di Guido Mazzoni
[Oggi esce il saggio I destini generali. Fa parte di una nuova collana di Laterza, Solaris, che ospita saggi e racconti sul tempo presente. Alcuni segmenti dei Destini generali erano usciti, in una prima versione provvisoria, su «Le parole e le cose». Quelle che seguono sono le prime pagine del libro e spiegano lo scopo e la forma del saggio].
Appartengo a una generazione disgraziata a cavallo fra i vecchi tempi ed i nuovi, e che si trova a disagio in tutti e due. Per di più, come lei non avrà potuto fare a meno di accorgersi, sono privo d’illusioni.
Tomasi di Lampedusa, Il Gattopardo
PLAYBOY: Quali sono le cose che la annoiano?
BOLAÑO: Il discorso vuoto della sinistra. Il discorso vuoto della destra lo do per scontato.
Bolaño, Intervista per l’edizione messicana di «Playboy», luglio 2003
Questo libro descrive alcuni aspetti della forma di vita occidentale così come si presenta oggi, dopo quella metamorfosi che negli ultimi decenni ha cambiato la famiglia, l’amore, la politica, i rapporti personali, i rapporti di classe, i modi di lavorare, pensare, comunicare, desiderare, consumare, e alla quale Pasolini, fra il 1973 e il 1974, diede un nome che ha avuto fortuna: mutazione antropologica. Quarant’anni dopo sappiamo che la formula indicava un evento incompiuto, perché nei decenni successivi il processo si sarebbe sviluppato ancora e avrebbe preso forme che Pasolini non poteva conoscere. È un fenomeno che riguarda l’Europa, gli Stati Uniti e le nazioni toccate dall’egemonia occidentale, ma ogni paese lo vive secondo una cronologia diversa. In Italia passa attraverso tre fasi: quella che Pasolini descrive nei suoi articoli, quella che si apre all’inizio degli anni Ottanta, quando le televisioni private rimodellano l’inconscio e l’immaginario (oggi la indichiamo con un nome proprio che è diventato una metonimia, Silvio Berlusconi), e quella che emerge fra la seconda metà degli anni Novanta e gli anni Zero con i mutamenti profondissimi che la rete ha generato e sui quali non esiste ancora, per quanto ne sappia, una riflessione all’altezza del fenomeno.
Parlo del tempo presente a partire da un’ambivalenza e da uno smarrimento. In queste passioni si mescolano un tratto personale, un tratto generazionale e un tratto culturale. Del primo non è interessante discutere. Il secondo è espresso dall’epigrafe con cui si apre il libro: «Appartengo a una generazione disgraziata a cavallo fra i vecchi tempi ed i nuovi, e che si trova a disagio in tutti e due». Sono le parole con cui il principe di Salina, nel Gattopardo, risponde alla proposta del cavaliere Chevalley di Monterzuolo, segretario piemontese della prefettura, che gli offre la nomina a senatore del nuovo Regno d’Italia. Se è vero che ogni generazione può dire di essere nata fra due tempi, è altrettanto vero che ogni generazione ha l’opportunità e l’obbligo di riflettere sul posto che ha occupato nel tempo storico, e sul senso di progresso o di disagio che il mutamento di cui è stata parte le suscita. Chi è nato nella seconda metà degli anni Sessanta conserva una memoria infantile e adolescenziale di strutture etiche, politiche e psicologiche che oggi vacillano o che non esistono più. Conserva il ricordo della grande politica e dei conflitti di classe novecenteschi, fondati sullo scontro fra due modelli di società e di persona che si contendevano il dominio sul mondo. Conserva memoria o beneficia ancora delle tutele socialdemocratiche o cristiano-sociali che il movimento operaio e sindacale aveva conquistato attraverso una lotta lunga e sanguinosa. Conserva il ricordo di un modo di vivere, popolare o borghese, fondato sul sacrificio, sulla disciplina e sul dovere: famiglie che rimanevano unite nonostante tutto, coppie di genitori che si reprimevano perché bisognava restare insieme per sempre, una certa diffidenza atmosferica verso il consumo, l’eccesso, l’esibizione di sé. È cresciuto in un’epoca nella quale la società dello spettacolo si trovava a uno stadio che retrospettivamente ci sembra elementare, innocuo e buono come la televisione in bianco e nero a due canali; uno stadio in cui il «terziario onirico» (la formula è di Walter Siti) non aveva ancora imposto la propria egemonia sulla sfera pubblica, né aveva preso direttamente il potere, come in Italia è accaduto nel 1994. Ha conosciuto un mondo anteriore all’informatica e ai mutamenti psichici e sociali che Internet ha generato. Poi, durante l’adolescenza e la prima età adulta, si è ritrovato in mezzo a un cambiamento vertiginoso che, pur non avendo mai preso la forma di un conflitto palese, ha avuto lo stesso effetto delle guerre o delle rivoluzioni, essendo anche il risultato della guerra mondiale inesplosa che ha lacerato la seconda metà del XX secolo. Questa metamorfosi ha consegnato a un’altra epoca le forze storiche che avevamo fatto in tempo a vedere cristallizzate nei comportamenti dei nostri genitori e ha aperto un’altra stagione – una stagione che, a differenza di coloro che sono nati qualche decennio prima di noi, abbiamo vissuto frontalmente e integralmente, perché era la nostra.
