di Giorgio Falco
[In questi giorni è uscito Sottofondo italiano di Giorgio Falco (Laterza, collana Solaris). Ne pubblichiamo alcune pagine].
Facevamo azioni di disturbo, camminavamo nei corridoi dei reparti e parlavamo ad alta voce come se fossimo stati manager, il loro slang, la loro lingua. I manager volevano requisirci i badge per non permetterci più di entrare in azienda, ma qualcuno delle Risorse Umane ripeteva che non potevano farlo, eravamo lavoratori, ancora per poco.
Scioperavamo, le camionette della polizia arrivavano davanti alla sede, come da accordi con la Digos sfilavamo in corteo, bloccavamo il traffico in un senso di marcia, sul viale a scorrimento veloce che conduceva ai centri commerciali, alla tangenziale. Gli agenti camminavano annoiati, la paletta della polizia rilasciava riflessi come nei pomeriggi d’infanzia, quando cercavamo di captare i raggi e restituirli a una forma di macchia nei palazzi di fronte. Un’auto di agenti in borghese ci seguiva a chiusura del corteo. Andavamo sotto le finestre degli uffici direzionali, amministrativi, della «forza vendita», del marketing, del direttore generale, dell’amministratore delegato. A passo d’uomo, l’utilitaria tedesca – simbolo dell’azienda automobilistica che pagava agli operai, in Germania, un premio equivalente a sette nostri stipendi italiani – con gli altoparlanti legati sul tetto lanciava slogan paradossali per Milano, per l’Italia intera, e sentivamo addosso l’odio degli infelici al volante, dei padroncini che abbassavano i finestrini e urlavano dai furgoni: andate a lavorare! Senza la Digos ci avrebbero schiacciato. Eppure, per alcuni istanti, sentivamo la forza passeggera di un’eredità quasi inconsapevole, un’energia luminosa risalire dall’asfalto più nero, come se tutti i morti delle stragi eversive, neofasciste, mafiose non fossero stati inutili, ma un fatto fisico necessario, l’inizio reale, slegato dalla memoria e dall’urgenza del presente.
Avevamo recuperato letame all’alba, in uno dei pochi campi resistenti alla ’ndrangheta dell’hinterland, e viaggiato con i finestrini aperti per sopportarne l’odore, tra capannoni che si estendevano come una congregazione di ammutoliti dopo ore di chiacchiere. La puzza del letame si appiccicava ai sedili, alla pelle, non era nauseante, anzi, dopo un po’ era gradevole, una droga d’azoto e potassio riempiva i polmoni, il sangue saliva adulterato al cervello, una scia euforica tra le vene, nel traffico del mattino.
In sintesi, la merda potevate evitarla. Dopo i primi giorni di entusiasmo, anche la lotta diventava patetica. Per dimostrare il proprio attivismo, le segreterie nazionali dei sindacati proclamavano otto ore di sciopero in tutte le sedi italiane dell’azienda. Il corteo avrebbe sfilato nel centro della solita, distratta Milano: l’operosità divenuta collaborazionismo.
Il concentramento del corteo partiva dal luogo abituale, davanti al Planetario, l’edificio dove ci portavano da bambini per vedere l’universo racchiuso sul soffitto di quel palazzo del Ventennio fascista: i pianeti, i satelliti e le stelle. Ma il cielo fuori era occupato da cartelloni pubblicitari. Lì c’era stato pure lo zoo della nostra infanzia, un luogo tristissimo, ero felice che l’avessero chiuso, chissà dove erano finiti i leoni. Sfilavamo e sembravamo un corteo di anziane scimmiette portate a spasso dai padroni del circo.
Gli interventi dei segretari nazionali – intervallati da campanacci e fischietti di assenso – erano retorici, li chiamavamo «pugni di velluto», per ribaltare il vecchio slogan buono sia per il sindacalista che per il venditore di successo: pugno di ferro in guanto di velluto. A noi non avevano dato la parola. Altri interventi erano pietistici, suppliche rivolte all’azienda. Abbiamo sacrificato la nostra gioventù, diceva una collega quasi in lacrime, al microfono. E poi il solito riferimento alla propria sorte, i figli, il mutuo, il caso umano, la replica vivente di un servizio televisivo con il suono di un violino in sottofondo, per solleticare l’empatia del telespettatore distratto, che già pensava all’indomani lavorativo.
Urlavamo basta, vogliamo essere rispettati in quanto esseri umani, e non perché padri, madri, re, regine, consumatori con ancora novantanove rate di mutuo e ventidue rate dell’auto: la vita è qualcosa di più dell’adesivo Bebè a bordo.
[Gabriele Basilico, Milano 1998 (gm)].
Ma è un testo di Giorgio Falco, o un testo scritto da un Gherardo Bortolotti dopo aver fatto indigestione dei romanzi di Nanni Balestrini?
beh è un complimento vero? è proprio una bella descrizione quella di sandokan qui sopra :D