cropped-Architeuthissanctipauli.jpgSulla deriva della teoria americana

di Mimmo Cangiano

Sono venuto in questi giorni a conoscenza dell’azione congiunta che, da un po’ di tempo a questa parte, viene esercitata nel dibattitto intellettuale statunitense da una “Philosophy of Water” (https://philosophyofwater.wordpress.com) e da una relativamente recente teoria definita “Ocean Humanities and Media Studies.” Accademicamente parlando, tale prospettiva si situa all’incrocio di tre differenti discipline già da anni attive nel medesimo dibattito: gli Environmental Studies, gli Animal Studies e, ovviamente, i Media Studies.

Il presupposto di partenza è relativamente semplice e epistemologicamente certo condivisibile: esiste una connessione diretta fra lo sviluppo delle nostre prospettive gnoseologiche e l’ambiente in cui operiamo. Il passo successivo è ben noto a chiunque abbia un minimo di dimestichezza con la tradizione attuale dei Cultural Studies in connessione a branche ‘americanizzate’ dei portati post-strutturalisti e decostruzionisti: ogni costruzione teoretica risente del proprio occultato posizionamento di partenza che è dettato da condizioni di genere, razza, classe (sempre meno di classe!), luogo, specie (Animal Studies), orientamento sessuale, ecc.

 L’eliminazione di tale ‘occultamento’ (forzatamente identificabile con l’Astrazione marxiana) dà dunque luogo ad una prospettiva critica che vuole operare al contempo su un doppio binario: da un lato procede all’esaltazione relativistica come messa in crisi delle strutture identitarie che proteggevano il privilegio della posizione gnoseologica ‘astratta,’ così rivelandone la genealogia di Potere; dall’altro – e avremo le Identity Politics – si pongono alla difesa agonistica dell’Altro identificato come vittima e subalterno, cioè come non conforme al discorso sociale egemonico, ai cui parametri dunque si oppone mentre ne denuncia la ‘totalizzante’ arbitrarietà.

Nel caso specifico, l’alterità oceanica (e ciò che in essa è contenuto) passa chiaramente ad essere lo spazio di uno stravolgimento epistemologico che pone in crisi i concetti ‘terrestri’ rimettendo in discussione i portati teoretici e le nostre prospettive critiche, rivelandole così, e cito, in quanto “terrestrial biased” Il ‘calamaro’, insomma, diventa qui soggetto rivoluzionario o, almeno, ‘resistente’, elevando il discorso critico da un non più soddisfacente anti-eurocentrismo a un più mirato anti-geocentrismo.

Il discorso ‘terrestre’ come discorso di Potere è però solo il punto estremo (fino agli Alfa Centauri Studies) di una prospettiva etico-epistemologica su cui vale sempre più la pena di riflettere. Non si ha qui infatti nessuna intenzione di lanciare un O tempora, o mores! sulla decadenza del marxismo o di, tantomeno, più tradizionali studi storico-letterari (non è questo il punto!). Si vuole invece cercare di ragionare sullo sviluppo egemonico (egemonico chiaramente riguardo l’università, non la società) di tali posizionamenti, in rapporto tanto alla decadenza (storica!) di un’idea di Prassi in favore di un’idea di Critica, quanto al ruolo degli intellettuali in tale strategia. Neppure si tratta, dunque, di riprendere la posizione espressa da Walter Benn Michaels nel 2006 (The Trouble with Diversity. How we Learned to Love Identity and Ignore Inequality). O meglio, se la tesi riguardante la coatta trasformazione delle differenze economiche in differenze culturali sarà un punto certo presente al mio discorso, vorrei invece provare a mantenere solo sullo sfondo la condivisibile ma problematica connessione fra il farsi egemonico di tali posizioni culturali e le politiche economiche neoliberiste.

 Non vi è davvero niente di strano nel fatto che l’arresto storico delle prospettive prammatico-politiche spinga gli intellettuali di sinistra, da un lato, verso la ricerca di differenti soggetti rivoluzionari, e, dall’altro, li faccia retrocedere su posizioni difensive che sviluppano nella teoria quell’azione trasformativa della società che la prassi, attualmente, non può dare. Ciò che è ‘strano’ è che il movimento retrivo venga immediatamente presentato come rivoluzionario. Anzi, a ben guardare anche in ciò non vi è nulla di particolarmente bizzarro, trattandosi di un tipico atteggiamento intellettuale (cioè di quella ‘classe’ che istintivamente percepisce le proprie azioni come non soggette a rivolgimenti storici; quella ‘classe’ che si percepisce come continuità) che Gramsci definiva “teoria-come-prassi”. E il fatto che il discorso teoretico gramsciano incentrato sulla battaglia ideologico-culturale sia ovviamente ben presente a queste nuove prospettive non complica il discorso, bensì lo semplifica, perché è chiaro che il punto dialettico – marxiano e gramsciano – secondo cui tutte le opposizioni teoretiche restano poi allo stato di ‘falsa coscienza’ finché non sono in grado di ‘afferrare’ la classe lavoratrice, è del tutto assente in queste posizioni.