Di fronte a una mutazione simile, le categorie e le passioni fluttuano. La Stimmung che percorre questo libro è ambivalente. Non vorrei però che il lettore si concentrasse solo sullo scioglimento dell’ambivalenza, che cercasse di cogliere la percentuale di favore e di sfavore, di segno-più e di segno-meno che le singole pagine contengono, spostando l’asse del discorso dall’analisi al giudizio. Non mi interessa prendere posizione, mi interessa innanzitutto capire. Se c’è un aspetto del problema che vedo con chiarezza, questo aspetto è l’inefficacia delle categorie con le quali cerchiamo di interpretare il presente. Chi è cresciuto dentro una cultura di sinistra, dentro una delle tante famiglie discorsive che compongono la cultura di sinistra, chi è stato lettore di Marx, di Adorno, di Benjamin, di Bloch o di Fortini, per esempio, sente che i concetti con cui ha provato a capire la realtà oggi non lo aiutano più; ma anche le idee che appartengono ad altre famiglie culturali e politiche, di sinistra o di destra, pattinano sul suolo storico che cercano di afferrare, non hanno presa, appartengono al passato. I destini generali nasce da questa insoddisfazione: lo si può leggere anche come un tentativo artigianale di orientarsi cercando di non ripetere discorsi vuoti.
Il libro si compone di due parti collegate. Nate nel corso degli anni Zero, fra gli scontri del luglio 2001 a Genova e la crisi del 2008, messe per iscritto in forma privata, in un file di appunti, hanno trovato una forma pubblica tre anni fa, per caso, quando ho cominciato a stendere un sommario delle cose che avrei voluto dire durante la tavola rotonda di un convegno e il sommario è cresciuto su se stesso generando l’embrione del primo capitolo. Pochi mesi dopo ho fatto un viaggio a Berlino, ospite di un amico italiano che ci si era trasferito da poco. Avevo visto Berlino all’inizio degli anni Novanta, quando era ancora la città allegorica del Novecento, il terreno sul quale il fascismo, il comunismo e la Western way of life avevano inciso i propri segni, il campo di battaglia dove si erano fisicamente scontrati i tre modelli di società e di persona che si erano contesi il dominio sul mondo nel corso del XX secolo. Nel 2013 era un posto irriconoscibile: la sua storia tragica era stata imbalsamata o rimossa, ogni dettaglio fisico, dall’architettura alla pubblicità, esprimeva altro, e tutto in quel paesaggio urbano prolungava i pensieri messi su carta nel primo capitolo, tutto diventava allegoria.
Le parti che compongono il libro hanno conservato un tratto occasionale e idiosincratico. Se volessi fondare filosoficamente tutto quello che ho cercato di dire, non arriverei in fondo: l’esigenza sistematica, il Super-Io teorico mi divorerebbero. L’unico modo per uscirne era accettare la natura personale di questi pensieri e l’urgenza dei motivi che mi hanno spinto a scrivere.
[Immagine: Gerhard Richter, Wolken (gm)].
E’ un inizio bellissimo. Potrebbe essere un libro molto utile.
@ Mazzoni
Introduzione onesta ma disarmante.
Cosa obiettare ad uno studioso che ti dice chiaro e tondo che parla « del tempo presente a partire da un’ambivalenza e da uno smarrimento», si dichiara non interessato a «prendere posizione» ma vuole « innanzitutto capire», vede « l’inefficacia delle categorie con le quali cerchiamo di interpretare il presente» ( che siano della «cultura di sinistra» o di «altre famiglie culturali e politiche, di sinistra o di destra»?
Una sola cosa (detta senza malignità): e se restare nell’ambivalenza e nello smarrimento, non prendere posizione *per capire* (ma quante volte si capisce proprio perché si prende posizione o si è costretti a prenderla dalle cose che ci investono?), disfarsi di tutte le categorie interpretative del passato (ma ‘ambivalenza’ e ‘smarrimento’ non « appartengono al passato» anch’esse?) fosse un assoggettamento a un Super-Io ancora più divorante di quelli all’ingrosso già nominati o nominabili?
Impressioni di lettura fino a pagina 64.
Inizialmente ho provato un forte fastidio, dovuto alla frequente comparsa di quantificatori universali come tutti e nessuno: la stessa reazione di Moretti in Caro diario. Tutti gli occidentali, la vita psichica delle masse occidentali. Tutti trasformati, tutti travolti. Tutti? Tutti. Persone tutte uguali: stessi vestiti, stessi valori, stessi gusti, stessi eroi.
Un altro passaggio che mi ha lasciato perplesso è quello in cui descrivi un video dell’ISIS, affermando che lo spettatore è ipnotizzato dai dettagli, dalle magliette indossate dalle vittime. Ora, per caso tu sei nella testa delle persone per poter dire che lo spettatore sia o meno ipnotizzato e nel caso dai dettagli, da quei dettagli?
Oggi le persone appaiono più scisse, più schizofreniche? Su quali basi empiriche affermi ciò? e con quale competenza?
Solo perché esistono i romanzi di Ellis, i racconti di Carver, i romanzi di Bolano? Dovresti smetterla di leggere la realtà filtrata dai romanzi.
