonovecentesca – messo dalla morte apparente di fronte alla propria incapacità di vivere davvero; nel secondo quella di una comunità intera, perché né il personaggio reduce a sorpresa, né la moglie, la figlia, l’amico di un tempo risultano all’altezza degli ideali della Comune la cui sconfitta li ha separati (sempre oscillante tra impegno e scetticismo, Zola qui presenta come esaltazioni velleitarie gli slanci rivoluzionari a cui darà tanto marcato e problematico risalto in Germinal).

   Infine, nei due racconti umoristici della raccolta, Madame Neigeon e I frutti di mare del signor Chabre (che anticipano curiosamente i toni e le atmosfere caratteristici di uno scrittore tanto vicino a Zola quanto solitamente da lui diversissimo, Maupassant), l’avventura erotica, consumata o fallita, è l’unica valvola di sfogo per la vitalità di due ragazzoni mortificati dalle rigide direttive di famiglie conservatrici e da anguste prospettive di riuscita borghese, esemplificate proprio dai mariti delle donne che corteggiano: nei Frutti di mare, uno scialbo commerciante, cocu magnifique da manuale, in Madame Neigeon un deputato buono per ogni combinazione perché privo di idee proprie, incarnazione della «mediocrità politica in tutto il suo splendore», che, evocato continuamente, non compare mai in scena, quasi a dimostrare come quella mediocrità sia insieme onnipresente e opaca, sostanzialmente indegna di considerazione.

Le disfunzioni dei rapporti e della volontà sono in tutti i racconti controbilanciate dalla forza delle pulsioni, delle manie, degli automatismi, per la produzione naturalista costante oggetto di interesse. Forza che ha per lo più manifestazioni meschine o ridicole: nella Morte di Olivier Bécaille l’istinto di conservazione che vince il desiderio di annientamento del protagonista, spingendolo, anzi costringendolo a salvarsi; in Jacques Damour l’«istinto di brava commerciante» della bottegaia attenta all’incasso persino subito dopo il confronto con il marito redivivo; in Nantas l’accanimento nel lavoro del ministro, che, decidendo di sorprendere e beninteso uccidere nottetempo la moglie creduta fedifraga, pensa che avrà poi modo di completare prima dell’alba un progetto di bilancio. Ma a volte invece il peso delle pulsioni si impone nelle forme di una dirompente, sconvolgente sensualità: le pur così diverse relazioni effimere di Naïs Micoulin e dei Frutti di mare, la prima culminante in un dramma, la seconda stemperata nella farsa, sono entrambe radioso trionfo di un piacere che, acceso e glorificato dai paesaggi naturali (la marina provenzale e quella bretone), acquista una dimensione panica, richiamando miti classici e precorrendo l’Alcyone dannunziano: avvezzo a indagare le fluttuazioni, le riconversioni, i risvolti sordidi o scabrosi dell’eros, Zola qui realizza l’impresa assai più difficile – per lui come per la letteratura in generale – di restituire anche la pienezza, la gioia provvisoria quanto assoluta della sua totale affermazione.

[Immagine: Erwin Olaf, Irene (gm)].

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