Se, del resto, come sosteneva Lukács, il tradimento degli intellettuali nei confronti della propria classe di appartenenza sempre si basa sulla difesa di quei valori umanistici che la borghesia deve tradire nel passaggio dalla sua fase rivoluzionaria a quella reazionaria (a quella attestata nella difesa dello status quo), il movimento ‘critico’ di questi posizionamenti accademici riesce a salvare, al contempo, le ansie rivoluzionarie degli intellettuali stessi e la preservazione di tale status quo. In altri termini, la frattura fra teoria e prassi diventa il grimaldello ideologico mediante il quale una funzione critica – separata dal suo inveramento in un soggetto rivoluzionario che non si percepisca semplicemente come ‘vittima’ rispetto a quello egemonico, ma come elemento dialettico che vuol farsi egemonico – si considera immediatamente come prassi rivoluzionaria. In tal modo gli intellettuali trovano in questa funzione ‘critica’ un risarcimento psicologico, e inoltre, per la prima volta (dato che la lotta appare ora come eminentemente culturale) si ritrovano miracolosamente alla testa del movimento rivoluzionario. Se la lotta è prima di tutto lotta culturale, se è il discorso ideologico-culturale a tenere in sé i portati più alti delle valenze del Potere, è chiaro che sono gli intellettuali quelli che meglio possono confrontarsi con quello.

Al contempo però (e coerentemente con i loro presupposti di partenza) questi stessi intellettuali affermano di non poter parlare a nome del soggetto rivoluzionario da essi supportato, pena il rivestirlo con un ulteriore discorso di Potere, spauracchio di questo tipo di posizionamento (anche se non è chiaro chi parlerà per la vittima ‘calamaro’). Ora, mi pare evidente come tale apparente ‘modestia’ nasconda, ancora una volta, la volontà di considerare la dialettica storica su base esclusivamente culturale: solo non considerandosi – non considerando i loro presupposti teorici – come determinati a loro volta da quanto accade sul piano concreto della prassi storica, tali intellettuali possono rigettare tale apparente discorso di Potere. Dietro la modestia vi è insomma la credenza consueta nell’autonomia intellettuale: la credenza che il discorso intellettuale non sia a sua volta parte di una dialettica subalterna rispetto a quanto avviene sul piano della prassi, una prassi che ovviamente non è diretta né dagli intellettuali né dal soggetto subalterno da loro eletto ad elemento rivoluzionario. Solo il non-vedere tale relazione dialettica, focalizzando invece sul mero piano culturale, può infatti portare tali intellettuali a pensare il proprio discorso teorico come un discorso di Potere. Ma anche ciò è del resto parte integrante del ‘risarcimento psicologico’ di cui si diceva prima. E sia anche chiaro che qui non si vuole attaccare il posizionamento teorico in questione (ben più sfumato e complesso in tutti i suoi capo d’opera del modo in cui qui lo si sta presentando): il problema è l’egemonica diffusione banalizzante di questo tipo di posizionamento culturale.

La proliferazione sociale delle ‘vittime’ e la proliferazione accademica delle teorie sulle ‘vittime’ (proliferazione, ma questo si dica en passant, eminentemente merceologica e a pieno titolo inserita in un discorso di produzione/consumo che riflette le attuali modalità produttive) è portato inevitabile di tale posizionamento intellettuale. Il Potere, manifestandosi principalmente in forme e discorsi culturali, si fa infatti incredibilmente sfuggente e proteiforme, e permette, al contempo, il sorgere di formazioni oppositive di natura subalterna che attraversano la struttura sociale in forma rizomatica, dando così inevitabilmente luogo a relazioni di potenza in cui la vittima in una è necessariamente carnefice in un’altra, e dove (e la questione messa in tali termini appare in tutta la sua pericolosità) ogni carnefice sempre dispone della possibilità di farsi vittima. Il marxismo – per dare uno degli esempi più semplici e diffusi – è discorso resistenziale rispetto alla classe, ma la classe è a sua volta attraversata da discorsi di potere (rispetto per esempio a genere e razza) che non la rendono… come devo dire? degna? atta? a rappresentare un genuino moto rivoluzionario.