Se oggi vigesse l’etica menefreghista io non avrei speso soldi per il tuo libro, e tempo per leggerlo e commentarlo. Non ci sarebbero persone che traducono i film gratis per gli altri, programmatori che creano programmi open source, vegani che sanno cucinare che aiutano gli altri eccetera, per restare alle cose di poco conto.
(commenti sul presunto ethos popolare)
La pura immanenza: vero, perché questa è la vita. Sono stati solo religiosi e filosofi stupidi a pensarla diversamente e a infliggere le loro paturnie agli altri.
Perseguimento del proprio interesse o familiare: vero in parte. Non è esclusivo, non implica disinteresse per gli altri o per cause civili e politiche. L’altro giorno c’è stata la conferenza sul sex work, per dirne una.
Realtà immodificabile: falso. Questo è un tratto che pertiene alle persone ovviamente ignoranti che vivono in contesti chiusi come il villaggio. Ma ci sono anche all’interno del villaggio le persone dotate di ingegno e curiosità che scoprono cose nuove.
Che i regimi si equivalgono: falso. In democrazia si vive meglio.
Che ci si debba godere la vita: ovvio. Questo non è edonismo. È afflato umano animale. Solo perché per qualche secolo hanno regnato dei despoti e una morale religiosa di merda non significa che le persone oggi libere da quegli impicci siano diventate edoniste. Fanno quello che oggi possono fare e prima non potevano. Se avessero potuto l’avrebbero fatto anche prima. In ciò non c’è stata nessuna trasformazione psichica.
Quando mia nonna ha salutato per l’ultima volta mio nonno, appena prima che chiudessero la bara, ha detto: “ecco come se finisce”. L’altra sera mentre mangiava le è caduta la dentiera, e ha detto: “ecco, una volta non c’era da mangiare, adesso che ce sta non c’ho li denti…”.
il fatto è che le metafisica hegelo-marxista, non è diventata obsoleta come dici, è sempre stata obsoleta. Era una stronzata già allora.
Le pagine in cui parli di Imagine e High Windows sono invece molto belle.
La navigazione a vista al momento è l’unico atteggiamento possibile, e non riguarda certo solo gli occidentali. È la natura, bellezza.
Io sono un occidentale e mi aspetto cose decisive dalla politica, anche se vedo come te (e sento su di me) il problema della partecipazione.
Inizio bellissimo. Primo libro che prendo al rientro in Italia.
La copertina è JP Velly?
Leggerò il libro di Mazzoni il prima possibile. Già avevo letto Berlino alla fine della storia qui e ho nello scaffale dei libri utilissimi per la didattica della poesia “Sulla poesia moderna”.
Per esempio, leggendo quest’ultimo (che, trattando di letteratura e non di destini generali, quindi di cose su cui ci si scanna di meno – va be’, a parte fra letterati -, forse genera sentimenti più pacatamente distaccati di quelli di DFW), mi sono accorto di come il suo hegelismo debole (ramolli) sia utilissimo, io direi quasi irrinunciabile, per dare forza e coerenza a un discorso sulla poesia a scuola. (Ah, tra un attimo arrivo alla politica, ai destini generali e a DFW). Mi spiego.
Colgono gli adolescenti la letteratura come un tutto organico? No. Restano i nomi, le opere, due concetti critici: nel deserto, sfarinati, spersi. E’ ineluttabile? No, non lo è. Ci sono diversi modi per ridare coerenza all’insegnamento della letteratura (qui della poesia). Per esempio fornendo categorie potenti e generali e non solo critico-letterarie, ma legate alla nostra forma di vita; categorie che è del tutto irrilevante se siano oggettive o no, reali o metaforiche (insomma, è del tutto irrilevante dimostrare se Hegel fosse o no un cretino). La nostra mente infatti ne ha bisogno per comprendere: poesia moderna, VS poesia premoderna, sistema chiuso dei generi VS versoliberismo e ibridazione, soggetti trascendentali VS soggetti empirici (ecc…), infine, poesia moderna come forma simbolica della modernità. Quando spieghi ai ragazzi le cose così (“in politica non siamo più gli stessi di prima, dopo l’illuminismo”, “in arte non siamo più gli stessi di prima, dopo il Romanticismo”, “se oggi quando scrivere una poesia non vi sentite tenuti al rispetto di regole di versificazione, generi letterari, topoi fissati, ma “vi esprimente”, parlando della vostra personale vicenda con un linguaggio libero, è perché intorno ai primi dell’Ottocento è successo qualcosa di rivoluzionario), le capiscono meglio. Almeno così a me sembra: non lo saprò con certezza fino a che non avrò prove empiriche da qualche esperimento, DFW.
Le capiscono meglio sia perché la nostra mente, lo sapeva Aristotele, ragiona per sic et non, sia perché vedere una categoria letteraria descrivere addirittura una forma di vita reale, la loro, il nostro radicale soggettivismo, ridà un senso immediato allo studio della letteratura.
Poi, certo, una volta eretto il sistema (che è un sistema non in re, ma in verbis, o forse nei nostri neuroni), si possono buttare giù pinnacoli e intere arcate, rimettere in discussione, concentrarsi sul dettaglio materiale, far toccare con mano quanto le costruzioni intellettuali non coincidano mai con la realtà e quanto, a rigore, il materialismo sia l’unica cosa filosoficamente sensata (basta non dirlo troppo forte, se no ridiventa un’idea totalizzante e un sistema dogmatico).
