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di Emanuele Coccia

[Questo articolo è uscito sul numero 68 di «Allegoria»]

Les idées ne sont pas mon fort. Je ne les manie pas aisément, elles me manient plutôt. Me procurent quelques écœurement, ou nausée. Je n’aime pas trop me trouver jeté au milieu d’elles. Les objets du monde extérieur au contraire me ravissent. Il leur arrive de me causer de la surprise, mais ils ne paraissent en aucune mesure se soucier de mon approbation: elle leur est aussitôt acquise. Je ne les révoque pas en doute.

Francis Ponge[1]

1. Cultura di cose

Tra gli anni Cinquanta e gli anni Settanta del secolo scorso l’Italia ha subito una delle trasformazioni più radicali della sua storia: il boom economico ha rivoluzionato il tessuto politico, economico e sociale del paese come mai, forse, era successo nei secoli precedenti.[2] Il cambiamento più vistoso e assieme più profondo, però, non ha interessato le attitudini individuali o le gerarchie sociali ma il mondo fisico, lo spazio vissuto e abitato, la sua forma, la sua densità. Improvvisamente telefoni, auto, frigoriferi, lavatrici, televisori, ma anche nuovi vestiti, libri, riviste, tavoli, sedie, lampade e carni, verdure, pesce, gioielli, orologi, insomma una coorte infinita e in gran parte inedita di oggetti di uso quotidiano ha invaso le città, ha occupato gli spazi domestici, si è imposta come oggetto privilegiato di desiderio e di cure.[3] A irrompere in città non sono solo oggetti nuovi, inconsueti o in precedenza molto rari tra le mura domestiche (lavatrici, lavastoviglie o televisori, più tardi i personal computer). Sono soprattutto gli oggetti più usuali, banali e ordinari a moltiplicarsi esponenzialmente: che si tratti di scarpe, spaghetti o sedie, ogni cosa ora esiste in decine di varianti, centinaia di forme possibili, dozzine di modalità d’essere meticolosamente distinte. Nessuna cosa può più confondersi con le altre, specie con quelle che ne condividono forma e funzione: non c’è più il maglione, il frigorifero, il tavolo, c’è il maglione Benetton o Missoni, la poltrona Frau e la sedia Kartell. Ogni cosa ha acquistato un nome che è solo a lei proprio, un marchio distintivo che la rende unica pur garantendo l’esistenza di molti esemplari. Ogni cosa cura narcisisticamente la propria apparenza e si preoccupa di mettere in vista il proprio valore e la propria longevità.

Sarebbe difficile ridurre questo drappello di cose, nomi, forme e colori, a cui la città improvvisamente apriva le porte, alla conseguenza effimera e fantasmagorica degli altri fenomeni con cui si prova a descrivere il miracolo italiano. Certo, dietro o accanto all’improvviso popolamento urbano di manufatti di ogni specie ci sono stati la crescita della produzione industriale, l’intensificazione degli scambi, lo sviluppo della media borghesia e della mobilità sociale che essa porta con sé, la nascita di nuove professioni e la trasformazione del mercato del lavoro, l’assunzione del consumo come attività esistenziale privilegiata. Ma l’esplosione della produzione e del consumo delle merci sono solo una parte di un fenomeno culturalmente più vasto, non solo economico ma culturale, in senso più ampio, che va studiato iuxta propria principia.[4]