Sia chiaro: nessuno vuole qui negare la validità di tale presupposto rispetto a ciò che il marxismo è stato, ma mi pare evidente che l’intero discorso è continuamente a rischio scivolamento in una sorta di “misticismo dell’Altro” (Terry Eagleton ha recentemente affermato che l’Altro è ormai un nuovo Dio) che, rendendo tutti colpevoli, ha effetti paralizzanti per ciò che concerne il passaggio dalla teoria alla prassi, sottolineando dunque, una volta di più, come sia proprio l’elemento gnoseologico che la prassi comporta (“ora si tratta di trasformarlo”, cit.) a non voler essere assunto in rapporto dialettico rispetto a una teoria (a una cultura) che pretende di essere al contempo spiegazione del problema e suo superamento, e che dunque inevitabilmente rifiuta, come già detto, di riconoscersi a sua volta in relazione ad una prassi esterna.

Non può dunque stupire che sempre più all’idea di prassi venga sostituita un’idea di critica: il “critical thinking” è un mantra nelle università statunitensi, ma tale pensiero critico – quando non si irrigidisce su base volgarmente identitaria (e ora vi torneremo) – sembra parlare da un vuoto cosmico rappresentato dallo sgabello del giudice che difende tutti i discorsi ‘subalterni’, ma quell’apparente vuoto cosmico da cui l’intellettuale giudica tutti i discorsi di potere, è ancora il comodo spazio che gli ha creato la sua presupposta autonomia. Ma è proprio quella presupposta autonomia che lo fa subordinato alla prassi del ‘discorso di potere’ mentre, tramite la ‘critica’, lo risarcisce psicologicamente.

Il discorso critico marxista, si sa, implica una decisa presa di posizione identitaria. È quello che Gramsci intendeva dicendo che vivere significa essere partigiani. L’intellettuale sceglie di legare la propria critica alla prassi della classe che, in termini lukácsiani, produce un movimento storico finalizzato – in caso di vittoria, e solo in quel caso! – all’abbattimento dei discorsi implicanti uno status di ‘falsa coscienza’. Qui però il discorso identitario non vive – come nel caso delle identity politics – come posizione dell’Altro opposta alla Totalità surrogata propagata dal Potere, ma come risposta a questa di una Totalità reale (ma sulla presenza in essa dei calamari non so pronunciarmi), non ovviamente presupposta epistemologicamente o eticamente, ma realizzata nel suo farsi prammatico, nella storia, a cui la teoria stessa si approssima. Qui lo ‘sgabello’ di cui sopra è infatti inevitabilmente nella storia, nelle lotte prammatiche e culturali che la attraversano e in cui la posizione critica assunta è sempre la responsabilità di un giudizio non contro-assicurato da alcuna posizione di vittima, ma che vive nel rischio – storico – di restare vittima ed essere chiamato carnefice.

I discorsi di Potere (e ciò che ad essi vi è dietro!) sono sempre intatti davanti a noi, perché ogni egemonia non presuppone semplicemente la rivolta: ogni egemonia costringe la rivolta che presuppone ad agire nei termini posti dal discorso egemonico (e da ciò che ad essi è dietro!). Il tardo capitalismo ha mostrato da tempo la capacità di servirsi tanto dei discorsi ‘liberatori’ di matrice relativista, quanto dei discorsi identitari (e il funzionamento congiunto di questi due modelli nelle teorie in questione dovrebbe far riflettere). Credo che alla fine valga il solito punto: l’unica cosa che la cultura borghese non può accettare è la soppressione della funzione ideologica, perché ciò implicherebbe un mutamento di natura strutturale. Pensare di cambiare il mondo, semplicemente, “a colpi di cultura” e di critical thinking non pare un buon punto di partenza per far ciò. Il discorso storico mirato a rilevare la funzione, pur essa storica, delle prospettive culturali (siano esse etiche o epistemologiche) resta in fondo il nostro migliore alleato. Qualcuno pianga il calamaro!

[Immagine: Calamaro (gm)].