Ora, togliete le categorie forti, togliete le impalcature, e la conoscenza di chi ancora non ce l’ha crolla e torna a sfarinarsi. La mente è prensile, coglie qua e là e fa sintesi, pone in relazione, generalizza, deduce, fa teorie generali, ecc… E si tira su un bell’edificio.
Come faresti, DFW, a fare a pugni con il niente? Almeno hai davanti a te un bella cattedrale gotica da abbattere.
Guarda, io sarei anche d’accordo con te che molto spesso è utile guardare la realtà più da vicino che dalla specola di Hegel e della filosofia in generale (infatti io amo la letteratura), così come sono convinto che la verità si nasconda nelle pieghe minime che la modernità ci consente di esplorare.
Ma se dovessimo seguire le tue richieste, semplicemente non potremmo più parlare di nulla (il linguaggio, questo stronzo fottuto generale che generalizza e di 7 miliardi di uomini, ciascuno diverso dall’altro, ti fa un’unica categoria “l’essere umano” – o la “specie umana”, se preferisci, tanto, quanto a generalizzazione, poco cambia). Dunque, cautela filosofica.
E cautela politica: questa ossessione per le lamentazione degli intellettuali e di tutti i loro linguaggi sintetici, simbolici, universalizzanti, è molto, molto rischiosa. Siccome, come ho detto, il bisogno di universalità e generalità è inestirpabile nell’uomo, togline la gestione agli intellettuali o a chi per essi ne fa uso per farsi domande e porsi dubbi, e se ne impadronirà qualcun altro. Non necessariamente con le stesse buone intenzioni. Quel qualcosa lo chiamerei, se consenti l’uso di una metafora generalissima, Potere. Se vuoi esempi concreti, posso dirti che il potere dell’immaginario pubblicitario ha un impatto spaventoso sui giovani. Non è che ci si possa fare molto. Ma, almeno, che chi pensa non gli suoni il piffero col dichiarare che c’è soprattutto da stare allegri, tanto è la natura, baby.
Questa gara a chi colpisce con più precisione un intellettuale con un cavolo irrancidito durante il litigio mi ricorda tanto, sai che cosa?, gli intellettuali ai convegni quando si piccano di aver trovato prove irrefutabili della coglionaggine del collega che ha scritto quel troppo famoso libro sui frammenti di Accio intorno a una tesi tanto insostenibile. Intanto, fuori dalla biblioteca, il Potere avanza minaccioso coi suoi mastini (è una metafora, eh, la trovi in Gaber: non prenderla alla lettera).
Per concludere, non incazzarti e vieni in classe con me: ti mostro, concretamente ed empiricamente, quanto funziona l’hegelismo ramolli di Mazzoni per la poesia.
Leggerò questo saggio quanto prima. Vorrei chiedere una cortesia. L’anno prossimo dovrò tenere una lezione per un’Università per adulti sulla letteratura italiana che riflette e racconta quella che qui viene definita la terza fase ( seconda metà degli anni Novanta – anni Zero). Ho individuato il romanzo “Dove eravate tutti” di Paolo di Paolo e sto cercando altri romanzi o racconti che possano essere pertinenti.
Grazie a chi vorrà propormi qualche titolo.
@ Lo Vetere
grazie per la risposta. Ammetto di essere sgradevole. Però il mio non è il tono risentito né del collega né di chi vuole abbattere l’intellettuale. E poi c’è un equivoco: non ce l’ho con la filosofia. Se per te utilizzare Hegel a scuola è ottimo, va bene (l’esperimento lo sta facendo qualcuno?). Ma che Hegel sia stato una mente brillante non vuol dire che poi si possano ancora usare le sue categorie concettuali per descrivere la realtà, se sono sbagliate (io non lo so, ed è irrilevante cosa penso). Tutto qua. Guardare la realtà da vicino non vuol dire affatto smettere di parlare. Nomini l’essere umano e il linguaggio. Ma: essere umano, o specie umana, sono etichette. Non esistono in natura. La natura è continua. Il linguaggio non è prerogativa umana. Questi sono fatti, che dànno luogo a ulteriori riflessioni, anche filosofiche, più precise di quelle di prima. Altro esempio: visto che nel libro si nomina la schizofrenia, anche se Mazzoni lo fa in una maniera che non capisco, e che neanche prova a spiegare, dandola per scontata, negli anni 50′ o giù di lì si diceva che i popoli pre-industriali non soffrissero di questo disturbo, perché era un disturbo della modernità (e si diceva anche che le malattie mentali fossero aumentate). C’era anche la corrente dell’antropologia culturale che relativizzando all’estremo proponeva che in differenti culture le patologie assumessero le forme proprie di quelle culture. Bene: sono andati sul campo a osservare e hanno smentito tutti. La schizofrenia c’era, e certe malattie mentali sono presenti in maniera uniforme a tutte le latitudini (per chi vuole controllare, Classi sociali e malattie mentali, 1955). Fine del discorso? No, fine di certi discorsi. Il fatto che la nostra mente funzioni in un certo modo, che sia influenzabile, che veda agenti intenzionali negli elementi naturali, che pensi che ogni evento abbia un significato eccetera (ovvero male per certi versi), non vuol dire che dobbiamo assecondarla. Per questo non chiedo che la gestione dei discorsi sia tolta agli intellettuali, chiedo analisi più precise.
