di Emanuele Canzaniello
Lui fa parte di quella categoria dell’odio-di-sé che assoggetta e plasma alcuni artisti ben riconoscibili, pronti per essere amati e cari a noi dalla prima modernità. Cobain è residuo di questa categoria. L’ultimo documentario sulla sua vasta iconostasi negli anni ’90 – gli ultimi anni prossimi ma già di un’altra epoca – è di fatto un montaggio di elementi che fanno parte di quella storia: Montage of Heck di Brett Morgen, appena uscito anche in Italia.
Bruciata internamente dalla saturazione e dall’accumulo di materiali autografi, video d’epoca, filmini in super8, la superficie dell’immagine è costantemente piena, in costante riuso di materiali documentali, fino all’intimità finale, dentro i pochi minuti reali di due persone che vivono la domesticità dell’eroina. Anche i temuti spezzoni animati sono integrati non senza efficacia alle registrazioni d’interviste o audiotape di confessioni a viva e remota voce: passano senza alterare la tensione, semplici fondali alla sua voce. I dipinti e in genere tutti i materiali di Cobain, gli appunti, gli schizzi sono materia visiva del film, caricano la pellicola, la vitalizzano nel prologo di reclame americane anni ’50, che a tratti sono ancora l’Aberdeen dei suoi anni. Anche Twin Peaks ce lo ha ricordato. La sfasatura temporale nello Stato di Washington era già un’intuizione camp di Lynch, in quegli ultimi anni ’80 già filmati come fossero un ricordo, la nostalgia colpevole della commedia americana del dopoguerra, della sua confortante forza di propagazione.
Certo non siamo davanti a un trattato interessato alla sociologia: non ci si interroga su cosa significhi mostrare l’autoanalisi americana, non c’è nemmeno l’accenno di una ricerca medica ragionata sui problemi di Cobain allo stomaco. L’unico rimedio percorso è l’immaginario, l’equivalente specifico dell’eroina. Tutto è deformato e immerso in un continuum sonoro che sa darsi fino ai registri dell’inquietudine. L’atmosfera generale riesce a dare conto di un’assoluta disperazione senza troppe attenuazioni, senz’alleggerimenti. E in fondo lo sappiamo almeno dalla seconda metà dell’Ottocento che l’acquisizione nuova che ci abita la vista è la percezione estetica di una disperazione senza vie d’uscita. Lo scandalo è averla resa materia dell’arte, anche e soprattutto quando questa stessa materia si raffina, si fa sincera al punto da essere esattamente il presupposto che renderebbe impossibile non solo l’esistere di quella materia, ma della vita stessa. La posizione di Cobain in quell’orizzonte temporale del nostro immaginario può essere anche questa, quella di ultima figura della disperazione pura, senza remissioni.
Questo bambino, che nei filmini di famiglia dei suoi primi compleanni è di una bellezza vivacissima, di un magnetismo che tutti paiono subito avvertire, viene subito curato col Ritalin per l’ipercinesi, per eccesso di vitalità, e diventa oggetto di uno scempio medico che solo l’America dovrà spiegare. A noi chiedersi come sia possibile investire di sospetto soltanto il divorzio dei genitori quale causa originaria di un’incrinatura così radicale dell’integrità psichica di un giovane uomo. Oppure saremo spinti dalla bellezza forse immotivata della narrazione di massa, dal suo accadere con violenza cristologica, a considerare che ci siano falle negli uomini che si producano molto fuori e molto prima dei regni della psicanalisi. Anche se i due ultimi versi di Serve the Servants cantano «That legendary divorce is such a bore».
Ma noi qui della testualità non ne vogliamo sapere. Se muori a 27 anni non hai nemmeno avuto il tempo di capire cos’è stato, cos’è sembrato il tempo alla prima ragazza di Cobain, la prima con cui ha vissuto, e che ora è qui, davanti alla sua intervista nel film. Nelle foto con lui era molto carina, ci fa pensare a quanti anni avrebbe avuto lui adesso. Perché quella che vediamo sullo schermo è una donna che non possiamo riconoscere. Una donna che fa già fatica a tingersi i capelli e a non averli unti, ancora molto mobile nello sguardo, annegata in un seno che copre persino la sua obesità immobile. La madre di Cobain conserva invece ancora molta della bellezza che diede al figlio; sembra la più lucida nelle interviste, ricorda il momento in cui il figlio le fece sentire per la prima volta la demo di Nevermind già in rampa di lancio: «Scese per le scale nudo, senza t-shirt, senza pantaloni, senza calzini, molto Don Cobain». Ha ancora il tempo di far sentire il suo fastidio per il marito di allora, per il padre di Kurt.