12 thoughts on “Il problema col calamaro

  1. Articolo molto interessante, che ben spiega alcune derive teoriche (di cui la “Philosophy of Water” rappresenta un esempio farsesco) di certa accademia americana. Mi pare di capire che il rischio fondamentale segnalato da Cangiano sia la sempre maggiore difficoltà a ristabilire un rapporto tra teorizzazione del conflitto (di classe, di genere, etnico-politico) e prassi storica.
    Alcuni punti che vorrei porre all’attenzione dell’autore, a partire da una prospettiva interna all’accademia statunitense:
    – a me pare che la genesi di tali derive sia da rintracciare nell’egemonia teorica—in ambito di studi letterari e culturali—del decostruzionismo derridiano. Senza negare i meriti che la critica decostruzionista ha avuto nel ripensamento di alcune categorie con cui la teoria letteraria e la filosofia hanno sempre lavorato, talvolta dandone per scontata la trasparenza (linguistica e storica), mi pare che sia stata (e sia tuttora in alcuni ambiti) l’intrepretazione integralista di questo tipo di critica l’ostacolo principale all’elaborazione di un pensiero che non si accontenti di proporre rivoluzioni discorsive;
    – a questo proposito, è interessante notare l’imbarazzo di molti di questi accademici “post-decostruzionisti” di fronte a fenomeni di conflitto reale che stanno interessando proprio in questi mesi gli Stati Uniti, su tutti la mai risolta oppressione socio-economica e poliziesca della comunità afro-americana. Imbarazzo collegato certamente al primo punto. (Breve nota esemplificativa—e disarmante: alcuni vanno sostenendo che “black lives matter” vada sostituito con “all lives matter”)
    – infine, sarebbe interessante integrare questo tipo di analisi con una prospettiva sociologica-bourdieusiana, così da valutare quanto lo status sociale derivante dall’operare all’interno dell’accademia, in cui capitale economico e simbolico hanno tutt’oggi un peso decisivo, influisca su questo tipo di teorizzazioni.

  2. Gabriele,

    sono in larghissima parte d’accordo. Non so bene se tutto il “peso” della questione possa essere attribuito al decostruzionismo (ma certo le famose lectures di Derrida negli States hanno avuto un peso specifico notevole), o piuttosto a una serie di portati fra loro assommati quali la French Theory (e mi spiace di prenderla così nella sua interezza – ma è del resto quanto queste teorie poi fanno), i Cultural Studies anglosassoni rivisitati attraverso la French Theory e “allontanati” dal loro specifico ambito marxista, e anche un certo New Materialism ora di moda che, più che al Marxismo a cui talvolta dice di guardare, mi pare vada verso ciò che Jameson recentemente ha con ironia definito “nuovo materialismo pre-marxiano”. E comunque, come ho scritto, il problema non è poi la teoria in sé, ma il suo grado di diffusione: era la sua condizione egemonica (e i motivi di questa) a interessarmi di più.

    La ringrazio per aver segnalato che si trattava del rapporto fra teorizzazione e prassi (chiudo del resto con un invito alla teoria – al discorso storico). Il punto non era dire “basta teoria!”, era proprio capire il “destino” di una teoria contestativa quando questa non riesce più a riconoscersi come determinata – almeno in parte – da un prassi esterna, quando cioè non riesce più a riconoscere il rapporto dialettico con questa.

    Il suo ultimo punto è interessantissimo e mi trova pienamente d’accordo. Lo toccavo in minima parte accennando alla proliferazione merceologica di queste teorie.

  3. Mimmo,

    sì, il discorso può essere allargato a tutti quei teorici riuniti sotto l’estremamente problematica etichetta “French Theory”. Mi pare però che il decostruzionismo si presti, forse suo malgrado (o forse no), ad una teoria la cui massima ambizione è autoalimentarsi in un infinito (e inane) pensiero autocircolare. Foucault, per restare in ambito francofono, credo presenti maggiori difficoltà per questo tipo di appropriazione.

    Sono assolutamente d’accordo sul fatto che il mantra eagletoniano “basta teoria!” presenti altrettanti problemi; si tratta in effetti di valutare quanto la produzione teorico-politica accademica possa entrare in dialogo con dinamiche concrete (oppressione di minoranze, produzione e circolazione di capitale, sia esso economico o culturale, etc.) senza scadere in ugualmente pericolosi anacronismi storici.

    Accennavo all’analisi sociologica bourdieusiana proprio perché mi pare che essa possa svelare quei meccanismi di campo che permettono la proliferazione e la legittimazione di questo tipo di ricerca accademica.

    Grazie ancora per il contributo.