L’improvvisa abbondanza di cose prodotte, scambiate, consumate o anche solo immaginate, parlate o rappresentate non è un fatto puramente economico. La sua causa, del resto, non sta solo nel desiderio di una piccola élite di accumulare ricchezze e capitali.[5] Il bisogno di ripristinare il contatto con la realtà, nella sua testura di insieme infinito di oggetti banali e quotidiani e l’esigenza di riconoscere la capacità degli oggetti di condensare e veicolare significati universalmente condivisi coinvolgeva e nutriva negli stessi anni anche la ricerca delle arti plastiche, del cinema, della letteratura, della moda. Basterebbe citare il ruolo che l’attenzione gli oggetti svolge nel nouveau roman o nell’opera di Francis Ponge,[6] ma anche nelle sottoculture dei teddy boys e dei punk,[7] sino al rinnovamento del design industriale.[8] L’ossessione per le cose è assieme pratica e oggetto di riflessione e di timore nell’arte contemporanea, dall’objet trouvé del surrealismo al ready made di Duchamp, dallo specific object di Donald Judd fino al riutilizzo delle merci e di oggetti quotidiani nella Pop Art. Anche il rifiuto dell’opera e della dimensione oggettuale dell’arte che ha caratterizzato una parte del minimalismo e la filosofia del sospetto per le merci che ha caratterizzato il discorso critico di stile francofortese sono reazioni a questa invasione delle cose e dunque una testimonianza indiretta della loro centralità.[9] Non è solo l’arte a essersi trasformata in una riflessione ossessiva sul ruolo delle cose, la loro legittimità, il loro significato; anche altri saperi si sono trasformati, più o meno involontariamente, nel tentativo di capire perché le cose improvvisamente hanno acquisito un ruolo centrale nella nostra vita. Per non fare che l’esempio più evidente, la riflessione sui media di McLuhan non è stata altro che il tentativo più radicale di pensare le cose come i veri soggetti dotati di logos: un medium è una cosa che parla attraverso la sua stessa forma perché nel medium realtà e messaggio coincidono. La società dei media è anche una società che delega alle cose la facoltà umana per eccellenza, la parola.[10]

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Note

[1] F. Ponge, My Creative Method, in Id., Méthodes, Gallimard, Paris 1961, p. 22.

[2] La bibliografia sul tema è piuttosto ampia: cfr. G. Crainz, Storia del miracolo economico, Donzelli, Roma 2005; V. Castronovo, L’Italia del miracolo economico, Laterza, Roma-Bari 2010; e la sintesi di P. Ginsborg, Storia d’Italia dal dopoguerra a oggi, Einaudi, Torino 1989, pp. 286 segg. Per i riflessi culturali cfr. il bel saggio di L. Gorgolini, Un mondo di giovani. Culture e consumi dopo il 1950, in Identikit del Novecento. Le guerre affrontate e subite. I modi di amare, di fare politica, di vedere il mondo, a cura di P. Sorcinelli, Donzelli, Roma 2004, pp. 277-370.

[3] Negli Stati Uniti questa invasione si era già registrata nei primi anni del secolo: cfr. le belle pagine di R. Schorman, Selling Style: Clothing and Social Change at the Turn of the Century, University of Pennsylvania Press, Philadelphia 2003, pp. 7 segg., e le splendide pagine di G. Simmel, Philosophie des Geldes [1900], Anaconda, Köln 2009, pp. 716-760.

[4] La ricerca sulla cultura materiale dello scorso secolo è stata invece segnata quasi esclusivamente dal pregiudizio secondo il quale l’aumento dei consumi sarebbe causa di una degenerazione morale della vita privata e pubblica: cfr. K. Marx, Das Kapital, Bd. I, Dietz, Berlin/DDR 1968, Erster Abschnitt, p. 86; G. Lukàcs, Storia e coscienza di classe, Mondadori, Milano 1973; Th.W. Adorno, M. Horkheimer, Dialettica dell’illuminismo, Einaudi, Torino 1966; A. Honneth, Reificazione. Uno studio in chiave di teoria del riconoscimento, Meltemi, Roma 2007; R. Jaeggi, Entfremdung. Zur Aktualität eines sozialphilosophischen Problems, Campus, Frankfurt a.M. 2005. Contro questa tradizione si era già scagliato G. Simmel, Der Begriff und die Tragödie der Kultur, in Id., Philosophische Kultur, Alfred Kröner, Leipzig 1919, pp. 223-253. Per una nuova lettura della cultura popolare cfr. gli studi classici di J. Fiske, Understanding Popular Culture, Routledge, London-New York 1991; G. McCracken, Culture and Comsumption, Indiana University Press, Bloomington-Indianopolis 1990.

