di Niccolò Scaffai
[È uscito da poche settimane il nuovo libro di Niccolò Scaffai, Il lavoro del poeta. Montale, Sereni, Caproni, Roma, Carocci. Ne pubblichiamo qui la Prefazione, con lievi integrazioni]
Nell’opinione comune, e a volte anche in quella del critico, la poesia è considerata come un genere assoluto, distante dall’esperienza concreta. L’accento viene messo ora sull’evocazione, ora sulle forme; ma in entrambi i casi la poesia non viene mantenuta dentro il sistema di relazioni, incontri, occasioni che motiva la scrittura e le dà sostanza. Eppure il lavoro del poeta consiste in questo: nel modulare la propria tecnica per rielaborare e accogliere la varietà delle circostanze in cui l’esistenza lo ha posto. Il libro che qui si propone mette al centro, in modo diretto e perciò inedito, questo tipo di lavoro, prendendo in considerazione e facendo reagire insieme tecnica e con esperienza, mostrando come entrambi siano all’origine di un’opera e alla base delle tensioni stilistiche e strutturali che le danno forma. Pertanto, Il lavoro del poeta, non si rivolge solo a chi studia la poesia italiana del Novecento dentro la scuola e l’università, ma anche a una fascia di destinatari (lettrici e lettori forti e partecipi del dibattito letterario) che intendono approfondire la relazione tra gli aspetti tecnici della poesia, i fattori storici e storico-culturali e le motivazioni individuali di un autore.
«Stento a chiamare lavoro vero e proprio quella serie di operazioni microscopiche e silenziose che uno compie dialogando con se stesso, in ciò favorito dal caso, stimolato da un incontro fortuito, da un volto, da un gesto, da un suono, da una rivelazione improvvisa che muova da un oggetto magari passato inosservato in precedenza, e perché no? da una lettura (di una riga piuttosto che di un capitolo, di una pagina aperta a caso piuttosto che di un libro intero)».
Così si esprimeva Vittorio Sereni in un intervento del 1980, a cui si richiama appunto il titolo di questo libro: Il lavoro del poeta (ora compreso nell’edizione delle Poesie e prose dell’autore, a cura di Giulia Raboni, Milano 2013). Sereni chiarisce come il ‘lavoro’ consista tanto nella gestazione, quanto nella messa in opera (modifica, ampliamento o scomposizione) della scrittura, cui presiedono sia ragioni di poetica intrinseche al sistema testuale, sia circostanze estrinseche, occasioni intellettuali e personali: gli incontri fortuiti e casuali cui accennava il poeta nella sua conferenza, spesso legati al dialogo con altri autori e altre opere, o al colloquio privato, compiuto per mezzo del verso, con gli amici e i destinatari di una vita. Quella vita intera da cui proviene il fascio di luce che illumina e può contribuire a spiegare la poesia nei suoi nuclei di senso anche più interni.
È proprio dal concetto del lavoro del poeta che ha preso ispirazione questo libro: le parti che lo formano sono altrettanti esperimenti critici di approfondimento e prosecuzione, o meglio di elaborazione in sistema, dell’idea sereniana, messa a frutto e svolta in parallelo con l’esperienza didattica e l’attività di ricerca: in particolare, per i commenti alle prose e alla Bufera di Montale, e a Stella variabile di Sereni. I capitoli che compongono il libro hanno come obiettivo primario l’esplicazione del testo e l’individuazione dei procedimenti che conducono alla sua forma definitiva; alla dimensione tecnica dell’analisi letteraria (fondata qui in prevalenza sul metodo stilistico, sulla critica delle varianti e su quella più propriamente genetica) si aggiunge però anche la considerazione della viva esperienza degli autori, del loro calarsi nel presente che gli è appartenuto, fatto di sentimenti, amicizie, persone, oggetti, libri, film, musiche. Non si tratta evidentemente di predicare una restaurazione della critica biografica, ma di costruire una prospettiva complessiva, inserendo e valutando questi elementi insieme ai dati storici e ai fatti formali cui ci affidiamo per capire e far capire una poesia, o un qualsiasi altro genere di opera letteraria.
Il punto di vista di questo libro può essere definito ‘particolarizzante’, sia perché non si presenta come trattazione sistematica, sia perché tende a mettere in valore i particolari testuali ed extratestuali che contribuiscono al senso delle poesie e dei libri presi in considerazione. Filologia e psicologia, scrittura ed esperienza. A questo punto di vista, e al relativo eclettismo che lo caratterizza, non corrisponde però un pensiero critico debole, ma una precisa e forte convinzione: che la critica letteraria non è storia aneddotica né filosofia, non è riassunto né microscopia della forma. Né tantomeno è un’esternazione apodittica, basata su pseudocategorie che vorrebbero esprimere militanza, ma rivelano soprattutto idiosincrasie (càpita spesso di leggere recensioni di poesia in cui non viene citato o interpretato neppure un verso). Crediamo invece che la critica sia la ricerca del nesso tra esistenza ed espressione, attraverso gli strumenti propri dell’analisi letteraria.