Poi io mi calmo, e ci vengo in classe con te (lo avrei voluto un prof come te, anche se poi a scuola ci sarei andato poco lo stesso), però chiedo cortesemente una risposta almeno a questo: dopo gli scritti corsari di Pasolini, si può scrivere nel 2015 che le persone occidentali si assomigliano tutte, si vestono allo stesso modo, hanno gli stessi valori ed eroi? Uno può seriamente scrivere una cosa del genere e non aspettarsi segni di fastidio epidermici da chi legge? Chiedo intanto se davvero Mazzoni lo pensa, e poi se quando l’ha scritto e fatto leggere in anteprima nessuno ha avanzato dubbi. Vorrei capire se tale descrizione è ascrivible all’uso simbolico e universalizzante del linguaggio o è semplicemente una descrizione sbagliata.
http://www.lescienze.it/news/2015/05/08/news/evoluzione_musica_stati_uniti-2600853/
Caro DFW, nessuna sgradevolezza. Per punti sintetici.
1) Io non direi che uso Hegel a scuola. Piuttosto, ho detto che per spiegare la storia e la storia della letteratura avere categorie forti e generali aiuta ad orientarsi e a dare un senso alle cose.
2) Hegel aveva idee sbagliate? A me pare che le idee di nessuno, almeno in filosofia, arte, letteratura, diventino “sbagliate”, dunque si possano abbandonare. L’umanesimo non è la scienza, e non procede per falsificazione progressive, bensì per un accumulo che è anche un perenne ritorno a se stessi. (Anche se è ovvio che anche nelle scienze umane ci siano cose che obbediscono alla regola della falsificazione: nel momento in cui dimostri che un’opera va attribuita a un autore e non a un altro, non è che qualcuno possa continuare ad attribuirla al primo, se c’è la pistola fumante).
3) Conosco anch’io la questione dei bias cognitivi. Non sono così informato di scienze cognitive da poterlo affermare con certezza, ma tenderei a credere che probabilmente si potrebbe dimostrare, perfino sperimentalmente (se qualcuno non l’ha già fatto), che quei bias cognitivi non sono degli errori, ma delle essenziali forme di adattamento alla realtà della nostra mente. Non puoi rimuoverle impunemente. Non puoi sradicare l’umanità dall’uomo (per farti un esempio: http://www.ilpost.it/2014/05/09/opinioni-fatti-vaccini-convinzioni/). Anche perché, caso dei vaccini a parte, che risulta ovviamente spiacevole o dannoso, dentro i nostri bias cognitivi a me pare che ci stiano praticamente i 9/10 dell’esperienza dell’uomo, che è un animale simbolico. Non puoi irrigidire in questo modo alcune scoperte neuroscientifiche. Quindi, sì, io sarei per continuare ad assecondare alcuni nostri bias cognitivi. Oppure, meglio, fare come suggeriva di fare Nietzsche: sarebbe bello se gli uomini avessero due cervelli, uno con il quale ragionano romanticamente e uno con cui ragionano scientificamente.
4) Nel campo del discorso “relativo VS universale” manco mi ci addentro.
5) Immagino che tu non voglia arrivare all’estremo di negare la stessa possibilità del linguaggio. Però ogni tanto, sì, oscilli fino a quel punto, mi pare, per esempio dove affermi che la natura è un continuum e l’etichetta specie umana non esiste. Be’, questo mi pare negare la possibilità stessa di parlare, o forse è solo una confusione tra il piano delle cose e quelle delle parole: nessuno sostiene che la “specie umana” esista nelle cose; però nelle parole sì, e il linguaggio è una parte così essenziale della nostra “natura” (Heidegger, ermeneutica, ecc… ma anche, visto che sono referenti culturali che forse ti fanno venire l’orticaria, ti cito un linguistca chomskiano, roba da scienza hard: leggi Parlo dunque sono di Mori. Per un, nonostante tutto, antiplatonico, materialista, darwiniano, come me, il suo discorso sull’impossibilità che la sintassi obbedisca alla legge dell’evoluzione lenta, perché o esiste o non esiste, ha fatto vacillare. Forse l’universo è davvero un libro grande e matematico, chissà, e Dio è la sintassi).
Io non sono così sicuro che un mondo nel quale gli intellettuali umanisti non possano fare le loro descrizioni (che possono, certo, convincere più o meno, considerate una per una) idiosincratiche e universalizzanti e tutto sarà verifica empirica e analisi ravvicinata sarà un mondo migliore. In effetti, neanche riesco a immaginarlo un mondo così. Forse quando la terra sarà abitata dagli dei e la specie umana sarà scomparsa.
I destini generali è un libro fraterno, il suo autore si mette in causa e, mettendosi in causa, si mette allo stesso livello del lettore a cui si rivolge, in questo senso il libro è fraterno e non paterno, non si mette al di sopra del lettore e non pretende di dettare verità assolute. Chi lo critica per la mancanza di queste verità non ha capito niente.