[5] Anche nel caso contrario, del resto, resterebbe da spiegare perché lo sviluppo economico sia dovuto passare traverso la moltiplicazione delle cose, della produzione, dello scambio e del consumo: l’economia moderna non ha mai preteso di coincidere con una forma di crematistica, come dimostra del resto lo sviluppo dell’economia finanziaria contemporanea. D’altra parte dopo la distruzione provocata dal conflitto mondiale da cui l’Italia usciva sconfitta e lacerata, dopo la divisione ideologica che aveva prodotto una guerra civile e che si prolungherà in tensioni sociali mai sopite, la concentrazione sulle cose e la cultura materiale rappresentava una via di uscita (e di convalescenza) neutra inevitabile.

[6] «De deux mécanismes personnels. Le premier consiste à placer l’objet choisi (dire comment dûment choisi) au centre du monde: c’est-à-dire au centre de mes “préoccupations”; à ouvrir une certaine trappe dans mon esprit, à y penser naïvement et avec ferveur (amour)»: Ponge, My creative method, cit., p. 29.

[7] Cfr. D. Hebdige, Subculture. The Meaning of Style, Routledge, London 1979, trad. it. di P. Tazzi, Sottocultura. Il fascino di uno stile innaturale, Costa & Nolan, Genova 1983.

[8] Il ready-made duchampiano del resto dissolve ogni linea distintiva tra opera d’arte e oggetto di uso quotidiano. Cfr. in proposito le importanti osservazioni di S. Lütticken, Art and Thingness, Part One: Breton’s Ball and Duchamp’s Carrot, in «e-flux», 13, February 2010, http://www.e-flux.com/journal/art-and-thingness-part-one-breton’s-ball-and-duchamp’s-carrot; Id., Art and Thingness, Part Two: Thingification, in «e-flux», 15, April 2010, http://www.e-flux.com/journal/art-and-thingness-part-two-thingification; Id., Art and Thingness. Part Three: The Heart of the Thing is the Thing We Don’t Know, in «e-flux», 16, May 2010, http://www.e-flux.com/journal/art-and-thingness-part-three-the-heart-of-the-thing-is-the-thing-we-don’t-know.

[9] H. Foster, The Return of the Real. The Avant-Garde at the End of the Century, MIT Press, Cambridge (MA)-London 1996, trad. it di B. Carneglia, Il ritorno del reale. L’avanguardia alla fine del Novecento, Postmedia, Milano 2006.

[10] M. McLuhan, Understanding Media, McGraw-Hill, New York 1964, trad. it. di E. Capriolo, Gli strumenti del comunicare, il Saggiatore, Milano 1968. Sulla parola delle cose che parlano, cfr. l’importante volume Things That Talk: Object Lessons from Art and Science, a cura di L. Daston, Zone Books-MIT Press, New York 2004; e più in generale i contributi della cosiddetta “Thing Theory”: B. Brown, Thing Theory, in «Critical Inquiry», 28, 1, 2001, pp. 1-22; Learning from Things: Method and Theory of Material Culture Studies, a cura di D. Kingery, Smithsonian Institution Press, Washington (DC) 1995; J. Bennett, Vibrant Matter: A Political Ecology of Things, Duke University Press, Durham (NC) 2010; J. Simon, Neomaterialism, Sternberg, Berlin 2013; A. Appadurai, Introduction: Commodities and Politics of Value, in The Social Life of Things, a cura di A. Appadurai, Cambridge University Press, Cambridge 1986, pp. 3-62.

[Immagine: Oliviero Toscani, Campagna pubblicitaria per Benetton, 1991]

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