Il film non fa volutamente ascoltare Smells Like Teen Spirit; ne usa però una versione con cori di voci infantili molto forte, e sotto scorrono le immagini fuori sincro del backstage del video della canzone: «Servono una palestra e cento comparse tra ragazze e ragazzi. Le ragazze devono indossare un top con la A di Anarchy dipinta sopra». Questo era l’annuncio per il casting. La versione da studio che esplose in tutte le classifiche, invece, ha la sua ostensione solo come exit music. Exeunt.
Esce Dave Grohl, il batterista della band, l’unico con una carriera propria dopo il 1994, che è incredibilmente assente: non rilascia interviste e non è parte della storia. Esce o dovrebbe uscire Courtney Love, le cui dichiarazioni oggi rivelano la quantità esatta di cervello bruciato dalle droghe, senza ironia, clinicamente. Fa parte probabilmente della precisione dell’archetipo che questa storia di successo inizi dal nulla, e che al contempo sappia raggiungere i vertici, cifre di vendite folli, una diffusione impensabile per una musica che si voleva hardcore, quasi più in là della marginalità stessa. E che invece suonò Sub Pop Records tutti d’oro: «Solo un regalo gratis sotto l’albero per mia madre».
Eppure non c’è un vero stupore o un’investigazione serrata su quale sia l’innesco o su come possa funzionare una macchina del successo così infallibile, veloce, estesa, se si trovano come interlocutori dei ragazzini strafatti che fanno il verso a quelli che se ne fottono delle interviste e di avere successo. E che però ci sono dentro, ma non sono in grado di volerlo, come possiamo anche credere. Eppure, quale sia il modo di reggere l’immaginario, reggere all’enorme macchina che ti mette sulle copertine, questo è poco indagato, forse è semplicemente solo mostrato. Come si abita l’immaginario ce lo spiegano i filmati super8.
Forse è questo lo scarto peculiare della narrazione Cobain: un nucleo disperativo e non desiderativo, un nucleo di non-volere di cui percepiamo la sincerità completa e l’abbandono, che può solo fingere (all’interno della meccanica scenica) il rifiuto del successo, e farsi menzogna anche nell’ingenuità del rifiuto a farsi merce, ma che scopre di non potersi negare se non nella dichiarazione estrema. L’ultima nostalgia concessa è che questo sia avvenuto pochi mesi prima della messa in rete del mondo. Questa è l’ultima trama analogica, l’ultimo racconto di un momento della civiltà di massa che si è chiuso lì.
Dobbiamo chiederci perché abbia scelto di morire? Come vanno considerate le ripetute affermazioni rilasciate da Cobain sul suo fastidio, sul suo sentito rifiuto per l’immagine di death–rocker che era diventato, la sua vergogna davanti alla madre per gli ultimi stadi raggiunti della dipendenza dall’eroina? Era un rifiuto reale di quell’immagine? «Se mi suicidassi, avreste la vostra perfetta storia rock ‘n roll». Anche il titolo della traccia esclusa da In Utero (1994), «I Hate my Self and I Want to Die», secondo le sue dichiarazioni era da considerare ironico, solo una battuta, una parodia di se stesso, uno sputo rivolto verso di sé.
Non è un film su una discografia, non è un documentario tecnico interessato alla musica, non è interessato ai Nirvana come band, è un film su quest’io senza uscita, su Kurt Cobain come mitologema, più o meno collocabile nel discorso pubblico, nella rete dei decenni. La reclame americana si è riprodotta in quel diluvio di stampa che seguì con interesse la gravidanza di Courtney gestita dichiaratamente con massicce sonde di eroina che tastavano il feto, la bambina Frances, che da grande ha prodotto questo film. L’ultimo accenno d’interpretazione viene proposto da Courtney Love: poco prima del tentato suicidio in un albergo romano, lui aveva capito che lei stava per tradirlo o che avrebbe potuto farlo. È lei ad ammetterlo per sottolineare quanto fosse esasperata la fragilità di Kurt: perché anche il solo pensiero di un tradimento, lontana a Londra, avrebbe dato a Cobain l’ultimo schianto, l’incrinatura anche del suo tentativo di ricostruire una famiglia.
Prima di chiudere, la scena è per quell’istante di respiro – spalancati gli occhi – preso sull’ultimo refrain di Where Did You Sleep Last Night, la cover di un classico blues, eseguita a Mtv Unplugged. Dell’ultimo mese e di tutto quello che ha circondato il suicidio qui non è registrata traccia.
[Immagine: Kurt Cobain (gm)].
L’ho visto al Bif&est di Bari, in anteprima e devo dire che come biopic è molto efficace proprio perché si avvale di filmati autentici, con quell’inquietante personaggio della moglie, molto più resistente di lui e con l’apporto della grafica a fare di Cobain un personaggio da fumetto. Colpisce in ogni caso, in tanta impossibilità di un autentico riscatto (determinato da dolori giovanili troppo profondi causati dal rifiuto dei genitori) l’ostinazione con cui Cobain ha voluto il successo e l’identica determinazione nel distruggersi. Come Amy Winehouse.