Il libro dispiega il suo senso nelle ultime pagine: è il libro di un malessere. Benvenuto questo malessere, che presuppone un arcaico ma profondo senso etico. Un senso etico che si trova spaesato ma che forse cerca compagni: se un’opera si può riassumere in due parole questa confessione di impotenza, questa ricerca, questa autoanalisi non dell’uomo occidentale ma di un uomo occidentale si può riassumere nei termini: “blanda schizofrenia”. Siamo tutti delle brave persone, è questo il guaio, e per questo la nostra schizofrenia è blanda. E’ la scoperta di una verità: siamo tutti brave persone. Per questo la cosa è così atroce.
Mazzoni può scrivere questo libro partendo dal suo io e cercando un dialogo con altri. C’è molta umiltà in questo libro. Probabilmente, se non fosse anche un poeta, non avrebbe potuto scriverlo con questo tono, perché un poeta non è quasi mai paterno, è fraterno.
@ DFW vs RB e Daniele Lo Vetere:
sinceramente trovo punti di mancanza di chiarezza in entrambe le posizioni: mi risulta che DFW vs RB criticasse il saggio di Mazzoni in parte perché contiene descrizioni della società di oggi non coincidenti con certi attuali dati delle scienze sociali (e qui già si potrebbe discutere in quanto tra gli scienziati sociali, anche se basano le loro teorie su massicci usi di dati quantitativi, non mi risulta che ci siano teorie della società aventi un consenso pari a quello del Modello Standard in fisica). Beh, bisognerebbe chiedersi se Mazzoni volesse davvero scrivere un saggio di sociologia.
Nelle parti in cui invece DFW vs RB critica invece le concezioni valoriali sul giusto e sullo sbagliato di Mazzoni, del tipo “Che i regimi si equivalgono: falso. In democrazia si vive meglio” allora in tal caso bisogna dire che da nessun dato empirico, come Hume insegna, si può dedurre un giudizio di valore (al massimo i giudizi di valore, per essere applicati a un ambito del reale, devono presupporre un’accurata conoscenza della realtà). Questo ovviamente, a meno che DFW con “In democrazia si vive meglio” intendesse con “meglio” un dato empirico del tipo “l’opinione che ha ogni abitante su quanto si è felice” ma, di nuovo da dati empirici non possiamo dedurre valori, e questo vale anche per i materialisti e antiplatonisti.
D’altro canto, non posso condividere del tutto l’affermazione di Daniele Lo Vetere: “Hegel aveva idee sbagliate? A me pare che le idee di nessuno, almeno in filosofia, arte, letteratura, diventino “sbagliate”, dunque si possano abbandonare. L’umanesimo non è la scienza, e non procede per falsificazione progressive, bensì per un accumulo che è anche un perenne ritorno a se stessi.”
Io direi piuttosto che nella filosofia le tesi più che venire falsificate, vengono valutate in processo ermeneutico di ricerca di valore in un contesto linguistico-sociale-culturale diverso dal nostro. Ci possono essere aspetti del pensiero di Hegel altamente dipendenti dal suo contesto originale e dunque di poco valore nei nostri tempi e altri aspetti del pensiero di Hegel invece più attuali e fecondi nel nostro contesto attuale, sebbene in buona parte reinterpretati adattandoli a questo contesto.
Per quanto riguarda arte e letteratura il discorso è ancora più complicato, perché sarebbe già alquanto riduttivo definire ogni cosa classificata come “arte” e “letteratura” come “un mezzo di conoscenza del mondo” comunque valido in base a certi parametri prefissati (uno potrebbe dire “e perché non definire arte e letteratura come ogni attività basata sull’immaginazione?” “e perché non pensarle come strumenti per catturare modi di sentire estremamente legati alla soggettività dell’autore eppure condivisibili dei fruitori?” e così via…).
Insomma, tutto questo per dire che certo semplicemente che non bisogna né dire di basarsi solo su dati e risultati empirici di scienze naturali e sociali in un saggio di critica sociale (cosa di per sè come già detto prima impossibile) né comunque escluderli del tutto (e questo, nella nostra società così complessa, in effetti è davvero importante, l’intellettuale di oggi non può che affidarsi a consultare specialisti di scienze naturali e sociali, fermo restando che le sue elaborazioni filosofiche o artistiche o letterarie, anche se considerano tali conoscenze scientifiche, esprimono contenuti che non dipendono solo da quei dati ma anche da interpretazioni dell’autore della realtà il cui valore si può argomentare in modo intersoggettivo).
@ Michele Dr
ecco, come concludi nel tuo pensiero. Una via di mezzo. Anche senza voler scrivere un saggio sociologico, si sta comunque prendendo parola per esprimere giudizi sulla società. Almeno per le cose osservabili un minimo di verifica non mi pare così grave pretenderla. Per quanto riguarda il tuo accenno al giudizio sulla democrazia, mi riferivo a un passaggio nel libro, nel quale Mazzoni elenca una serie di caratteristiche dell’ethos popolare, quello emerso dopo la mutazione i consumi eccetera. Chiaramente non sostengo un’oggettiva superiorità della democrazia, anche se tutti gli indicatori che assumiamo per giudicare la qualità della vita sono a favore della democrazia. Ma esprimo una preferenza, quella che secondo le caratteristiche dell’ethos popolare disincantato e cinico e avviluppato nel privato non dovrei avere.