I capitoli si susseguono secondo un criterio cronologico di massima, alternando panoramiche complessive su opere e poeti ad approfondimenti di taglio metodologico e letture puntuali di testi esemplari. Dapprima Montale, introdotto per mezzo di un capitolo metodologico: Come lavorava Montale (cap. I), che allude evidentemente nel titolo al celebre saggio di Contini, Come lavorava l’Ariosto; non si tratta tuttavia di uno studio dedicato solo alle varianti d’autore, ma di un contributo che intende valutare e collegare i diversi aspetti anche materiali della creazione poetica, fornendo interpretazioni di testi e riflettendo sull’opportunità delle scelte degli editori montaliani. Anche senza arrivare al caso estremo del Diario postumo (da riconoscere ormai come il peggiore, e poeticamente irrilevante, risultato di una clamorosa falsificazione), a distanza di molti anni e dopo la morte di un autore i margini della sua opera, nell’una e nell’altra direzione cronologica, tendano a farsi più vaghi di quanto l’ufficialità del libro stampato non lasci pensare. Di qui l’opportunità, in certi casi, di ricorrere ai documenti per cercare di capire dove finisce il lavoro del poeta e dove comincia la mediazione (e perfino l’arbitrio) dell’editore, del curatore, del critico. Per farlo, entriamo materialmente negli archivi e nella biblioteca dell’autore.
Montale è successivamente affrontato mettendo al centro i suoi due libri più importanti: Le occasioni e La bufera e altro. Vengono illustrati tanto i reciproci nessi quanto gli scarti e gli attriti tra i temi e le forme delle due raccolte, anche attraverso la lettura ravvicinata dei rispettivi componimenti finali: Notizie dall’Amiata (di cui viene data una nuova interpretazione, nel cap. 2) e Il sogno del prigioniero (di cui, nel cap. 4, si individuano i diversi livelli di lettura – storico-politico, biografico-esistenziale, letterario – e le intertestualità). S’indagano ‘fonti’ finora poco esplorate, cui Montale si ispira per inquadrare la propria vicenda nella cornice di un consapevole manierismo.
Proprio la categoria di ‘manierismo’ montaliano è al centro del capitolo 3: Dalle Occasioni alla Bufera: appunti sul manierismo montaliano. Gli elementi di continuità e di svolta tra le due raccolte sono esaminati alla luce di una dinamica di rincaro e amplificazione che conduce verso l’uscita dai canoni del ‘classicismo moderno’, uscita già pienamente realizzata nella Bufera (in questo, più distante dalle Occasioni di quanto la critica non abbia fin qui riconosciuto), in particolare nelle ultime poesie che ne fanno parte.
La sezione montaliana si chiude con un breve scritto che approfondisce funzioni e casistica della forma-intervista: L’intervista con l’autore: il caso di Montale (cap. 5). Nelle numerose interviste concesse dal poeta (e nei suoi scritti d’invenzione che imitano quel genere) si produce infatti un corto circuito tra narrazione e documento: un processo di entropia, in cui Montale lascia talvolta emergere elementi utili alla decifrazione dei suoi testi e al trasferimento del movente privato dal piano simbolico a quello letterale.
Il capitolo successivo ha quasi una funzione d’intermezzo, perché svolge una riflessione di metodo sul rapporto tra la composizione poetica e la scrittura epistolare di autori novecenteschi, riferendosi, oltre che a Montale, a Ungaretti, Saba e a Vittorio Sereni: «Una frazione di parte in causa». Lettere e apparati in edizioni di poeti italiani del Novecento (cap. 6). Fonti di varianti e autocommenti, le lettere chiariscono spesso le circostanze materiali o mentali all’origine di un’opera, e possono rivelare, dietro al primo piano della lirica, lo sfondo esistenziale a cui appartengono interlocutori e destinatari.
Il capitolo rappresenta l’ideale passaggio alla sezione sereniana del libro, che si sviluppa dapprima attraverso un’ampia analisi degli Strumenti umani in stretta connessione, tematica e metodologica, con le parti precedenti: «Il luogo comune e il suo rovescio»: effetti della storia, forma libro ed enunciazione negli Strumenti umani di Sereni (cap. 7). I fatti stilistici e le osservazioni sulla dinamica del macrotesto reagiscono con l’esperienza storica dell’autore (l’internamento, la mancata partecipazione alla Resistenza) e con le rappresentazioni di sé e della propria scrittura affidate da Sereni alle lettere e al dialogo a distanza con intellettuali come Fortini.