  4. Anch’io credo sia giunto il tempo maturo per una riflessione sociologica seria sul sistema dell’università occidentale, poiché proprio in essa si scontrano parte di quelle spinte contradditorie tra forme dell’economia e forma del potere che costituiscono parte dei paradossi di questo strano capitalismo e, in definitiva, si legano al rapido deperimento della funzione dell’università nelle nostre terre ormai periferiche.
    Purtroppo non ho le competenze per verificare l’esatto rapporto tra il capitale economico e il capitale simbolico dentro l’università americana, di cui mi intendo poco (in Italia o in Francia il capitale simbolico detenuto dall’università è pressoché assente, a meno di considerare universitari figure di filosofi traghettratori di capitale simbolico dal mondo dello spettacolo a quello universitario, ma sempre a senso unico).

    Forse, si potrebbe partire dal considerare quante delle borse finanziate dalle fondazioni private statunitensi, non certo castriste, come Mellon, Carniage e altre, vadano a progetti di ricerca di natura identitaria, e quali ne siano i motivi (incremento del capitale simbolico tramite l’immagine morale, studio di settore per riorganizzazione del consenso, ecc…?). Non mi sembra, insomma, che qualsiasi discorso in difesa della vittima o condotto sulla base di una solidarietà più che altro posturale possa essere ritenuto al riparo dalle appropriazioni del sistema economico in cui nasce, dacché rinfunzionalizzare la diversità del mercato ai propri scopi aziendali è normale strategia commerciale. Non credo nemmeno, ma potrei sbagliarmi, anche se credo il saggio di Mimmo questo lo dica implicitamente, che le nuove classi d’intellettuali in USA possano godere dei benefici di cui hanno goduto i loro predecessori nei campus-riserva indiana. Mi sembra che nessuno sia al riparo dalla realtà, né più libero, oggi, nel tempo in cui ogni tuo discorso dev’essere mediato dalle possibilità di successo finanziario (ergo avere i fondi necessari alla tua sopravvivenza fisiologica, mentale e universitaria).

    Sul fronte prettamente scientifico, aggiungo questo all’ottima riflessione di Gabriele. Quando nel 1966 quella che sarà la French Theory va a Baltimore per il colloquio sulle nuove tendenze, in primis sullo strutturalismo, alla Johns Hopkins, nessuno certo si aspettava il superamento dello strutturalismo rivendicato dalla celebre conferenza di Derrida (cui s’aggiunge quello più letterario e stilistico di Barthes). La via d’uscita dallo strutturalismo è avvenuta cioè a partire dallo strutturalismo stesso.
    Non mi pare di vedere uno stesso spirito critico o capacità autocritica nelle correnti interdisciplinari a scopo identitario, cioè, lo stesso spirito critico dello strutturalismo verso lo post-strutturalismo. Alla critica decostruttiva dello strutturalismo, forma del pensiero che ha spaziato in tutte le forme della semio-sfera, è seguita una filosofia davvero più completa?

  5. Guido,

    cogli a mio giudizio alcuni punti fondamentali che espandono il discorso. In primo luogo che la nostra “perifericità”, detto in due parole, non ci esclude da quanto sta avvenendo. Pensare che la nostra subalternità ci metta in qualche modo “al sicuro” sarebbe follia. Ciò che accade negli States con qualche anno di anticipo si propaga spesso al resto del mondo in un paio di decenni: basta dare un’occhiata, per esempio, a quanto queste teorie abbiano già preso piede in Latino America.

    In secondo luogo il lato economico-lavorativo: un pensare egemonico non si costruisce certo solo con la “forza delle idee”, ma soprattutto a partire dai fondi che queste idee sorreggono. Questi fondi sono ciò che il sistema universitario statunitense definirebbe come “mercato”, un mercato che nei fatti influenza profondamente le direzioni della ricerca. Non si tratta di eliminare gli altri posizionamenti (e la “guerra di posizione” è svolta anche da chi sta vincendo), si tratta di costringerli ad operare su un terreno in cui partono inevitabilmente in svantaggio, si tratta cioè di costringerli a piegare le direzioni di una ricerca includendo gli elementi ‘graditi’ a questo tipo di posizionamento culturale, spesso in barba (e ritorniamo al discorso storico) a qualsiasi… ermeneutica storica. E dunque, per dirne una in soldoni, non “Leopardi e la Grecia” (sparo così), ma “Leopardi razzista per alcuni giudizi sui nativi americani”. Così, inevitabilmente, le direttive egemoniche si propagano e si rafforzano. Mentre l’ermeneutica pre-marxista invitava alla collocazione del ‘fatto’ nel suo quadro storico, e l’ermeneutica marxista invitava ad un’analisi del ‘fatto’ mediante tanto la sua collocazione storica, quanto il suo posizionamento nella totalità della dialettica storica (fra passato e presente), qui la posizione critica, rigorosamente anti-storicista, conduce ad un appiattimento del passato sul presente che impedisce di comprendere tanto il passato quanto il presente.