@ Lo Vetere
1) d’accordo, e sul piano letterario poetico e didattico mi tiro indietro e ascolto volentieri. Tra l’altro mi pare che uno dei primi saggi sulla poesia che ho provato a leggere sia stato proprio di Mazzoni, ma all’epoca avevo letto una cinquantina di libri in tutto, quindi non aveva molto senso. E quello sul romanzo lo vorrei leggere.
2) arte e letteratura ok. Filosofia no, su questo dissento. Che poi la filosofia sia più una faccenda di porre questioni e rifletterci attorno lo capisco, a fatica, e non ho certezze. Quindi d’accordo sul fatto che l’umanesimo non è una scienza, ma questo non significa che le sue idee non vadano poste a verifica, quando sia possibile e sensato farlo. Pensiamo a tutte le scemenze dette sugli animali e sulle donne.
3) d’accordo sull’adattamento, o meglio, strategia euristica che in certi casi è utile (avvertire un pericolo in fretta) e in altri no (quando la paranoia da costruttiva diventa distruttiva). Il bias che ti fa credere che un tale vino sia buono è anche utile, perché effettivamente te lo godi di più; il bias che ti fa giudicare male uno studente no. E come racconta Kahneman che partecipò alle selezioni per l’esercito israeliano, le sue e altre considerazioni del team espresse sulle reclute erano puntualmente smentite nel corso del tempo. Mentre stilare un protocollo standard gli permetteva di predire meglio chi era più adatto o meno. O, caso molto più importante, anni fa a neonatalogia i sintomi venivano giudicati dai medici sulla base della loro esperienza. Poi un’infermiera si mise a capire cosa non andasse in certi casi e stilò un protocollo di istruzioni standard primarie da compiere per capire se i neonati stessero bene o no. Tassi di mortalità abbassati di colpo. Aggiungo che più siamo consapevoli di come ci inganniamo e meglio facciamo fronte a tali inganni, insegnando agli studenti come si ragiona e come si fa fronte a tali condizionamenti. Chiaro che poi nella condizione di genitore l’emotività gioca tutt’altro peso, ma non per questo gliela diamo vinta ai bias no? Si potrà pure contrastare il capitalismo e qualche bias. L’umanità evolve.
5) troppe cose sono fuori dalla mia portata, però grazie del consiglio di lettura. Credo di non aver capito bene, e di essermi espresso male in precedenza. Non nego la possibilità del linguaggio. Sapendo che quando parliamo di “specie” stiamo parlando di una cosa che vuol dire e non vuol dire dobbiamo stare attenti a generalizzare a partire da quella nozione. Poi non è che sono una specie di dittatore che vuole abolire le descrizioni universalizzanti. Però, dato che la sostanza c’è (e anche la bellezza, certo), è proprio indispensabile usarle così frequentemente? Lunga vita agli umanisti, o magari post-umanisti, però credo che da maggiori verifiche e sostegni empirici ne abbiano da guadagnare anche loro, e tutti noi (e pure il disagio).
a DFW vs RB
“La pura immanenza: vero, perché questa è la vita. Sono stati solo religiosi e filosofi stupidi a pensarla diversamente e a infliggere le loro paturnie agli altri.”
Questa mi è veramente piaciuta, complimenti. Perchè tu potessi formulare questo aforisma ci sono voluti millenni di evoluzione, dal paramecio all’uomo (e ritorno?).
Facciamo così: visto che “in democrazia si vive meglio”, mettiamo ai voti la trascendenza. Prima, però, battaglia spietata sulla legge elettorale: molto se non tutto dipende dal collegio elettorale. Io gli elettori me li compro con il paradiso, tu cosa gli dai? Gli ottanta euro?
beh, guadagno solo cento euro al mese, quindi me ne resterebbero venti. per cui mollo il partito della nazione e mi acco(r)do al piano di sopra.
Ok, vedrai, in paradiso ricchi premi e cotillons.
L’ho finito adesso. Libro stupendo.
Se le cose vanno come vanno è perchè si cede alla constatazione,magari colta ed originale,ma ininfluente nella comunicazione sociale. E invece è il prendere posizione,il crederci,che agisce come cristallo attrattore di condotta. Quelli che stanno distruggendo Palmira, ma anche i nazi, hanno tutti preso posizione. Perchè chi rifiuta violenza non lo fa?
Ho letto I destini generali . Rappresenta molto il mio stesso disagio, la mia stessa vergogna per la modernita in cui viviamo e che non ci lascia spazio per immaginare altro. Vado spesso a Berlino ed ormai …..quasi preferisco Napoli che almeno esibisce la depressione e non l eccitata finzione dei nostri tempi.
Bel libro e bella collana
Un detto popolare delle mie parti (Sicilia), recita: “Megghiu pessi, ca depressi” (Meglio persi [disastrati, scombinati, poveri in canna], che depressi).
Leggerò il libro con curiosità. Le osservazioni di @Ennio Abate mi sembrano pertinenti, ma lui, si sa, è di un’altra generazione, meno male.