La parte su Sereni prosegue con la lettura ravvicinata di una poesia di Gli stumenti umani: L’alibi e il beneficio (cap. 8); qui la spiegazione letterale dei significati e l’analisi formale mettono ancora in luce quanto la genesi del testo (tra i meno studiati e commentati dell’autore) sia legata alla condizione storica del secondo dopoguerra. Il rapporto tra Sereni e Luciano Erba, evocato in L’alibi e il beneficio, contribuisce a spiegare il clima intellettuale e i moventi personali che la poesia sottende. Nel successivo capitolo (il cap. 9: Appunti per un commento a Stella variabile) si prende in esame il quarto e ultimo libro di versi sereniano: si propongono criteri e sondaggi sperimentati nell’officina del commento in corso, spiegando alcuni passi oscuri o difficili e riflettendo sulle strategie espressive dell’ultimo Sereni.
Il decimo e ultimo capitolo è dedicato a un altro dei poeti che, con Sereni, appartiene alla cosiddetta ‘terza generazione’, Giorgio Caproni, la cui opera in versi viene qui riattraversata per individuare e interpretare uno dei suoi tratti stilistici più marcati: Una costante di Caproni: «l’uso (in un certo modo) della parentesi». Lo statuto di quel segno è sospeso tra la dimensione grafica e quella stilistica, nella quale la parentesi si connota in relazione all’usus dell’autore e alle strutture dei testi. Tra le funzioni dello stilema vi è quella di mediare tra l’io e la realtà, di negoziare una formazione di compromesso tra i tentativi di controllo razionale sull’esistenza fenomenica e la dispersione, o piuttosto l’indefinibile estensibilità delle cose e dei significati.
[Immagine: Luigi Ghirri, Studio di Aldo Rossi (gm)]
Nel luglio del 1997 feci un piccolo commento sul “caso Montale” generato dal “Diario postumo” con questi quattro epigrammi. Non mi pare che la situazione sia cambiata di molto.
IL POETA SI DIVERTE
Andò il poeta un giorno dal notaio
con buste smilze di studiati lazzi
in sé già pregustando un ginepraio
di critici lai e d’ordinari scazzi.
Ora che tutto da via Solferino
sontuoso s’è levato lo schiamazzo
lui ne gode – oh tristo malandrino –
al pigro silenzio dell’estremo stazzo.
REPETITA…
Mandò versicoli di postremo canto
Ordinati pria in buste lasche.
Non fu creduto né poco né punto:
– Taccagno é il corpus di poetiche frasche
Apocrifo! – sentenzia motivando
Lume venerato di filologia.
Esulta Eugenio esilarando.
EXPERTISE
Lo disse già Raboni
lo certifica Isella:
i versi in questione
son semplice bavella.
ALLA CIMA
Annalisa ultima musa
mostraci alfine le carte
sicché tosto cada l’accusa
e chiaro appaia che parte
si ebbe il poeta nel gioco
se di spacciato prestanome
d’attizzatore del gran foco
o di demiurgo lepido e sornione.
Epigrammi arguti, anche se un po’ ruvidi.
Ma chissà cosa pensano, i negatori dell’autenticità del Diario postumo, di questi versi, sicuramente e pacificamente montaliani, inclusi nell’edizione Contini-Bettarini, datati 1980, finora pressoché sfuggiti all’attenzione degli esegeti. Difficile che possano alludere ad Irma Brandeis, che non scrisse carmina e non era più una bambina.
ALUNNA DELLE MUSE
Riempi il tuo bauletto
dei tuoi carmina sacra o profana
bimba mia
e gettalo in una corrente
che lo porti lontano e poi lo lasci
imprigionato e mezzo scoperchiato
tra il pietrisco. Può darsi che taluno
ne tragga in salvo qualche foglio, forse
il peggiore e che importa? Il palato,
il gusto degli dei sarà diverso
dal nostro e non è detto che sia il migliore.
Quello che importa è che dal bulicame
s’affacci qualche cosa che dica
non mi conosci, non ti conosco; eppure
abbiamo avuto in sorte la divina follia
di essere qui e non là, vivi o sedicenti
tali, bambina mia. E ora parti
e non sia troppo chiuso il tuo bagaglio.
Certo “bimba mia” e “divina follia” parrebbero a Mengaldo espressioni da “poeta della domenica”, indegne di Montale. Come gli appariva, nel DP, “figlia della luce” (sebbene Clizia, nella Bufera, sia “figlia del sole”, e “figlia della luce” sia, per D’Annunzio, la pietra dell’Ellade).
Chi abbia un minimo di sensibilità stilistica non fatica a sentire già qui la voce del Diario postumo, senza bisogno di contare la frequenza statistica di digrammi e trigrammi (ammesso che quest’utlima conti qualcosa in testi così brevi).