Intervista ad Alessandro Mendini, a cura di Daniele Balicco e Davide Ferri
[Quest’anno il primo maggio coincide con l’inaugurazione di Expo Milano 2015. Qualche mese fa la rivista «Allegoria» ha dedicato un numero al Made in Italy come fenomeno storico, economico, politico e culturale, studiato in una prospettiva multidisciplinare che comprende economia, moda, design, pubblicità, agroalimentare, musica, cinema, letteratura, filosofia. Qui si può leggere l’introduzione di Daniele Balicco. Del numero faceva parte anche questa intervista a Alessandro Mendini, uno dei più importanti designer italiani. Ci sembra giusto riproporla oggi].
Davide Ferri: Vorremmo cominciare la nostra conversazione sul Made in Italy partendo dalla sua prefazione all’ultimo libro di Chiara Alessi intitolato Dopo gli anni zero. Il nuovo design italiano (Laterza 2014). Le vorremmo chiedere qual è il suo giudizio personale sulle novità estetiche e tecnologiche di questi ultimi anni.
Alessandro Mendini: Nel suo libro Chiara Alessi conduce un’analisi quasi ossessiva dell’attività dei designer italiani di oggi, quelli che hanno più o meno attorno ai trent’anni. Considera cento designer e li divide in categorie, cercando di captare i caratteri del loro comportamento in rapporto a un contesto oltremodo sfavorevole, perché le industrie stanno morendo e le scuole non insegnano. Questo libro è un tentativo di capire che cos’è o se si può ancora parlare di italianità nel design contemporaneo. Nella mia prefazione ho definito questi trentenni «designer enigmisti»: professionisti, cioè, che lavorano con precisione ossessiva, come se dovessero risolvere un rebus. Come è noto, il rebus è un gioco formalistico, una specie di esercizio chiuso in sé che pretende una risoluzione di grande intelligenza, ma che, nello stesso tempo, è privo di un obiettivo reale. Ecco: con il concetto di «designer enigmisti» intendo proprio definire questo nuovo modo di progettare senza un obiettivo reale. Ed è drammatico. Al contempo però è solo da una situazione simile che può nascere qualcosa di nuovo. In questi ultimi anni si presta molta attenzione, per esempio, a risolvere problemi pratici familiari: costruisco un giocattolo perché ho un bambino e voglio che giochi con oggetti ecologici. Oppure: costruisco degli utensili da cucina perché voglio imparare a cucinare. È una situazione politicamente disimpegnata, in cui l’impegno è introverso, e che ci porta a discutere di piccoli problemi concettuali interessanti, come quelli legati all’ergonomia. Nello stesso tempo però sono convinto che bisognerà trovare un modo per recuperare una radicalità, nella tecnica e nell’ideologia; magari riuscendo a produrre nuovi shock percettivi, per esempio usando le nuove tecnologie sperimentali 3D dei Makers.
Daniele Balicco: Nella nuova realtà produttiva che ha appena descritto, gode ancora di valore simbolico la possibilità di sfruttare, nella vendita del prodotto progettato, il marchio Made in Italy?
A.M.: Nel mercato internazionale il marchio Made in Italy ha ancora un forte valore, simbolico ed economico. Un oggetto che riporta sull’etichetta questa indicazione acquista di per sé un sopravalore che si traduce nel prezzo della merce. Faccio un esempio. Ho fatto una lampada in Corea, tramite una società che lavora con la Samsung, dunque una ditta molto sofisticata dal punto di vista tecnologico. Perché quella lampada assuma un valore commerciale in Corea, è necessario credere che sia stata fatta a Milano; viene costruita là, ma è inventata e concepita (compreso il packaging e la grafica) in Italia. Per questa ragione, la lampada riporta il mio nome e la provenienza. Questo ci fa capire che esiste una mitologia del Made in Italy, sparsa ovunque, che ha determinate caratteristiche che probabilmente derivano dal Rinascimento, dalle botteghe e dall’artigianato. Del resto, io stesso a volte ho la sensazione di progettare come si progettava in passato; esclusi i computer, che sono degli strumenti di lavoro, la mentalità con la quale io lavoro è artigianale. Soprattutto quando decido di lavorare con materiali raffinatissimi, opero con le medesime modalità di progetto proprie delle grandi scuole tradizionali, come per esempio quella della porcellana tedesca o dell’argenteria inglese.
[Immagine: Alessandro Mendini, Anna G., cavatappi per Alessi].