  6. Esempio. Questo CFP mi è appena arrivato:

    “We welcome papers that seek to explore new directions in the study of gender in Boccaccio’s works, specifically research that aims to focus on contextualizing questions of gender within the author’s historical contexts.”

    Il fatto che gli autori del CFP sentano il bisogno di ribadire “within the author’s historical contexts” ti spiega bene il problema (i papers su Alatiel femminista postmoderna non mancano). Il problema è che se va declinando la capacità di pensare la totalità della dialettica storica, e dunque la capacità di porre in TALE totalità le critiche al nostro presente (fra cui certo rientra anche la questione del genere in Boccaccio, ci mancherebbe!!!), ecco che l’appiattimento del passato sul presente – l’attualizzazione – pare diventare l’unica possibilità di critica. Ma senza quella “totalità” tale critica diventerà la reiterazione di una presunta resistenza culturale che però è destinata a rimanere parte di ciò che vorrebbe combattere.

  7. L’articolo e’ senz’altro interessante, ma la critica ai cultural studies e al “critical thinking” mi sembra aspecifica. In ultima istanza, riproduce pari pari la stessa critica che il marxismo piu’ o meno ortodosso avanzava negli anni settanta nei confronti della teoria critica francofortese, cui si obiettava di essere una forma compensatoria e elitaria di teoria-come-prassi: il “rinvio della prassi”, secondo una formula circolata anche in Italia.

  8. Bhé, ma le dinamiche storiche e il tipo di critica portata dai nuovi studies, così come il modo di intendere la prassi, mi paiono del tutto differenti e penso di averlo fatto notare. Qui non si tratta assolutamente del “rinvio della prassi” di Vacatello né del “grand hotel abisso” descritto da Lukacs, né si tratta di quel lavoro teorico destinato a far emergere contraddizioni mediante le proprie contraddizioni (e la baldanza di tali studies dovrebbe fungere da controprova, così come prova dovrebbe essere la banalità schematica degli articoli accademici a questi studies collegati, distanti anni luce dai grovigli e dal linguaggio adorniani). Questa funzione critica non sta preparando, nel momento di regresso del movimento rivoluzionario, una possibile prassi futura: sta immediatamente ponendo la critica (e la cartografia di questa critica) come momento e movimento rivoluzionario.

    E, come ho scritto, intende tale azione direttamente come prassi appunto perché, non riconoscendosi in rapporto dialettico con una prassi esterna, finisce inevitabilmente per svalutare il ruolo della prassi tout court. Cosa di certo non imputabile ai francofortesi.

  9. Aggiungo solo una cosa veloce per chiarire un punto: mi rendo conto che discutendo del rapporto teoria-prassi siamo immediatamente portati a discutere della relazione fra questi due termini in seno – facciamo a capirci – ad ambienti di sinistra (a cui certo anche questi studies appartengono); ma il modo in cui questa relazione si determina e viene intesa negli stessi ambienti di sinistra in questione, era nel mio pezzo presentata (come ha detto Guido sopra) quale effetto del rapporto fra una “teoria” di questi ambienti di sinistra e una prassi che non pertiene loro, una prassi cioè finalizzata al mantenimento dello status quo, che pure con la “teoria” di sinistra entra in rapporto dialettico. Era l’assenza della coscienza di tale rapporto in questi studies il centro del mio pezzo, ben più che la relazione fra teoria e prassi direttamente all’interno questi ambienti, che è un effetto di quella.

  10. Ma basta con beh e bhe, non siamo pecore!
    Be’, con l’apostrofo, prima era: bene.

  11. Scusate la domanda teppistica di un antiquato: la questione, è il caso di dirlo, abissale, sarebbe che il filosofo filosofa da uomo e non da sardina? Che il filosofo inscatola la sardina e la sardina non inscatola il filosofo? Che la filosofia della sardina non trova spazio nell’Accademia? Che i diritti della sardina non vengono inclusi nei diritti dell’uomo?

  12. Come on, Mimmo: you know that they talk the talk because they have to, but they don’t really mean it…

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