Però, anche a leggere certi passi (e certi commenti), un certo rifiuto dell’intellettuale avvitato su se stesso sorge pure a me, e verrebbe da chiedere, come disse Giovanni Verga, che venissero offerte “le lacrime delle cose”, risparmiandoci invece “le lacrime vostre”. Cose da letterati…
Forse sarà “fraterno” come libro, nel senso che potrà “narrare” il disagio di molti “intellettuali di se stessi”, ma ho qualche dubbio sul “compagno”, come qualcuno qui ha detto, e non perché lo stalinista di turno vuole togliergli lo status di militante doc, ma perché i compagni lottano per un fine, e io non ho ancora capito – conosco un po’ il pensiero di Guido Mazzoni – quale sia il fine di Mazzoni e/o se lotti.
Comunque, non è (ancora) mio compagno. Senza offesa, naturalmente.
Luperini e Zinato su I destini generali:
http://www.laletteraturaenoi.it/index.php/interpretazione-e-noi/365-impotenza-politica-e-stato-di-minorit%C3%A0-%C3%A8-possibile-solo-una-forma-di-disagio.html
http://www.laletteraturaenoi.it/index.php/interpretazione-e-noi/367-disagio-o-disperazione-impotenza-politica-e-stato-di-minorit%C3%A0-2.html
@laletteraturaenoi.it
Romanello e Tricomi su “I destini generali”:
http://www.treccani.it/magazine/societa/Mazzoni_l_uomo_contemporaneo_non_ha_piu_un_destino.html
http://www.ilponterivista.com/blog/2015/06/04/rimarrebbe-pur-sempre-spartaco/
Scriverò su questo libro, che è importante, scritto bene, e sopratutto prende davvero il toro per le corna, toccando uno dei nervi scoperti della nostra condizione di individui delle società democratico-liberali. Scriverò su di esso, anche per sottolineare però i rischi e i limiti dell’impostazione che, a mio parere, l’autore decide di dare al suo discorso, sopratutto nella prima parte. Non è qui il contesto adatto per discuterne, ma trovo che sia più convincente il Mazzoni fenomenologo che quello teorico. Più in generale, penso sia necessario un libro di critica della cultura lucido come questo, ma sarebbe ancora più necessario avere una critica della cultura in grado di articolarsi con delle analisi politiche altrettanto solide. Ed è questo doppio (e difficile) binario di riflessione e documentazione che più scarseggia nella letteratura contemporanea.
@ Andrea Inglese
PER INCORAGGIARE UN GUIZZO CRITICO NELL’ANNO 2015
Come nel disagio si ritrae lento,
Andrea, e serio il Mazzoni e in sé diviso.
Ora che “I destini generali” nel fiele ha intriso
starà così per sempre austero e spento?
Ma quel che di anno in anno ha in noi deriso,
dottorando e poetando, non lamento:
se Obama ha vinto e un mondo è stato ucciso,
Guido ha pur pensato e con nobil sgomento.
Tu, che sulle figure dell’attesa tanto perbene
intervenisti in quell’obliato convegno di Siena,
dove il Nostro di Marx e della storia ribadì l’indecenza,
su ‘sto libro «che è importante, scritto bene,
e sopratutto prende davvero il toro per le corna»
dacci presto la tua acuta sentenza.
@ DWS vs RB
A un certo punto scrivi: “Il linguaggio non è prerogativa umana.”
Puoi motivare per favore questa frase? E ti prego di motivarmela senza l’utilizzo del linguaggio. Grazie
@ andrea inglese
Ma come tu ben sai, la politica nasce come una branca della filosofia, dunque è essa stessa cultura. Io credo dunque che se prima non ripensiamo una cultura non potremo ripensare nemmeno una politica. La politica è l’espressione operativa di precisi orizzonti culturali, e cioè di visioni del mondo. Sono queste che vanno riviste nel profondo, e in tal senso mi sembra di capire che il libro di Mazzoni ci provi.
@ Macioci
da vocabolario treccani ho scoperto che deriva da un diritto esclusivo, per estenzione caratteristica particolare. Il linguaggio non appartiene solo alla specie umana, dunque non è una prerogativa umana. Non posso ovviamente argomentare senza l’utilizzo di ciò che per comodità chiamiamo linguaggio, forse perché l’argomentazione è un’operazione che necessita l’uso del linguaggio. In questo caso il linguaggio è prerogativa dell’argomentazione.
estensione… (neanche l’ortografia è prerogativa)
Pare che prerogativa del linguaggio umano sia la capacità di mentire (e per conseguenza, anche di dire la verità).
“ Lunedì 15 giugno 2015 – Poi, quando riapro gli occhi dal sonnellino pomeridiano, sullo schermo della tv rimasta inavvertitamente accesa, c’è Elio Germano che recita L’Infinito. E allora, improvvisamente, fulmineamente, capisco che il sindaco di Salerno, il quasi governatore della Campania ha detto, a sua insaputa, una cosa infinitamente giusta quando ha parlato di « sinistra leopardiana ». Nel senso del regista, napoletano, Mario Martone, avrebbe dovuto specificare. Nel senso del cinema, cioè. Nel senso che la sinistra è un film. Nel senso che non c’è altro che questo, nel tempo delle facce, nell’epoca del « faccismo ». « E il naufragar m’è dolce in questo mare », diceva il bravo attore, con i suoi occhi irresistibilmente, cinematograficamente dolci. “.
http://www.repubblica.it/esteri/2015/08/11/foto/l_atleta_si_allena_sul_memoriale_per_gli_ebrei_assassinati_indignazione_dei_followers-120799505/1/?ref=HRESS-5#1